“La preghiera? Venga fatta in due lingue”
Mohamed Bechari (presidente Fnmf) intervistato da Marco Cesario 10 February 2009

Come è organizzata la formazione degli imam in Francia?

In Francia la formazione degli imam è diversificata. Ci sono gli imam formati all’estero nel quadro dell’ELCO (Enseignement de langue et culture d’origine), dei quali circa 120 provengono dall’Algeria, 60 dalla Turchia, una decina circa dal Marocco. Poi ci sono i cosiddetti predicatori, finanziati da altri paesi come l’Arabia Saudita, il Kuwait, la Libia o l’Egitto, i quali però non superano la cifra di 20 su tutto il territorio nazionale. La maggioranza degli imam sono quelli che in arabo sono noti come «taleb», spesso ex-operai di fabbriche che si sono convertiti alla funzione religiosa di imam. Di questi, circa il 45% sono di nazionalità marocchina, 25% di nazionalità algerina, 13% di nazionalità tunisina, 13% di nazionalità turca e 8% di nazionalità francese. All’interno di questa componente francese, in generale, ci sono studenti o ex studenti musulmani marocchini o algerini che hanno intrapreso la funzione dell’imam al termine dei propri studi.

Quando nasce in Francia l’idea di formare gli imam?

La maggior parte degli imam sono imam che si autoproclamano tali, non essendoci una scuola per la formazione ufficiale. L’idea di un Islam francese e di una formazione francese degli imam è nata tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, in un momento in cui la Francia si confrontava col problema del velo e di un Islam diversificato. E’ stato necessario creare un Islam francese, e così la comunità musulmana ha deciso di creare dei centri di formazione, tra cui ad esempio quello della Grande Moschea di Parigi o dell’Istituto Avicenna di scienze umane di Lilla. Questi centri non formano soltanto gli imam, ma in generale tutti i funzionari religiosi che possono lavorare alla contestualizzazione dei testi sacri, contestualizzazione che permette a tutti i musulmani di pregare e di praticare la propria religione in lingua francese. Ciò è diventato necessario soprattutto con la seconda e la terza generazione, che non sono più arabofone ma francofone.

Dunque ci può essere un insegnamento religioso dei principi dell’Islam e del Corano in una lingua che non sia l’arabo?

Presso l’Istituto Avicenna, per esempio, tutto il nostro programma e l’insegnamento stesso sono fatti in francese. Noi siamo il solo Istituto musulmano in Francia riconosciuto dalla legge 1815, che parla dell’insegnamento privato libero superiore ed i cui corsi sono al cento per cento in francese. Questo non significa che gli istituti che insegnano in arabo siano fuori dall’Islam di Francia. La nostra è semplicemente una scelta al passo coi tempi e con la situazione francese.

In Italia c’è stata una polemica in seguito alle dichiarazioni del presidente della camera Gianfranco Fini, che ha detto che gli imam devono predicare in italiano. Qual è la sua opinione in merito?

E’ un vero dibattito, ma in Italia la situazione è diversa dalla Francia. L’Italia sta cercando di solidificare il suo rapporto con l’Islam. Con la nuova immigrazione l’Italia si ritrova con circa un milione di musulmani ed è obbligata a riflettere su come creare delle strutture. Ma l’esempio francese non è un buon esempio per l’Italia, perché la situazione è diversa. La comunità islamica d’Italia è molto diversificata e non principalmente araba o magrebina come in Francia. In Italia c’è anche una comunità musulmana albanese o turca ad esempio. Dunque occorre pensare ad una soluzione adatta al paese. Per quanto riguarda la questione di predicare in una lingua europea o non-araba questo è un dibattito teologico esistente già presso i musulmani. L’Islam arabo è minoritario rispetto all’Islam non arabo. Sui circa 1,3 miliardi di musulmani nel mondo, neanche 350 milioni sono arabi. In India o in Indonesia ci sono centinaia di milioni di musulmani che non parlano l’arabo. La lingua araba è minoritaria nel mondo musulmano.

Ciò significa che gli imam possono predicare in una lingua che non sia l’arabo?

Non è una questione politica, ma solo teologica. Noi siamo arrivati ad un consenso. Anche la Chiesa ha avuto al suo interno questo dibattito. Occorre predicare nelle lingue europee o nella lingua dei testi sacri (latino, greco)? Noi abbiamo trovato una soluzione intermedia. Visto che la predica del venerdì ha luogo in due diversi momenti, abbiamo deciso che nel primo momento essa deve essere fatta in arabo, che è la lingua sacra del Corano, ma che il secondo momento della preghiera deve essere fatto nella lingua locale (quindi italiano, francese o spagnolo), ovvero nella lingua che sia conosciuta e riconosciuta dalle comunità locali. Io sono convinto che occorra praticare e far comprendere l’Islam attraverso le lingue locali. La seconda o terza generazione di musulmani non conosce neanche l’arabo. Inoltre l’arabo praticato nella funzione religiosa è quello classico e le dico che neanche il 10% dei musulmani riesce a capire questa lingua. Io sono per utilizzare due lingue nella stessa preghiera.

Mi può fare qualche esempio di una predica del venerdì fatta in più lingue?

Certo. A Malmo, in Svezia, ho assistito ad una preghiera del venerdì in cui l’imam ha predicato in quattro lingue. Un po’ in arabo, un po’ in svedese, in serbo-croato e in albanese. L’interesse della predica del venerdì è quella di fare passare un messaggio. Se il messaggio è diffuso in una lingua non comprensibile, la finalità della predica del venerdì non è raggiunta.

E’ possibile trasportare il sistema francese, quello della laicità, anche in altri paesi come l’Italia?

Il sistema laico alla francese non è trasportabile al di fuori della Francia, soprattutto perché non è un buon sistema. Gli altri paesi stanno percorrendo la via della “secolarizzazione” mentre la Francia è sola nel suo cammino di “laicizzazione”. La Francia stessa sta cercando di cambiare il suo modello ed il suo comportamento strettamente laicista. Il 18 dicembre scorso, per esempio, il ministero degli esteri francese ha firmato un concordato con il Vaticano per l’insegnamento della religione cattolica e per i diversi gradi di laurea, master e dottorato. Noi siamo per una laicità positiva o, come ha detto il papa, per una laicità aperta, una laicità che non deve trasformarsi nella nuova religione della nostra società. La laicità non deve trasformarsi in una lotta dell’ateismo contro la sfera religiosa ed in chiave anti-religiosa. La laicità deve comportare una coabitazione, la concordia, la pace, il lavorare insieme per il bene dell’essere umano. La separazione tra potere temporale e potere spirituale non vuol dire negare la spiritualità e la sfera religiosa, né deve tradursi in una caccia alla religione. La Francia ha vissuto momenti terribili nelle sue relazioni con la religione. Il peso della storia non deve dettare le leggi e le direttive politiche francesi. La Francia oggi resta sola nel suo cammino ostinatamente laicista, di fronte ad un’Europa multiculturale e multiconfessionale. La politica e le leggi devono essere laiche ma non è la società a dover esserlo.

http://www.marcocesario.it

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