Un referendum sull’America
Forum con Andrew Arato, Benjamin Barber e Jim Sleeper (Parte 1) 8 July 2008

Questo testo è la trascrizione di una conversazione tenutasi il 4 giugno a Istanbul, durante gli Istanbul Seminars di Resetdoc. Andrew Arato è Dorothy Hirshon Professor in Teoria sociale e politica alla New School University, e direttore di Constellations. Benjamin Barber è Gershon and Carol Kekst Professor di Società civile all’Università del Maryland, ex consigliere del presidente Clinton e l’autore di “Jihad vs. McWorld” e “Consumed”. Jim Sleeper è lecturer di scienze politiche a Yale e autore di “Liberal Racism”. Il forum è stato coordinato da Daniele Castellani Perelli, online editor di Resetdoc.org.

Daniele Castellani Perelli: Quali saranno i principali temi della sfida presidenziale Usa, su cui l’uno e l’altro schieramento faranno leva?

Jim Sleeper: Aprirei subito il dibattito con un tema «forte». La campagna elettorale di Barack Obama è stata caratterizzata, a mio giudizio, dalla convergenza di due miti, che le hanno conferito un’aura di grande “fatalità” per la nazione americana. Due miti che chiamano direttamente in causa la questione razziale da un lato, e il problema dell’immigrazione dall’altro. Il primo si riflette nel celebre autoritratto dell’America quale «nazione di immigrati», ed è ovviamente incarnato da Obama per ragioni anagrafiche. Il secondo mito che converge nella campagna del senatore nero, e da quest’ultimo esplicitamente e insistentemente fatto proprio, rimanda naturalmente alla questione razziale in America. Il popolo americano, caso unico tra i Paesi che accampano pretese universali, porta infatti la macchia della tratta e dello sfruttamento di milioni di africani, che dovettero forgiare ex nihilo la propria identità nella cornice del Nuovo Mondo. Se mi dilungo in tutte queste considerazioni, dunque, è perché sono convinto che Barack Obama sia il primo candidato alla presidenza di questo Paese che incarni, e al contempo intenda suggellare, una sorta di “convergenza” o composizione di tali miti. La nation of immigrants è stata tradizionalmente identificata con la popolazione bianca, in contrapposizione all’altro. I neri, i veri immigrati sono sempre stati relegati in disparte. Obama, invece, sta cercando in tutti i modi di rimettere in gioco – pur non essendone “figlio” in senso stretto, giacché non annovera tra i suoi antenati gli schiavi cui ho già accennato – la comunità nera.

So benissimo che battere questi tasti può essere più o meno conveniente, a seconda del pubblico che si ha di fronte. Ma Obama sta traghettando simili tematiche nella sfida vera e propria che si è appena aperta, e immagino sia unanime l’accordo sul fatto – e qui concludo – che il perdurante e irrisolto problema del razzismo in America congiuri a favore di una vittoria del senatore nero – se vittoria sarà – assai risicata. Tendo a diffidare di sondaggi e rilevamenti vari, come ben sapete, giacché nessuno può stabilire con certezza quale sarà l’esito finale di questa corsa alla Casa Bianca. Tutto dipende dalle future mosse dei candidati in lizza, ma soprattutto dalla resilienza e incisività della questione razziale, che ci sta spingendo in una direzione diversa da quella auspicata dal senatore nero. Ecco perché insisto particolarmente sulla carica di “fatalità” di questa campagna: Obama è riuscito in modo egregio, attraverso le sue azioni concrete e nei messaggi di cui si fa promotore, a riportare questi temi al centro del dibattito nazionale. Una fetta consistente della popolazione Usa, naturalmente, ne è entusiasta e guarda alla sua candidatura con profonda ammirazione. Ma sarà una sfida dura. Tale è, in sintesi, il mio primo giudizio sul fenomeno Obama rispetto al repubblicano John McCain.

