«Ma la Germania Est deve fare ancora i conti con la sua storia»
Angelo Bolaffi intervistato da Matteo Tacconi 19 October 2009

Professore, che tipo di paese è la Germania, a venti anni dalla riunificazione?

La Germania è un paese che rispetto a vent’anni fa è radicalmente cambiato. La svolta dell’89 e la riunificazione dell’anno successivo hanno stravolto l’Est tedesco. In meglio. Basta pensare che tutti i pensionati dei cinque Länder orientali ricevono lo stesso trattamento di cui godono i cittadini dei Länder dell’Ovest. Il welfare è lo strumento che ha reso la vita migliore: l’ex Germania Est è un paese di persone libere e ricche. Anche le infrastrutture hanno fatto la loro parte, comunque. È vero che la forza economica della Germania si srotola sulla direttrice sudovest. Ma nelle regioni orientali sono state costruite o ammodernate strade e ferrovie, il che ha favorito lo sviluppo economico.

Tuttavia a Est ci sono dei “paesi fantasma”, aree spopolate e depresse. La riunificazione ha avuto anche le sue facce negative. Non trova?

Gli errori li fanno tutti, ma la riunificazione, da fare subito, era l’unica possibilità che la Germania aveva. Una possibilità che ha garantito la pace in Europa, tra l’altro. Certamente la scelta che Kohl fece ha avuto un prezzo molto alto e ricadute negative in alcune aree. Ma se il Cancelliere avesse abbracciato un’altra opzione, diciamo una forma di transizione meno brusca, l’economia dell’Est avrebbe avuto, inizialmente, un tracollo molto più lento, ma è anche vero che oggi, senza i rimedi che si presero vent’anni fa – parificazione della moneta, estensione del welfare – le differenze tra le “due Germanie” sarebbero molto più marcate e a livello europeo ci sarebbe maggiore sbilanciamento.

Alle ultime elezioni federali Die Linke, una cui parte ha radici nel socialismo, ha ottenuto ampissimi consensi a Est. Che significa?

La Germania è molto cambiata, ma al tempo stesso, nei territori orientali, mantiene degli elementi di continuità sorprendenti. Il fatto che al voto di settembre, nei cinque Länder dell’Est, con l’eccezione della Sassonia, Die Linke abbia primeggiato, lo dimostra. Ci sono delle persistenze culturali che vanno oltre le condizioni materiali. La sovrastruttura – il punto è questo – conta a volte più della struttura. Ma a mio avviso Die Linke non reggerà.

Perché?

È una fusione a freddo. È formata, sociologicamente e culturalmente, da due anime che hanno pochi tratti in comune, che hanno fatto la scelta strumentale di allearsi, ma che a livello programmatico sono deboli. La piattaforma di questo partito è una somma tra la nostalgia di un keynesismo impossibile, forti risentimenti anti-europeisti e anti-globalilizzazione. La forza elettorale è dovuta, principalmente, alla forza carismatica di Gregor Gysi e Oskar Lafontaine, oltre che all’obiettivo, riuscito, di indebolire la Spd. Nella costola orientale della Linke c’è una forma di rimpianto che si traduce nel classico ritornello dello “stavamo meglio prima”. Ma chi dice questo dovrebbe accettare, per contrappasso, di tornare ai tempi della Ddr. Quanti, davvero, lo farebbero? Quando si dice che la Ddr era un regime totalitario, dotato tuttavia di forti elementi sociali, mi chiedo perché non si afferma lo stesso a proposito del nazismo, che certamente aveva una sua componente sociale molto forte. Però, quando ci si sofferma su tale questione, lo si fa criticamente, senza assolvere. Invece, la Ddr viene “perdonata”.

Nazismo e comunismo, i due regimi. A che punto è la memoria, nell’ex Germania Est?

Sul nazismo c’è stata un’operazione di autoassoluzione. La Germania Est si presentò come la Germania antinazista, la Germania migliore, la Germania incensurata, operando un colpo di spugna sul passato. La recrudescenza di fenomeni neonazi e xenofobi, a Est, sono la conseguenza di questo mancato regolamento di conti. Quanto alla visione della Ddr, ci vorrà molto tempo prima che i tedeschi dell’Est anatomizzino a fondo e in maniera corretta la loro vecchia patria, prima che s’ammetta che essa era una dittatura in piena regola. È che Die Linke blocca questa operazione, perché non c’è un background culturale. Ecco, direi che a Est i conti con la storia non sono stati fatti: né verso il nazismo, né verso il comunismo.

Si sostiene che a livello internazionale la Germania, dopo l’89, abbia adottato un approccio più autonomo e a volte svincolato dalle scelte americane. Approccio che prima, ai tempo del Muro, non sarebbe stato possibile. Lei che ne pensa?

Certamente la Germania è diventato un paese più consapevole di se stesso. Con l’esecutivo Schröder-Fischer c’è stato un mutamento di segno della Germania, verso se stessa e verso il mondo. La Germania di Adenauer e quella di Kohl non sarebbe stata capace di opporsi a Bush o di intervenire in Kosovo. La generazione dei Fischer, che ha fatto di Auschwitz la sua bandiera, ha invece promosso queste scelte per non ripetere gli orrori d’un tempo.

Germania e Unione europea. Anche qui è cambiato qualcosa?

La Germania di oggi è una Germania che apparentemente è più distratta nei confronti dell’Europa. C’è un raffreddamento dell’europeismo, come dimostra la sentenza della Corte Costituzionale sul Trattato di Lisbona. Credo che ciò sia addebitabile in buona misura a un atteggiamento culturale della Merkel, che ha una storia diversa rispetto ai precedenti cancellieri democristiani. Neanche Schröder, però, era caldo verso l’Europa. Ma poi conta, in questo, anche il “silenzio” dell’Italia. Bisogna sempre ricordare che nei momenti di stasi del processo di avanzamento europeista, il tandem italo-tedesco ha rimesso in moto l’Europa. La Francia ha un atteggiamento strumentale nei confronti dell’Europa, la usa sostanzialmente per controllare la Germania. Berlino e Roma, nell’integrazione, ci credono davvero. Ora le cose sono un po’ diverse. Ma l’Europa è l’unico orizzonte possibile, per i tedeschi. Anche perché Berlino, storicamente, è troppo forte per mantenere l’equilibrio e troppo debole per essere egemone. È proprio per questo che l’Europa serve. La Germania deve tornare a parlarne, a stimolare nuovamente il dibattito presso l’opinione pubblica. Nel suo ritorno alla vocazione europeista può essere aiutata anche dal pungolo italiano. Sempre che l’Italia, che su questo terreno è attualmente un po’ infiacchita, recuperi lo slancio.

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