“Io sono figlia di questo paese”
Emel Abidin-Algan 4 June 2007

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano tedesco Die Welt, con il titolo “Ich woltte mich selbst erkennen”, ed è il discorso di ringraziamento in occasione del conferimento del premio protestante “La parola impavida” ad una musulmana tedesca.

Io sono figlia di questo paese. Sono anche figlia di un grande amore tra i miei genitori. Da neonata sono venuta da Istanbul in Germania e sono cresciuta in piccole cittadine negli anni ’60 e ’70. Era un tempo in cui un musulmano era considerato ancora come un qualcosa di esotico. Così ho fatto solo esperienze piacevoli, quando a tredici anni cominciai a dare nell’occhio portando il velo. Attraverso mio padre ho imparato a conoscere e ad amare una concezione dell’Islam incentrata sulla fede in un Creatore. Lui era una persona che faceva quello che diceva, e che diceva ciò che pensava. Con il suo grande rispetto per l’intero creato si sentiva chiamato, in quanto medico, ad amare e ad aiutare le persone.

Con questa impostazione di vita si è impegnato per le problematiche sociali del crescente numero di musulmani in Germania, ed ha fondato la prima associazione islamica. Durante il mio matrimonio, che è durato 25 anni, ho avuto sei meravigliosi bambini, di cui cinque maschi. Prendendo esempio da mio padre mi sono anch’io impegnata, accanto ai miei studi e ai miei compiti di madre, nella realizzazione di progetti volti a soddisfare i bisogni e gli interessi dei musulmani locali. Con grande piacere ho ricoperto per diversi anni la mia carica onoraria come presidente di associazioni islamiche. Erano associazioni che si occupano dell’educazione dei bambini. Ho abbandonato la presidenza due anni fa e parlo oggi esclusivamente a mio nome.

Essere musulmano in Germania

Negli ultimi 40 anni moltissime cose sono cambiate nella vita dei musulmani in Germania. Vediamo oggi società parallele e ghetti, vediamo fondamentalisti e fanatici, e giovani musulmani che sono presi tra due fuochi. Vediamo una concezione religiosa che spesso, per una ignoranza abbinata a pregiudizi, produce notevole sfiducia e distanza tra i mondi, invece di unirli. Mi chiedo se lo status di minoranza abbia portato a cercare rifugio in questo modo di concepire la religione.
Come musulmano non si ha vita facile in questo paese, perchè nessuno ti pone le domande che potrebbero stimolarti a riflettere. Alcuni si trattengono per una presunta cortesia, ai più difetta la curiosità. Oggi dico a me stessa che probabilmente sarei stata contenta, se qualcuno dell’altro mondo mi avesse posto delle domande intelligenti e coraggiosi riguardo la mia fede. Forse mi sarei imbattuta molto prima in ciò che si intende per “motivi di rivelazione”. Invece, fu la polemica sul velo a darmi l’impulso per una ricerca più approfondita. Dopo un esame approfondito sia delle fonti teologiche che della mia realtà esistenziale, dopo più di trent’anni, ho detto addio al mio velo.

Il velo

Ognuno deve prendersi la libertà di fare delle nuove esperienze per proprio conto, per scoprire la propria via verso l’autocoscienza. Mia figlia, ad esempio, si sente molto a suo agio con la sua velatura in questo momento. Senza l’autocoscienza non ci può essere esperienza di Dio. E chi vuole conoscere Dio deve avvicinarsi alla creazione di Dio. Togliersi il velo, divenuto per me ormai scontato, non è stato facile, perché attraverso di esso avevo sviluppato una immagine di me stessa che era abbinata a dei valori morali. Ci sono voluti due anni di ricerche e di esperimenti per separarmene, perché io sono una persona che non ama fare delle cose a metà. La mia vita adesso non è che sia diventata migliore, perché è sempre stata buona, però è diventata completamente diversa, più emozionante e variegata. Le libertà che ho adesso, ne sono all’altezza solo adesso.

Soprattutto è cambiata la mia percezione da parte delle persone che mi circondano. Non portare più il velo, in pratica, significa innanzitutto: non dare più nell’occhio e non essere soggetta ad una pressione comportamentale, più libertà di movimento nel conoscere il mondo degli uomini, e non subire più possibili restrizioni nel mercato del lavoro. Le mie ricerche sulle fonti teologiche, e le mie osservazioni da una nuova prospettiva, mi hanno condotto tuttavia ad una spaventosa conclusione, e cioè che nel contesto di una concezione religiosa, che lavora con il Peccato e la Punizione e i Divieti, si veicola una immagine divisoria dell’uomo; un concetto di persona, che emargina le donne senza velo e che discrimina gli uomini. La cosa peggiore per me è che questa concezione reclami per sé il Creatore. Perché si potrebbe veramente pensare che il Dio dei musulmani abbia qualcosa contro le acconciature femminili.
 
Ma io sono sicura, che non ha nulla contro di esse. Moltissimi musulmani non sanno però quello che fanno, perchè non riflettono su questi collegamenti, non gli vengono fatte domande intelligenti da parte dell’ambiente che li circonda, e non vogliono abbandonare le abitudini a cui si sono affezionati, perché le abitudini danno sicurezza. Moltissime donne, che portano il velo, non conoscono neanche una realtà diversa. Proprio per questo un divieto di portare il velo sancito per legge non porta certo all’auspicata auto-riflessione. La libertà non si può imporre.

