La blasfemia negli Stati Uniti, i limiti del primo emendamento
Cristiana Cianitto, Università degli Studi di Milano 14 February 2014

Infatti, gli Stati Uniti, nonostante le affermazioni di principio sull’uguaglianza contenute nella Dichiarazione d’Indipendenza prima (1776) e nel Discorso di Gettysburg poi (1863), non hanno avuto una politica legislativa sempre diretta a garantire l’uguaglianza sostanziale e la dignità dell’individuo, tanto che tale enunciazione non ricompare nella Costituzione americana e la sua teorizzazione resta affidata all’opera interpretativa della Corte Suprema.

Diverso è il discorso per quanto attiene all’enunciazione dei diritti di cui il singolo è titolare nei confronti dello Stato. Tra questi, nell’ordinamento giuridico statunitense ha avuto ampio riconoscimento il diritto alla libertà di parola ed espressione sancita dal I Emendamento, con una tutela che si è sviluppata sia a livello costituzionale sia nella common law. Il Free Speech sta alla base della teoria liberale americana e dei diritti del singolo nei confronti del potere costituito. L’ordinamento statunitense si configura come un sistema di libertà dallo Stato più che di libertà nello Stato e la libertà di parola del singolo può cedere davanti ad altri diritti costituzionalmente tutelati solo entro margini molto stretti. In questo contesto, la tutela dei diritti del singolo diviene prioritaria rispetto alla tutela dei gruppi e, ancor più, alla tutela dei gruppi religiosi.

La religione, infatti, non può essere oggetto di tutela proprio ai sensi del medesimo I Emendamento che, mentre concede ampia garanzia alla libertà di manifestazione del pensiero, sancisce la terzietà dell’ordinamento giuridico rispetto alle religioni ed al loro esercizio. Il reato di blasfemia si pone, quindi, in netto contrasto con l’essenza delle garanzie costituzionali americane riservate al free speech, poiché, in ultima analisi, la blasfemia può essere considerata espressione estrema del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Nonostante ciò in alcuni stati della Federazione – Massachusetts, Michigan, Oklahoma, South Carolina, Wyoming e Pennsylvania – è ancora presente il reato di blasfemia che costituisce un retaggio storico dell’epoca della fondazione delle colonie. Tale legislazione, però, è disapplicata di fatto dagli anni ’70 del secolo scorso quando si registrarono gli ultimi processi.

Il I Emendamento tutela tutte le espressioni e, quindi, comprende anche la libertà di manifestare idee socialmente invise, quali il razzismo o l’intolleranza religiosa: reprimere tali manifestazioni, perseguendo possibili espressioni blasfeme, porterebbe alla discriminazione di coloro che sostengono idee socialmente riprovevoli (bigoted ideas) creando una sorte di thought crime, di censura preventiva. Il I Emendamento non copre, però, qualsiasi espressione del pensiero: ne sono escluse tutte le manifestazioni dirette a causare ingiuria a coloro che ascoltano o a produrre un’immediata rottura della pace sociale. La libertà di manifestazione del pensiero non è infatti assoluta, ma trova il proprio limite nella legge penale e negli altri diritti costituzionalmente tutelati (Chaplinsky v. State of New Hampshire 315 U.S. 568, 62 S.Ct. 766 [1942], R.A.V. v. City of St. Paul 505 U.S. 377, 112 S.Ct. 2538 [1992], Winsconsin v. Mitchell 508 U.S. 476, 113 S.Ct. 2194 [1993]). Ciò che diviene centrale, quindi, non è tanto il contenuto di un messaggio, ma le modalità espressive: ciò significa che la divulgazione di un contenuto blasfemo senza l’utilizzo di “linguaggi” violenti o istigatori è perfettamente legittima e coperta dalle garanzie approntate dal I Emendamento.

