Un attacco al progetto europeo
Katajun Amirpur 1 December 2010

Katajun Amirpur è professore assistente di Studi islamici all’Università di Zurigo

Non più di un anno fa, in Svizzera è stato approvato il divieto di costruire minareti. In queste mie note introduttive, articolate in quattro punti, vorrei mettere in rilievo il fatto che a destare preoccupazione è non tanto il divieto in sé, quanto ciò che esso rappresenta, e le possibili conseguenze che ne potrebbero derivare.

1. Il divieto dei minareti è più di una violazione del diritto alla libertà di religione. È più di una discriminazione contro una particolare comunità religiosa. Assai più grave è il fatto che mette a pubblica disposizione, per così dire, le libertà fondamentali. Il divieto mette in discussione le libertà fondamentali, e per di più di una minoranza, che cessano dunque di essere tali. Ciò è stato, e continua a essere, un evento senza precedenti e di estrema importanza per l’intera Europa che va ben al di là della questione dei minareti. Perché? Perché teoricamente le stesse ragioni addotte a sostegno della messa al bando dei minareti potrebbero essere usate per vietare qualsiasi forma di visibilità dell’Islam nella sfera pubblica, dal «burqa» al foulard, alla preghiera pubblica fino alle moschee. Inoltre, questo dibattito non riguarda solo i musulmani. Il fatto che alcuni cittadini vedano messe a repentaglio le loro libertà fondamentali dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti i sostenitori del Progetto Europeo. Vale la pena di ricordare che il Progetto Europeo – che va ben al di là dell’idea della Comunità economica europea – è definito da uno specifico canone di valori, a cui è possibile aderire a prescindere dalla propria cultura, razza, nazionalità o religione. Èd è per tale ragione che molte persone con un’esperienza migratoria alle spalle, e che sono approdate in Europa, difendono così tenacemente il Progetto Europeo: si può diventare europei, ma non tedeschi (o così pare). È proprio ciò che molti musulmani in Germania hanno potuto sperimentare in questi ultimi mesi.

Questo è il senso del Progetto europeo; e non è un caso che i populisti di destra e la loro avanguardia prima liberale poi neo-conservatrice, senza eccezioni di sorta, siano critici o apertamente contrari al processo di unificazione. Il loro obiettivo è l’apartheid anziché una maggiore apertura; è concentrarsi sullo stato nazione, dai confini ben definiti, anziché accogliere la ricca varietà di un’Europa unificata. Anche i loro princìpi economici neo-liberali sono in contrasto con l’eredità sociale dei padri (e madri) fondatori dell’Europa. Tutto questo per dire che gli amici dei musulmani non sono gli unici a doversi preoccupare: anche chi ha a cuore il progetto europeo dovrebbe stare all’erta.

2. D’altro canto, il nostro fine ultimo non può essere quello di stigmatizzare i dibattiti sulla presenza musulmana in Europa, sulla sua percezione e visibilità, fino al punto di impedire che si tengano pubblicamente. Ciò produrrebbe un solo esito: i problemi visti come tabù, che l’opinione pubblica non deve discutere e tanto meno risolvere, diventano appannaggio di qualcun altro, ossia i suddetti partiti populisti di destra. Naturalmente, i problemi che inevitabilmente sorgono quando un continente registra il tasso di immigrazione che l’Europa ha conosciuto nel corso degli ultimi decenni, vanno affrontati. Ma vanno affrontati per quello che sono: normali processi di adattamento in cui interessi eterogenei sono oggetto di negoziazione, mutamenti in cui ci si abitua gli uni agli altri, conflitti inevitabili ma non irresolubili. Nel caso concreto della Germania, le colpe di omissione vanno accumulandosi da decenni, e da entrambe le parti. I conflitti reali o immaginari non sono stati affrontati, nessuna richiesta è stata formulata nei confronti degli immigrati, in gran parte della società non è stata coltivata la disponibilità a integrarsi, e ora ci viene presentato il conto: i problemi sono lì, sotto i nostri occhi. Per quale ragione, tuttavia, non dovremmo essere in grado di risolverli?

3. Affinché ciò sia possibile, è estremamente importante evitare di indurre coloro che dovrebbero essere integrati a mettersi sulla difensiva e ad adottare reazioni violente e di sfida. Si può facilmente immaginare il tipo di reazione che viene innescata nel momento in cui il primo ministro bavarese Horst Seehofer afferma che turchi e arabi non possono integrarsi, la Cancelliera tedesca dichiara che il progetto di una società multiculturale in Germania è fallito, o l’autore di un libro che finora ha venduto un milione e mezzo di copie «scopre scoprescopre» il «gene musulmano» che «rende i musulmani più stupidi». Il libro di Thilo Sarrazin (Deutschland schafft sich ab: Wie wir unser Land aufs Spiel setzen, ndt), pubblicato il 30 agosto 2010, è già stato definito «il più importante saggio in lingua tedesca degli ultimi cinquant’anni». È lecito domandarsi se in un discorso pubblico del genere non si celi il motivo per cui oltre il 60 per cento della popolazione tedesca vorrebbe porre limiti alla libertà di praticare la religione musulmana. No, non è questo il modo giusto di gestire il dibattito sull’integrazione.

