Quel facile capro espiatorio
Gianfranco Baldini 31 July 2008

Che ne è dell’Europa e dell’europeismo dopo l’ennesimo No referendario? Fino al voto irlandese del 12 giugno Sarkozy aveva in mente un’agenda molto ambiziosa per il semestre di presidenza francese. Grandi cantieri, dall’immigrazione all’energia, sicurezza e difesa, ambiente ed economia, all’insegna di una “Europa che protegge”. Eccolo di nuovo, un anno dopo la sua ascesa all’Eliseo, il Sarkozy liberale e protezionista, che predica la competizione nel suo paese e attacca su tutti i fronti, dalla Bce al Wto alla commissione (nella persona del commissario al commercio Peter Mandelson, ritenuto responsabile del No irlandese), le organizzazioni che minaccerebbero il ruolo protettivo dell’Etat. Oggi si trova però impegnato a gestire in primo luogo l’ennesimo stallo dopo quello del 2005. È presto per capire se la strategia tratteggiata nelle prime settimane è giusta. Certo, lo slogan (informale) scelto da Sarkozy pare in sintonia con l’opinione pubblica europea.

I più recenti dati dell’Eurobarometro, resi noti alla fine di giugno, suggeriscono almeno tre punti. Il primo riguarda una tendenza già in atto da almeno 4-5 anni, cioè la progressiva messa in soffitta dello storico europeismo italiano. Tradizionalmente più di facciata che di contenuto, il sentimento europeista italiano si è politicizzato con la presidenza della commissione Prodi e sotto i colpi dell’euroscetticismo leghista, con tanto di sponda tremontiana (dell’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ndr) in chiave anti-Euro. Oggi siamo scesi sotto l’asticella della media dei 27 nel consenso all’Ue. E quasi venti punti separano gli “eurofili” di centro-sinistra dagli “euro-tiepidi” di centro-destra: un record da quando esistono le rilevazioni dell’Eurobarometro. Nel contesto internazionale conviene però approfondire gli altri due elementi, consapevoli che comunque, all’estero, e non solo tra i pochi governi di sinistra rimasti, l’Italia di Berlusconi continua ad essere guardata con sospetto. Ecco allora la crisi economica, che induce al pessimismo: l’Ue diventa, ancor più che in passato, un facile capro espiatorio. La retorica sarkozista favorisce indubbiamente questo transfert: non sono forse i suoi attacchi alla Bce mirati a portare su scala europea la responsabilità della mancata protezione dagli squilibri della globalizzazione? L’ultimo elemento, il quadro che fa da sfondo a queste tendenze, potrebbe apparire inspiegabile: si tratta della complessiva continuità – nel confronto con gli ultimi 10 anni come in quello di più breve respiro – nel sostegno alle istituzioni comunitarie. Ma non siamo ripiombati nella crisi, come nel luglio 2005? Perché gli irlandesi hanno votato No e rimangono nell’avanguardia dell’europeismo?

Tra Francia e Irlanda

La Francia è oggi più che mai al centro dell’Europa. Non si possono capire le mosse di Sarkozy se non si parte da un punto cruciale: la Francia è il paese che, da Monnet in poi, più ha dato nel processo di integrazione europea, ma che, allo stesso tempo, ha sempre sofferto le progressive cessioni di sovranità nazionale. Il fatto che sia mancato, negli ultimi due decenni, un forte progetto di liberalismo politico da affiancare a quello liberista, ha esacerbato questa tendenza. In Europa i francesi sono i più ostili al mercato e alla globalizzazione. Da qui lo slogan di Sarkozy, che rischia però di allargare il “fossato” della Manica. Poco male fintantoché rimane premier britannico Gordon Brown, che ha già troppi problemi interni per aprire contenziosi in Europa, ma potrà essere diverso quando, non troppo tardi, torneranno al governo i conservatori. Gli equilibri tra i maggiori paesi rimangono fondamentali nella gestione degli affari comunitari: si veda la marcia indietro di Sarkozy sull’Unione mediterranea dopo il veto tedesco dei mesi scorsi al suo progetto “franco-centrico”.

