Copti e musulmani: chi vuole la tensione?
Massimo Campanini 15 October 2011

La convivenza tra cristiani copti (ed altre minoranze cristiane) e musulmani in Egitto è secolare. Quando gli arabi musulmani conquistarono la valle del Nilo nel 632, i copti costituivano la maggioranza della popolazione e tali sono rimasti anche per alcuni secoli successivi. È infatti probabile che solo attorno al X-XI secolo i musulmani siano diventati maggioritari, anche se in seguito il divario numerico tra cristiani e musulmani si è progressivamente accentuato. Il che dimostra che i musulmani non esercitarono particolari e gravi pressioni per costringere gli egiziani a convertirsi all’Islam. Attualmente, sebbene non vi siano statistiche del tutto attendibili, i copti si attestano tra il 10 e il 15% della popolazione, e dunque i musulmani tra l’85 e il 90%. La convivenza tra copti e musulmani, fatti salvi alcuni periodi di tensione tutto sommato abbastanza sporadici, è stata buona.

Varrà la pena di ricordare che all’epoca degli imperi fatimide (969-1171) e ayyubide (1171-1250), molto spesso si potevano trovare cristiani negli alti gradi dell’amministrazione, mentre i patriarchi delle varie confessioni godevano della considerazione dei sultani. Ancora tra Ottocento e Novecento, i cristiani rappresentavano parte cospicua della classe dirigente del paese (hanno espresso perfino un primo ministro, Butros Ghali), oltre ad avere loro rappresentanti nel commercio e nelle professioni liberali. Un altro aspetto che non deve essere sottovalutato è che, dal punto di vista antropologico e sociale, dal punto di vista degli usi e dei costumi, pochissimo distingue, in Egitto, i cristiani dai musulmani. Abitudini, tradizioni, modi del comportamento sono condivisi da persone pur distinte da una fede diversa e li rendono nella sostanza indistinguibili.

I rapporti tra copti e musulmani si sono, in buona sostanza, guastati a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. E ciò per il convergere di due tendenze opposte ma concomitanti. Da una parte, lo sviluppo dell’islamismo radicale o fondamentalista ha acuito, dal punto di vista musulmano, la differenziazione e la contrapposizione tra credenti e non credenti. Uno degli atteggiamenti più intransigenti dell’islamismo radicale è infatti quello di opporre (anche all’interno delle proprie file, si badi) chi pratica e condivide la vera fede e chi deve essere considerato miscredente. Alcuni tra i più esagitati hanno per ciò applicato ai cristiani una conventio ad excludendum.

D’altro canto, i copti hanno trovato una guida, per altri versi, intransigente nel papa (tuttora regnante) Shenuda III. Shenuda ha enfatizzato l’individualità e l’originalità dei cristiani nei confronti del musulmani, l’origine cristiana e l’identità originaria cristiana dell’Egitto; ha preteso (senza successo) che una quota fissa di seggi parlamentari fosse riservata ai cristiani; non ha posto freno, se pure non li ha incoraggiati, a quelle voci estremiste tra gli stessi copti che giungevano a considerare l’Islam una “religione ridicola” e a lamentarsi dell’eccessivo numero delle moschee. Più acuta è stata in questo quadro la percezione da parte dei cristiani di essere cittadini di serie B, di subire discriminazioni e ingiustizie, insomma di essere stranieri nella propria patria. Le presidenze di Sadat (1970-1981) e dello stesso Mubarak (1981-2011) hanno del resto spesso o fatto ricorso alla retorica islamica in una chiave di legittimazione, o operato ambiguamente nel tentativo di porre le istituzioni islamiche sotto il controllo dello stato. Ciò ha indubbiamente favorito una espansione dei privilegi dei musulmani e in parte le rivendicazioni dei copti sono fondate (per esempio esistono leggi che limitano la costruzione di chiese; la Costituzione prevede esplicitamente che il capo dello stato sia musulmano, eccetera).

Tuttavia, impostare la questione degli scontri settari tra opposte fazioni religiose negli ultimi tempi, dall’attentato di Alessandria il 31 dicembre 2010 ai più recenti tumulti tra copti e polizia, nei termini del non rispetto, da parte della maggioranza musulmana, della libertà religiosa della minoranza copta è improprio e fraintendente. Da una parte, non esistono vincoli reali alla professione del culto cristiano. Chiunque visiti il Cairo o l’Alto Egitto non vede limiti reali alla funzione aggregante e religiosa delle chiese. Dall’altra, le motivazioni che hanno condotto agli scontri sembrano assai più complesse, ambigue e, in fondo, pericolose.

È ben noto che i contorni dell’attentato di Alessandria siano rimasti oscuri e che voci non secondarie abbiano ipotizzato nell’azione omicida l’intervento addirittura delle stesse forze di sicurezza. Per quanto riguarda gli incidenti di Maspero dei giorni scorsi, non vi sarebbe da stupirsi che i dimostranti copti siano stati infiltrati da agenti provocatori che hanno scientemente voluto provocare la reazione dei militari. La spiegazione remota nell’uno e nell’altro caso può essere fatta risalire alla situazione interna dell’Egitto. Da alcuni anni, prima del 2010, il paese è stato attraversato da fremiti di rivolta, da lotte sociali intense e diffuse, da una riorganizzazione e maggiore incisività dell’opposizione.

Sollecitando le tensioni confessionali, il potere può aver avuto interesse a giustificare un’ulteriore stretta repressiva e un ulteriore giro di vite delle possibilità di espressione e di alternativa politica. Si trattava, insomma, approfittando delle inquietudini dei copti e dell’intransigenza dei musulmani più estremisti, di rafforzare quello stato di polizia che ha consentito a Mubarak di governare per trent’anni. Un gioco pericoloso, che ha cambiato volto e caratteristiche dopo la rivolta di piazza Tahrir (25 gennaio 2011), la caduta di Mubarak e l’avvio di un delicato periodo di transizione tra una fase autocratica e dittatoriale e una fase (potenzialmente) democratica del funzionamento delle istituzioni. Questa volta, a Maspero, si è trattato di rischiare una guerra civile pur di fermare il processo di transizione democratica; di opporre ancora una volta cristiani e musulmani per tentare di spezzare il fronte dell’unità delle opposizioni. Quale il mandante questa volta? Da un lato, le forze fedeli a Mubarak potrebbero non essere state definitivamente disperse e sconfitte; dall’altro, lo stesso esercito potrebbe mostrare non più un volto conversante con le esigenze popolari e sostanzialmente neutrale verso le rivendicazioni dei rivoltosi, ma un volto teso a conservare i privilegi delle forze armate nel campo economico e politico o addirittura a far sì che “tutto cambi affinché nulla cambi”, a far sì che si conservi il regime di Mubarak, senza Mubarak e i personaggi più compromessi col vecchio corso.

Potrebbe sembrare certamente fantapolitica, ma, ripeto, non credo che le motivazioni profonde delle tensioni interconfessionali abbiano davvero una motivazione religiosa. Bisogna considerare il fatto che esiste, ed è forte, un sentimento di identità nazionale egiziana, che ha lontane e profonde radici storiche, e che, nel novecento, è stato alimentato e accresciuto, dalle lotte anti-britanniche che hanno visto accomunati i laici del Wafd e i Fratelli Musulmani, al mito di Nasser e del suo progetto di egemonia egiziana sul mondo arabo. D’altro canto, la profondità ed esclusività del sentimento nazionale egiziano potrebbe o dovrebbe essere in grado di compattare i cittadini egiziani attorno a un comune progetto di crescita e di riforma e far loro accantonare, se non dimenticare, le differenze religiose e confessionali.

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