Le strategie di Erdogan
Marta Federica Ottaviani 3 July 2007

Istanbul

Erdogan ha detto che il lavoro svolto va ancora consolidato. E per farlo ha messo in campo tutte le strategie possibili. Una campagna elettorale sulla quale il primo ministro uscente ha investito molto e non solo dal punto di vista economico. Il premier ha chiamato alla sua corte i maggiori esperti di immagine e comunicazione. E, a differenza della passata consultazione elettorale, ha voluto fare tutto da solo. A partire dalle candidature. La lista, infatti, è stata stilata da Erdogan in persona, senza l’aiuto di Abdullah Gul e Bulent Arinc, rispettivamente il ministro degli Esteri e il presidente del Parlamento, fedelissimi del primo ministro e con lui fondatori dell’Akp. Una decisione, quella di Erdogan, che ha suscitato non poche polemiche fra i corridoi della sua formazione, soprattutto per la sorpresa del 14 giugno scorso, quando è stato pubblicato l’elenco di chi correrà per un posto alla Tbmm, la Grande assemblea nazionale turca. Oltre 40 donne candidate, 7 in collegi dati per vincenti, che per gli standard turchi equivale a un record assoluto. “La nostra miglior campagna elettorale sono i fatti – ha dichiarato il giorno dopo ai giornalisti – Avevamo detto che sarebbe stato dato più spazio alle donne e abbiamo mantenuto la promessa”. Il risultato sono stati oltre 3 punti guadagnati nei sondaggi e la messa a tacere di chi aveva tentato di criticarlo.

Non solo. Se da una parte Erdogan ha aggiunto, dall’altra ha tolto. E a saltare sono stati nomi eccellenti, considerati intoccabili dalle fazioni più conservatrici del Partito per la giustizia e lo sviluppo. Persone legate all’ex partito islamico del Refah (benessere), dichiarato incostituzionale nel 1997, esponenti cresciuti politicamente sotto la guida di Necmettin Erbakan, leader storico della destra islamica turca e padre spirituale di Erdogan e Gul. Un segno forte, di smarcamento verso il passato. Per dimostrare a tutti, anche ai suoi principali detrattori, che il suo partito oltre a islamico riesce ad essere anche moderato. Anche se le recenti polemiche sul velo, che hanno coinvolto la moglie e la figlia di Abdullah Gul, sembrerebbero dimostrare esattamente il contrario. Una corsa verso la riconferma del potere così spudorata che il premier uscente non ha disdegnato di utilizzare a suo favore anche argomenti che generalmente non gli sono proprio congeniali. Nell’ultimo mese, infatti, il Paese è stato attraversato da una nuova ondata di violenza da parte dei guerriglieri separatisti del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Le posizioni fra governo ed esercito in materia sono diametralmente opposte. I militari, ultralaici e molto scettici nei confronti del governo Erdogan, hanno chiesto più volte un intervento armato oltre in confine nord iracheno, dove si troverebbero le cellule più pericolose del Pkk. L’esecutivo ha sempre scelto la via della prudenza e della mediazione, anche a causa dei contratti petroliferi che il ministro dell’Energia turco stava cercando di chiudere nella zona di Kirkuk.

Ebbene nell’ultimo mese il primo ministro ha più volte aperto all’ipotesi di un intervento armato, raggiungendo due risultati importanti: raccogliere consensi da una parte, facendo leva sul “problema curdo”, da sempre molto sentito dalla popolazione. E, dall’altra, dare un’immagine diversa, più distesa, dei rapporti con i militari, dopo che lo scorso 27 aprile il Capo di Stato Maggiore turco, generale Yasar Buyukanit, aveva minacciato un intervento diretto nella vita del Paese. Sembrerebbe una marcia trionfale. Ma qualche strumento fa ancora in tempo a stonare. Dietro l’angolo c’è la Corte Costituzionale, la stessa che nel maggio scorso, dopo la bocciatura di Gul a presidente della Repubblica, era stata accusata dal premier di sparare contro la democrazia. Proprio l’alta corte è stata chiamata dall’opposizione e dal Presidente della Repubblica, l’ultralaico Ahmet Necdet Sezer, a deliberare sulla riforma costituzionale fatta approvare da Erdogan e dal suo governo in appena 10 giorni e alla scadenza del mandato. L’accusa è quella di voler cambiare la legge madre dello Stato turco per indebolire i poteri del Parlamento e dell’ordinamento giudiziario. Se la Corte Costituzionale rigetterà il ricorso, allora si andrà al voto in un clima relativamente tranquillo, certo meno teso di un mese e mezzo fa, quando lo scontro fra le istanze laiche e filo-islamiche aveva raggiunto livelli preoccupanti.

Ma se la Corte Costituzionale deciderà di annullare la votazione parlamentare, che all’apparenza si è svolta in modo regolare, allora sarà guerra aperta. E per vincerla la prima arma è riconquistare una maggioranza alla Tbmm plebiscitaria e compatta. Recep Tayyip Erdogan lo sa fin troppo bene e si sta preparando a una nuova battaglia, che potrebbe essere anche più sanguinosa di quella alle urne del prossimo 22 luglio. La Turchia ha bisogno di un nuovo presidente della Repubblica. Erdogan vuole imporre a tutti i costi un uomo dell’Akp. La carica più alta dello Stato permetterebbe al premier islamico moderato di controllare anche le nomine dell’establishment giuridico e di quello militare, ossia gli unici due poteri che l’ex militante islamico proveniente da Rize non è ancora riuscito a intaccare.

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