“Il villaggio globale ha portato individualismo e cosmopolitismo”
Una conversazione con Minxin Pei 21 December 2006

Minxin Pei ha studiato alla Shanghai International Studies University e alla Harvard University. E’ autore di China’s Trapped Transition: The Limits of Developmental Autocracy (Harvard University Press, 2006). Le sue ricerche sono statae pubblicate da Foreign Policy, Foreign Affairs, The National Interest, Modern China, China Quarterly, Journal of Democracy. I suoi editoriali sono apparsi su Financial Times, New York Times, Washington Post, Christian Science Monitor, e molti altri giornali.

Esiste secondo lei una “Sinic Civilization” che comprende Cina, Corea del Nord, Vietnam, Singapore, Taiwan e la diaspora cinese?

Penso che questo concetto sia in grado di descrivere solo l’eredità culturale di queste società. Ovviamente l’influenza confuciana è forte in ognuna di esse, ma rimangono molto diverse tra loro, e il concetto di civiltà non include solo la cultura, ma anche l’economia e la politica. Pertanto sono un po’ esitante nel metterle tutte insieme.

Come è cambiata la civiltà cinese negli ultimi decenni?

La civiltà cinese oggi sa guardare di più fuori da sé, ed è diventata più materialista e più individualista. E’ il risultato dell’integrazione nel sistema globale e della influenza dell’economia di mercato, che enfatizza individualismo, materialismo e cosmopolitismo.

Alcuni temono che la Cina rappresenti per l’Occidente la più potente minaccia di lungo termine. E’ d’accordo?

No. Il successo della Cina sarà un grande vantaggio per l’Occidente. Grazie ad esso può giocare un ruolo più attivo e positive nella politica globale. Ma se lo sviluppo della sua economia fallirà e non saprà conservare una stabilità interna, allora la Cina potrà diventare una vera minaccia per il mondo.

Samuel Huntington, nel suo “Scontro di civiltà”, vedeva nella civiltà islamica un potenziale alleato della Cina. Vedeva emergere una “Sino-Islamic connection”, in cui la Cina avrebbe collaborato sempre più attivamente con Iran, Pakistan e altri paesi musulmani. Questa “connection” è una realtà?

Penso che questa profezia non sia stata confermata dalla realtà. La Cina ha ben pochi interessi in comune con il mondo islamico, se si eccettua il petrolio (ma quale paese non ne ha?). La maggior parte dei suoi scambi commerciali sono con l’Occidente, a cui guarda come al suo modello di riferimento. Perdipiù, la Cina ha anche i suoi problemi con il mondo musulmano, se solo pensiamo che una sua provincia ha un movimento separatista islamico. E’ una situazione complessa.

Alle Nazioni Unite, però, Pechino spesso difende i paesi musulmani.

Non è vero. A volte li difende e a volte no. La Cina è molto realista e basa la sua politica estera su considerazioni di interesse nazionale, non di valori culturali.

Dovremmo temere che il modello cinese (benessere senza democrazia) alla fine diventi il modello più diffuso del mondo?

Prima di tutto, il successo economico senza democrazia è molto raro, e quindi non credo che la Cina abbia abbia provato di possedere un modello di successo. Se guardiamo alla storia del mondo, lo sviluppo economico senza democrazia e rule of law alla fine capitola. Perciò non abbiamo motivo di temere il modello cinese.

Il New York Times ha scritto che i Democratici avranno un atteggiamento diverso nei confronti di Pechino. Sarà così?

Sì, i Democratici non credono che la Cina sia una minaccia militare, ma pensano che Pechino abbia un impatto molto negative sul mercato del lavoro americano, e non mandano giù le performance del governo cinese in tema di diritti umani.

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