L’Irlanda ha avuto enormi vantaggi da 35 anni di appartenenza al club europeo. Si è trasformata, da esportatore di burro, manzo e Guinness a sede di produzione di alcuni simboli della modernità – dal Viagra al Botox, passando per i microchip. Il No irlandese è frutto di un complesso mix di paure – largamente infondate – che si sono saldate alla percezione che il voto negativo non avrebbe avuto alcun costo per il benessere economico-sociale del paese, nonché per la sua posizione in Europa. Anzi, per l’esito finale è probabilmente stata decisiva la presenza di un No “euro-filo”, a sostegno dello status quo, di fronte alla possibile perdita di peso del paese nel nuovo contesto istituzionale e con ulteriori allargamenti. In un clima di scarsa informazione, con leader incapaci di trasmettere la vera posta in gioco, il No è diventato il baluardo dell’identità irlandese: contro le sfide al buio (la perdita del commissario, l’invasione di campo in temi etici e sulla neutralità militare) e le ulteriori cessioni di sovranità. I dati dell’Eurobarometro confermano che gli irlandesi, e con essi la maggioranza degli europei, sono soddisfatti dell’appartenenza all’Unione così com’è oggi. C’è da scommettere che un referendum avrebbe dato risultati simili in molti altri paesi. È qui allora il nocciolo del problema: il referendum e la via d’uscita alla nuova crisi.

Exit voice o loyalty?

Confrontiamo due letture. Da una parte, secondo Larry Siedentop, l’utilizzo del referendum mette in evidenza la mancanza di autorità del parlamento europeo, privo di ogni impatto sull’opinione pubblica. Le reazioni al No irlandese non considerano che i benefici dei mercati non creano affezione politica. Sono i sistemi liberaldemocratici a farlo, attraverso concessione di diritti paritari, un’aspirazione al self government che compensa le ingiustizie dei mercati. Ma questo equilibrio è molto complesso nell’edificio europeo, e in particolare nel Regno Unito, dove il principio fondamentale della sovranità parlamentare – in assenza di costituzione scritta – è in conflitto con la formazione di un’identità europea. Non si possono ignorare i risultati referendari, che evidenziano semmai il più grande deficit attuale dell’Ue: la mancanza di idealismo. Non si è riusciti a sostituire degnamente quello dei fondatori, basato sulla riconciliazione franco-tedesca, con un nuovo messaggio ideale (Financial Times, 1 luglio 2008). Dalla parte opposta, pur condividendo le perplessità sullo strumento referendario, Andrew Moravcsik sostiene che non esiste un deficit democratico. Che l’Unione può benissimo andare avanti senza ulteriori trattati, che l’intero processo partito nel 2001 si è basato su un’illusione: quella di dare sostanza a un processo di cui non c’era bisogno, perché l’Ue non sarà mai un super-stato. Che, semplicemente, il grand projet che erano stati il mercato unico negli anni ottanta e la moneta unica negli anni novanta, oggi non c’è né ci deve essere. In quest’ottica, il successo del progetto europeo sarebbe proprio dato dal fallimento del processo di costituzionalizzazione. E l’idealismo non diventa la soluzione, ma la causa dei problemi (Prospect, luglio 2008).

Sarkozy è partito per l’Irlanda con la proposta di far rivotare gli irlandesi su un aut-aut: o accettate Lisbona o vi tenete Nizza, che vi fa perdere il commissario già dal 2009, anziché dal 2014. Jürgen Habermas propone un referendum europeo da abbinare alle prossime elezioni del 2009. Antonio Padoa Schioppa ne suggerisce un’articolazione sulla quale possiamo innestare lo schema hirschmaniano di exit, voice e loyalty: “a) recedere dall’Unione (exit), b) limitare l’integrazione europea alla gestione del mercato unico (quindi sostanzialmente recedere dai passi più recenti in forma di voice), c) giungere nel tempo ad un’unione politica degli stati e dei cittadini europei, che tuteli per loro in modo efficace, a livello locale e mondiale, le questioni della sicurezza, dell’ambiente, dell’energia, dell’immigrazione e che d’altra parte assicuri il rispetto delle tradizioni e delle diversità nazionali (loyalty)”. Qualunque sarà l’opzione scelta da qui a ottobre, c’è bisogno di leader in grado di condurre fuori dalle secche di un europeismo di conservazione che sta diventando un freno all’avanzamento del cantiere Europa. Con il petrolio alle stelle, l’inflazione a livelli record e la sostanziale incapacità degli organismi internazionali di individuare soluzioni condivise ai problemi più scottanti (vedi fallimento del G8 ai primi di luglio), è il momento di capire se si vuole ancora andare avanti, e soprattutto in quale direzione.

Gianfranco Baldini è professore associato di Scienza politica all’Università di Salerno. È direttore di ricerca presso l’Istituto Cattaneo e analista del Centro Studi Progetto Europeo, entrambi di Bologna. Tra le sue ultime pubblicazioni segnaliamo la curatela (con M. Lazar) di La Francia di Sarkozy, Il Mulino, 200

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