All’interno di questo scenario legislativo e sociale si articola il dibattito sugli hate speech e sugli hate crimes, imperniato sull’identificazione delle condotte la cui incriminazione sia costituzionalmente compatibile con il I e con il XIV Emendamento. Hate speech e hate crime sono categorie giuridiche, elaborate in ambito statunitense, che definiscono la complessa gamma di condotte dirette, nel caso degli hate crime, a individuare e reprimere i reati provocati da “odio” razziale, etnico, religioso, etc. e, nel caso degli hate speech, a perseguire quelle condotte dirette a diffondere e/o predicare “odio” tra i consociati per motivazioni sempre legate all’origine razziale, all’appartenenza religiosa, all’inclinazione sessuale e, in genere, ad altri elementi che possono essere il frutto di scelte personalissime dell’individuo.

Perseguire, come avviene negli Stati Uniti, gli hate crime piuttosto che gli hate speech risponde ad una diversa esigenza di politica criminale. Infatti con la criminalizzazione degli hate crime, le vittime verrebbero tutelate solo da quelle aggressioni che si risolvano in una diretta lesione della loro integrità fisica o del loro patrimonio. Nell’ordinamento americano non pare esserci spazio per un’incriminazione della manifestazione del pensiero in sé, anche laddove questa fosse lesiva della dignità e del decoro di altri cittadini, se non tradotta in attacchi diretti all’integrità fisica o al patrimonio di un soggetto determinato. Praticamente, questo significa che mentre non sussistono dubbi circa la punibilità quale hate crime, ad esempio, di un pestaggio degenerato in omicidio in cui la vittima sia stata prescelta solo perché appartenente alla comunità gay e identificata come tale all’uscita di un gay bar (caso avvenuto in South Carolina nel 2007), difficile è la perseguibilità di un cross burning (incendio della croce) quale hate speech posto in essere dai membri del Ku Klux Klan lontano da un centro abitato. Diversa situazione si profilerebbe qualora il cross burning venisse posto in essere davanti all’abitazione di una famiglia di colore in un quartiere a maggioranza bianca con il preciso intento di intimidire la popolazione di colore e di aizzare la popolazione bianca allo scontro razziale (si veda il caso Virginia v. Black 538 U.S. 343, 123 S.Ct. 1536 [2003]). In questo caso il cross burning diverrebbe diretta istigazione alla violenza e saremmo davanti ad un caso di speech-act diverso dal thought crime.

In anni recenti, i legislatori statali hanno cercato di porre in essere leggi che perseguissero gli hate speech con l’obiettivo di tutelare la dignità dei propri cittadini, con un occhio di riguardo per le cosiddette categorie deboli, quali gli immigrati di nuova generazione, gli afro-americani, gli omosessuali, le minoranze religiose, e via dicendo, che reclamano maggior protezione dalle istituzioni a causa dell’aumento della frequenza di fenomeni di intolleranza etnica e religiosa. Con queste leggi si è tentato di trovare un equilibrio tra salvaguardia del libero mercato delle idee e principio di uguaglianza.

Nonostante ciò, l’attuale modello statunitense non arriva ad un soddisfacente bilanciamento del free speech con altri interessi di pari livello. Posta l’impossibilità di concepire il reato di blasfemia, altrettanto complesso appare perseguire l’hate speech poiché, secondo la Corte Suprema, non è possibile anticipare la tutela ad un momento in cui altri diritti fondamentali non hanno ancora subito una lesione apprezzabile. Nel sistema statunitense, l’hate speech è quindi fattispecie i cui contorni finiscono per coincidere con quelli dell’hate crime. Il che se da un lato fa sì che ad ogni cittadino sia perfettamente chiaro quale siano le condotte che costituiscono reato e quale sia la sanzione corrispondente (principio di legalità), nonché quale sia il bene giuridico tutelato dalle norme (principio di offensività), dall’altro lascia di fatto privi di qualsiasi copertura giudiziaria manifestazioni di odio e intolleranza che divengono sempre più evidenti.

Cristiana Cianitto è ricercatrice confermata presso l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di scienze giuridiche “Cesare Beccaria” – Sezione di diritto ecclesiastico e canonico.


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