La mancata integrazione
Maria Elena Viggiano 21 July 2009

Ottocento morti e tremila feriti, l’annuncio della pena di morte per i rivoltosi, la chiusura delle moschee di Urumqi per prevenire disordini e il divieto di radunarsi per la preghiera del venerdì. Il bilancio della repressione avvenuta nello Xinjiang è pesantissimo e, a testimoniare la gravità degli episodi accaduti negli ultimi giorni, è stata anche l’inattesa decisione del presidente Hu Jintao di non partecipare più al G8+5 per rientrare a Pechino. All’origine degli avvenimenti un malinteso: la falsa convinzione che alcuni lavoratori musulmani avessero stuprato due donne han (il principale gruppo etnico cinese), ha dato inizio a scontri in cui sono stati uccisi due uiguri. Questa è stato la causa di una serie di manifestazioni represse nel sangue dopo l’intervento di migliaia di uomini della Polizia armata del popolo, ma è stata soprattutto la scintilla che riporta alla luce il problema della mancanza di integrazione tra la popolazione degli uiguri e i cinesi.

La difficile convivenza tra le due etnie presenti nello Xinjiang, regione della Cina nord-occidentale, è per le autorità cinesi una spina nel fianco come il Tibet. Una problematica meno nota alla comunità internazionale, ma di portata maggiore, dato che si parla di circa venti milioni di persone di cui otto milioni sono uiguri, la principale etnia turcofona e di religione islamica presente nel paese. I musulmani cinesi hanno cercato di preservare il più possibile la loro identità etnica e religiosa, professando il loro credo, tramandando la cultura e la lingua, e sono riusciti a mantenere un tale distacco dal resto della popolazione cinese da conservare i tratti somatici originari. Pur non considerandoli un vero e proprio pericolo per le autorità, il partito comunista ha sempre provato a reprimere ogni movimento di matrice islamica per paura di un’ingerenza nella vita politica ed economica del paese, alternando però fasi di tolleranza per evitare rivolte.

La Rivoluzione culturale coincise con un periodo di repressione per i credenti di qualsiasi religione e nel 1966 Mao Tse Tung ordinò la confisca delle proprietà terriere dei musulmani e la distruzione delle moschee. Negli anni ’80 Deng Xiaoping attuò alcune riforme che videro una leggera liberalizzazione del culto ma, anche se si poteva credere nella religione islamica, in realtà era impossibile praticarla e gli imam dovevano giurare fedeltà assoluta al partito comunista. Gli anni ’90 sono stati invece lo scenario di una serie di scontri e violenze tra le autorità cinesi e i sostenitori dell’indipendenza dello Xinjiang, quali la rivolta di Baren o le bombe di Urumqi che provocarono decine di morti. La situazione però si è inasprita dopo l’11 settembre 2001 quando i leader cinesi hanno iniziato ad accusare i gruppi etnici musulmani di essere “terroristi, separatisti ed estremisti”. Nonostante ciò, Pechino non può permettersi di perdere la regione dello Xinjiang per motivi economici ed è costante il processo di sinizzazione della popolazione.

La Regione autonoma uigura dello Xinjiang, come è stata rinominata nel 1955, è infatti ricca di giacimenti di gas, petrolio e minerali. Anche se sono difficili da sfruttare, a causa delle condizioni climatiche e morfologiche, le risorse naturali potrebbero quindi essere utilizzate dalle regioni con cui confina come l’Uzbekistan, il Kazakhistan, il Turkmenistan e l’Afghanistan. La propensione della popolazione uigura ad avvicinarsi per motivi culturali e ideologici all’Asia centrale rappresenta per la Cina la possibilità di perdere un territorio strategico per futuri sviluppi commerciali. Così Pechino incentiva la presenza della popolazione han nella regione e, nello stesso tempo, tende ad allontanare i bambini dalle famiglie musulmane e istruirli come fossero solo cinesi, in modo da attuare un graduale processo di sradicamento dalla cultura di origine.

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