Tutto ciò ha prodotto due ulteriori effetti estremamente interessanti: lo scorso anno 39 mila persone hanno lasciato la Germania per emigrare in Turchia, a fronte delle 29 mila che sono immigrate. Naturalmente, a partire è chi ha un alto livello di istruzione. Da una prospettiva politico-economica, è il peggiore degli scenari possibili: prima si offre il massimo livello di istruzione, poi si spinge la gente a partire. Tutto questo prende il nome di spreco di capitale umano. La seconda conseguenza di questo tipo di dibattito è che i musulmani in Germania vengono configurati come una collettività che prima non erano mai stati. In questi ultimi anni, io stessa ho potuto constatare come l’esperienza di essere respinti perché visti come parte di un gruppo porti alla fine a sentirsi parte di quello stesso gruppo. In questo momento i musulmani in Europa sono sottoposti a un processo che strutturalmente costituisce un’esperienza comune a tutte le minoranze. L’esito finale è la musulmanizzazione dei musulmani; e non è proprio questo il senso dell’Europa.

Invece di discettare continuamente della capacità dei musulmani di integrarsi, da questi ultimi bisognerebbe esigere il rispetto della legge e null’altro. Questo dovrebbe essere il primo e l’unico dovere civico. È impossibile verificare se una persona abbia in qualche modo interiorizzato le tradizioni e i valori giudeo-cristiani, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, e questo vale per i musulmani come per i tedeschi di nascita. E non è proprio il caso ribattezzare la Costituzione tedesca come «giudeo-cristiana», come fa notare il giurista Ernst-Wolfgang Böckenförde, poiché una mossa del genere andrebbe precisamente a indebolire l’esigenza del rispetto della legge.

La logica sottesa a tale ragionamento è fin troppo ovvia: l’aggettivo «giudeo-cristiano» in questo caso si carica di una valenza politica per una finalità ben precisa, ossia l’esclusione dei musulmani. In queste ultime settimane, molti intellettuali ebrei hanno espresso la loro contrarietà all’uso di quella formula, tra cui Almuth Sh. Bruckstein Çoruh, Micha Brumlik e Rafael Seligmann. Quest’ultimo scrive: «Malgrado tutti gli Heine, i Liebermann, gli Einstein e i Tucholsky, per circa 1.700 anni nessuno ha pensato fosse utile concentrare l’attenzione sulla tradizione ebraica in Germania». Oggi, succube della sua stessa paura dei musulmani, il «buon Michel Tedesco» rievoca tale tradizione e la usa come arma contro l’Islam.

Il che mi porta a un’ultima considerazione:

4. Negli ambienti politici così come su certa stampa tedesca, in passato ma anche di recente, è stata più volte espressa l’idea che le paure dell’opinione pubblica nei confronti dell’Islam vadano prese sul serio. Da una parte è assolutamente vero; dall’altra, in tal modo si distoglie l’attenzione dal fatto che, in molti casi, tali paure sono state e sono fomentate di proposito. Nel caso specifico del divieto dei minareti, basti ricordare la vasta campagna promossa da quanti erano favorevoli al provvedimento, nel corso della quale il clima di paura è stato alimentato intenzionalmente. Oggi si possono osservare mosse analoghe nell’«Ausschaffungsinitiative» (Iniziativa per l’espulsione degli stranieri che commettono reati). Secondo quanto afferma Antonio Hodgers, Consigliere nazionale di Ginevra, il dossier è stato oggetto di «52 manipolazioni». Nella sezione «Fino a che punto tollerare la presenza dell’Islam?», per esempio, l’Svp (Partito popolare svizzero) ha sostenuto che la maggior parte degli immigrati musulmani proviene da paesi privi di un sistema giuridico democratico. Si tratta di un’informazione sbagliata, dato che il 90 per cento dei musulmani in Svizzera è emigrato dalla Turchia e dagli Stati balcanici, che possono essere considerati democratici.

È evidente che le paure siano fomentate intenzionalmente anche altrove. Come spiegare altrimenti il fatto che la paura dell’Islam sia diffusa soprattutto laddove la popolazione musulmana è numericamente più esigua, ovvero nelle comunità rurali o in qualche caso benestanti e di ceto medio-alto? E, già che si parla di paure, è piuttosto significativo il fatto che, dopo la messa al bando dei minareti, quasi nessun capo di Stato del Vecchio Continente abbia preso in considerazione la paura di coloro che, in un paese europeo, sono appena stati dichiarati cittadini di serie B. Che tipo di forum sull’integrazione si dovrà proporre, in futuro, per convincerli che in realtà fanno parte delle comunità europee?

Chiunque intenda affrontare seriamente questa xenofobia non dovrebbe serrare le fila con i populisti di destra per obbedienza preventiva e far sparire gli stranieri a suon di decreti. Le paure devono invece essere attenuate offrendo prospettive di risoluzione dei problemi, come – per esempio – l’insegnamento della lingua sin dalla scuola materna, le case di accoglienza per le donne, iniziative contro la tendenza alla ghettizzazione nelle città, la formazione di insegnanti di religione musulmana e, soprattutto, massicci investimenti nell’istruzione in generale, per citarne solo alcune. Almeno in Germania, il problema dell’integrazione è prima di tutto un problema di istruzione.

Questo è il testo del paper presentato dall’autrice alla conferenza “Dopo il divieto dei minareti: la società aperta e l’Islam”, organizzata da ResetDoc e University Research Priority Program (Urpp) Asia and Europe, che si è tenuta all’Università di Zurigo mercoledì 17 novembre 2010.

Traduzione di Enrico Del Sero

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