Responsabilità verso se stessi

Perciò ritengo che sia molto importante che le persone che vogliono assumersi le proprie responsabilità non siano soggette a restrizioni e non vengano emarginate, per doversi piegare all’immaginario altrui. Nuove esperienze uno le può fare solo se è garantita la libertà di movimento nella comunicazione interpersonale. Sono state queste nuove esperienze che mi hanno portato a riflettere, e mi hanno reso possibile dei raffronti al fine di prendere poi una decisione. Una esperienza importante è stata quella di realizzare che il Corano può essere inteso nel suo contesto storico. Oggi ad esempio, al contrario che ai tempi del Profeta, nessun uomo ha più bisogno di un segno distintivo come una velatura per non molestare una donna. Fatto interessante, era proprio questa una delle motivazioni per il versetto del velo nel Corano. Il problema del velo oggi si risolverebbe anche semplicemente se gli uomini parlassero delle proprie percezioni. Perché è degli uomini che si tratta, quando una donna si nasconde dietro ad un velo.

Oggi definiremmo i profeti come dei portavoce per le pubbliche relazioni di Dio, che per il loro tempo hanno fatto un buon lavoro, essendogli riuscito, attraverso la migliore capacità comunicativa, di attaccare energicamente e di spazzare via delle convenzioni sociali negative e sclerotizzate. Essi erano integri ed autentici, e portavano dei messaggi di prima mano da parte del loro Capo. Senza la fiducia delle persone non avrebbero avuto successo. L’Islam del Profeta Maometto era caratterizzato da una validità pratica quotidiana, cioè era orientato verso l’aldiquà, senza soffermarsi troppo sui simboli religiosi. Molto di questo offre oggi una base di saggezza, sulla quale già da secoli avrebbe potuto svilupparsi una crescita spirituale che corrispondesse alla pretesa di universalità. Oggi però in questi messaggi vengono visti dei modi di pensare, delle interpretazioni e in parte delle concettualità arcaiche, che per alcune persone di opinioni diverse divengono il pretesto per denigrarsi a vicenda. La maturità spirituale tuttavia non si serve solo della riproduzione di un sapere tramandato, ma rende possibile un collegamento creativo con la realtà della vita di oggi.

La mia fede

Io mi vedo giunta nella realtà di vita del nostro tempo, con una sensibilità religiosa che prima non conoscevo. La fede per me è diventata una questione interiore della crescita spirituale e della maturazione, che si esplica nel comportamento verso se stessi e gli altri, e che non può essere una questione di esteriorità. La fede per me è ciò che si può definire come relazione cosciente con il proprio Creatore. Finora per me si trattava più di un rapporto estraneo, perchè mi ero assoggettata ad un pensiero di gruppo che si relaziona ad un Creatore con dei rituali. Ora sono passata da questa sottomissione appresa ad una relazione più personale con il mio Creatore. Il mio figlio diciassettenne l’ha sintetizzato efficacemente, dicendo poco tempo fa: “Mamma, ma tu non sei più una musulmana, tu credi soltanto in Dio”. Non è forse sufficiente credere soltanto in Dio, per sapersi sempre ben protetti? Perché sentirsi soli non fa bene.

L’immagine di Dio

Ad una iniziativa dedicata al tema della “islamofobia”, due anni fa a Berlino, ho chiesto al relatore musulmano se lui vedeva un nesso tra la fede in un Dio punitivo e la violenza di certi uomini musulmani. Rispose: “Noi abbiamo tolto il Dio che punisce come strumento didattico dal nostro piano di studi”. E’ arrivato il momento per quegli adulti, che hanno arrecato dei danni psichici attraverso l’immagine di un Dio punitivo, di assumersi le proprie responsabilità. Perciò prego le Chiese ed i musulmani di liberare il Creatore dal loro possesso intellettuale, in modo che il Creatore possa essere accessibile a tutti senza ostacoli. Perché una persona può riconoscere il proprio Creatore anche se riflette e percepisce con tutti i suoi sensi. Il Creatore con la Sua perfezione è sempre a disposizione del Suo creato.
Abbiamo urgentemente bisogno di una chiarificazione dell’immagine di Dio. Secondo la mia convinzione il Creatore, se riconosciuto per ciò che è, ovvero intelligenza compassionevole in perfezione, può condurci al dialogo al di là delle diverse appartenenze di gruppo. Il Creatore deve essere di nuovo posto al centro, come trait d’union universale nel mezzo del suo creato.

Tutto ciò che il Creatore desidera è per me racchiuso nella seguente, ben comprensibile massima che ci è stata tramandata: “Io ero un tesoro celato, ed Io ho dato vita alla Creazione, affinché essi mi riconoscano” (Sacro Hadith). Il riconoscimento del Creatore è una faccenda estremamente personale, ed ognuno ha la propria velocità, ed io mi rifiuto di accettare che il Creatore con i Suoi libri rivelati pratichi la lezione frontale. Nessuno può essere costretto al dialogo, e non si può neanche costringere qualcuno ad essere aperto a nuove esperienze. Ma forse ci può ancora riuscire, per senso di responsabilità verso i nostri figli, di arrivare ad una forma di dialogo in cui ci si presti anche ascolto, e in cui la critica venga riconosciuta come complimento.

Io auspico una concezione della religione che riconosca e promuova il pensiero indipendente come mezzo per la crescita e la maturazione spirituale.

Traduzione di Matteo Landricina

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