Benjamin Barber: Qualche commento a caldo sulle giustissime considerazioni di Jim. È evidente, oramai, che la questione razziale sarà al centro della disfida presidenziale, quand’anche come elemento simbolico e di sottofondo. Quasi sicuramente, nessuno affronterà l’argomento in termini troppo schietti e diretti. Il problema, però, resta. Riformulando il concetto, è bene sottolineare qualcosa che spesso si tende a dimenticare, e che Jim ha appena spiegato in termini molto chiari: Obama sta usando un linguaggio nuovo, distanziandosi da figure come Jesse Jackson o Al Sharpton o altri ex candidati neri – e non ve ne sono stati pochi, spesso arrivati alla sfida finale – alla Casa Bianca. (Come l’ormai dimenticata Shirley Chisholm che, nel corso della sua campagna elettorale, ormai molti anni fa, coniò il formidabile motto: “È più difficile essere donna che neri”…). In realtà, se dovessi coniare una mia definizione di Obama, direi che egli è il primo candidato “multiculturale” della Storia degli Stati Uniti. Stiamo parlando di un figlio dell’Africa e del Kansas, che ha anche vissuto tre anni in Indonesia. Più che un “americano nero” (ciò che a tutti appariva persino ovvio), dunque, egli è un riflesso della nuova cornice multiculturale Usa. E tuttavia resta un nero afro-americano.

Quanto alla mia seconda tesi, occorre tornare al caso Wright, nel quale si manifesta, a mio giudizio, un importante elemento di discontinuità. Direi che i “figli degli schiavi”, ovvero gli eredi della schiavitù, concordano in linea generale con le tesi del reverendo (come molti di noi, d’altronde) circa le condizioni dei neri in America. I suoi proclami, anche se sbandierati in toni irriverenti o inopportuni, racchiudono pur sempre un nocciolo di verità, in un Paese ancora macchiato dal razzismo: è innegabile che il fatto di nascere con la pelle scura implichi di per sé una serie di svantaggi e sia spesso sinonimo di minori opportunità, o dell’impossibilità di ascendere alle vette più alte del potere. Ebbene, Obama contesta e dice “no” a tutto questo, rivendicando – nelle sue parole – che “quella è ormai una pagina del passato, almeno in parte; è solo un ricordo. Siamo oramai entrati in una nuova era, nella quale possiamo finalmente lasciarci alle spalle tutto ciò”.

E se Obama è stato così infastidito dalle invettive di Wright, a mio parere, non è tanto perché egli abbia torto marcio, bensì perché il reverendo avvalora un’annosa e inveterata concezione della politica americana, secondo cui la razza è un elemento di primaria importanza che ostacola l’affermazione dei neri al di là di una certa soglia di potere. L’intera campagna elettorale di Obama, invece, poggia sulla ferma convinzione che l’America sia finalmente pronta a spiccare il grande salto e lasciarsi alle spalle tutto ciò. In tal senso, ed è fatto assai curioso, l’elezione presidenziale può essere letta come un referendum: non sul reverendo Wright, bensì sulla visione dell’America che egli incarna. L’eventuale sconfitta di Obama equivarrebbe, presumibilmente, a una conferma delle tesi di Wrigth: l’America non ha ancora compiuto il grande passo e, nella segretezza delle urne, il nodo della razza diventa cruciale. Così, i cittadini che in altre condizioni avrebbero giurato che “Sì, egli sarà un buon presidente”, esprimono il proprio voto contro il senatore nero. Se risultasse lui il vincitore, invece, Obama dimostrerebbe trionfalmente che la visione dell’America propugnata da Wright è ormai superata. Jim ha messo in luce, dunque, gli aspetti più critici e sensibili di questa disfida presidenziale; aspetti che, sebbene al momento restino sullo sfondo, potranno facilmente passare in primo piano. Ripeto: una vittoria di Obama avvalorerebbe la sua visione dell’America, mentre una sconfitta suggerirebbe non tanto che il senatore nero è del tutto fuori strada, bensì che il reverendo Wrigth, tuttora bersaglio di continue e sdegnate critiche, di fatto è più in simbiosi con la realtà americana.

Andrew Arato: Ma è necessario sollevare anche un’altra questione, anzi due. Obama è un candidato post-razziale o no? La razza è ancora un problema centrale in America? Quanto al primo interrogativo, purtroppo, credo l’unica risposta possibile sia “no”. Sebbene Obama si fosse inizialmente definito estraneo alle divisioni razziali, infatti, la campagna elettorale ha preso in seguito una piega per certi versi inaspettata, e ne ha fatto il “candidato nero”.

Jim Sleeper: Non la sua campagna elettorale….

Andrew Arato: …Ma la direzione che essa ha imboccato. A mio parere, la colpa va addossata in parte alla strategia dei Clinton, la quale purtroppo ha esercitato una certa influenza. Detto questo, si è comunque assistito a una svolta del tutto imprevista, ma che il sottoscritto aveva in un certo senso anticipato: tutta la comunità nera si è stretta attorno a Obama.

Jim Sleeper: I consensi toccano punte del 90 per cento….

Andrew Arato: E questa è stata una novità sorprendente: lo stesso Bill Clinton fu un presidente piuttosto popolare tra la comunità nera, e Hillary aveva raccolto cospicui favori (anche se non quanto il marito)… Tutti noi avremmo scommesso su un pareggio, o giù di lì, tra lei e Obama. Su una sorta di spaccatura, insomma, all’interno della comunità black. E difatti i politici, durante le primissime battute di campagna elettorale, si sono sostanzialmente divisi: metà con lui, metà con lei. Hillary, tra l’altro, ha inizialmente ricevuto l’appoggio di politici di colore assai potenti. Ma la comunità nera si è improvvisamente stretta attorno al senatore, spostando un’enorme massa di consensi a suo favore, e da quel momento i Clinton sono incappati, a mio giudizio, in una lunga sequela di errori.

Jim Sleeper: Mi sembrano considerazioni molto pertinenti. L’andamento della campagna elettorale è stato influenzato, a mio giudizio, da una serie di fattori ben precisi, come si è già ampiamente ricordato. In realtà, la comunità nera dà sempre il suo appoggio ai candidati che riscuotono particolare successo con i bianchi. Ed è indubbio che, dopo la vittoria ai caucus dell’Iowa, uno stato quasi esclusivamente “bianco”, Obama abbia iniziato a stupire tutti noi con i suoi discorsi travolgenti e visionari. È in quel momento, probabilmente, che il grosso della comunità nera ha scelto di salire sul suo carro.

Benjamin Barber: Credo che Andrew Arato abbia ragione. C’è stato un momento in cui Obama ha iniziato a presentarsi come “il candidato di tutti gli americani”, al che la comunità nera ha risposto: “Bene, allora abbiamo finalmente un candidato!” (risate). Questa svolta ha dato una risonanza completamente diversa al suo messaggio, imperniato sulla volontà di rappresentare l’intera America. E l’entrata in gioco di elementi sospetti e in odor di razzismo, più i rilevamenti statistici per cui oltre il 90 per cento dei black gli ha dato il proprio appoggio, fa sì che parte della comunità bianca scorga in Obama il “candidato dei neri”.

Andrew Arato: La sua presenza è un fatto di estremo valore simbolico per i neri. Penso al suo effetto su un normale padre di famiglia che deve crescere i suoi figli…
Benjamin Barber: Non c’è stato alcun complotto. Solo una fiammata di entusiasmo per questa candidatura, non appena si è intravista una possibilità di vittoria. In casi simili, una larghissima fetta della comunità nera sposta sempre i consensi verso i suoi rappresentanti in lizza, i quali – sottolineo: involontariamente – trovano quindi sempre maggiori difficoltà nel rivendicare che non sono “candidati dei neri e basta”.

Andrew Arato: Sia come sia, la questione razziale ormai è irrimediabilmente sul tavolo: è parte integrante della sfida presidenziale, ed è inverosimile che accenni a scomparire. McCain non cercherà di trarne vantaggio, né toccherà l’argomento….

Jim Sleeper: Dovrà farlo….

Andrew Arato: Beh, qualcun altro ci penserà al suo posto. Già, qualcun altro… Magari ricorrendo ai metodi più subdoli, cercheranno in tutti i modi di battere questo tasto. Gli elettori lo sanno, e se ne ricorderanno al momento del voto….

Jim Sleeper: Qui si pone un’altra questione, quanto mai interessante. Tutto sembra indicare che nelle prossime settimane McCain darà molteplici, e imbarazzanti, prove di idiozia… (risate). Suvvia, signori: l’uomo avrà anche il fascino della figura paterna, ma è destinato a inciampare in più d’uno stupido errore! Ragion per cui, almeno secondo il sottoscritto, Obama non può perdere….

Daniele Castellani Perelli: Tra gli altri temi «caldi» della campagna figurano l’elitarismo e il patriottismo. McCain giocherà questa carta contro Obama?

Jim Sleeper: Sì, è un argomento di cui si è discusso molto. Abbiamo assistito, in fondo, a una sorta di remake della coalizione di neri liberal affermatasi negli anni Sessanta, forse tacciata più del dovuto di “elitarismo”. Obama sconta oggi le stesse accuse, nell’incapacità di scrollarsi di dosso l’immagine di avvocato neo-liberal uscito da Harvard…

Andrew Arato: Va pur detto, d’altro canto, che gli americani hanno un’idea alquanto bislacca di elitarismo, o no? Da un lato abbiamo McCain, discendente di una dinastia militare indubbiamente ricca e facoltosa, figlio di un comandante delle forze Usa nel Pacifico, bianco, multimilionario: un emblema perfetto dell’elitarismo, non vi pare? Non è da tutti raggiungere uno status del genere. Obama, dal canto suo, proviene da una famiglia povera, e ha dovuto sgobbare duramente per affermarsi. Sia lui che la moglie hanno studiato nelle scuole più prestigiose, quasi esclusivamente grazie ai propri sacrifici. E questa sarebbe la definizione di élite, o di elitarismo, nell’immaginario Usa?.

Benjamin Barber: Vorrei ricordare che Obama è il candidato che afferma: “Noi americani ci definiamo non in base al luogo da cui veniamo, bensì secondo le nostre aspirazioni”. E se, come egli stesso rivendica, il ragionamento vale per la questione razziale (“Non sono un candidato nero e basta, un figlio del Kansas e del Kenya: sono un americano!”), esso si attaglia anche al tormentone dell’elitarismo (“Sì, ho studiato ad Harvard e sì, ho un background assai particolare, ma sono le mie aspirazioni a definirmi, e in me possono identificarsi tutti gli americani!”). L’incisività e la forza di trascinamento del suo messaggio sono, a mio parere, il frutto di questa complementarità: se la personalità di Obama è stata indubbiamente plasmata dagli studi ad Harvard e dal suo background multietnico, in realtà egli sta dicendo agli americani di qualsiasi razza, appartenenza ed estrazione sociale che “a definirmi sono le mie aspirazioni, non le esperienze che mi hanno formato né il luogo da cui provengo”. Ecco qual è il suo punto di forza, ed ecco perché, come già accennato, la tornata presidenziale potrebbe trasformarsi in una sorta di referendum: sul ruolo cruciale o meno della razza in America, della nazione riunificata che Obama propugna, dell’elitarismo di cui spesso è tacciato, del suo impegno a “rappresentare tutti gli americani”. Il voto di novembre darà una risposta anche a questo interrogativo, dunque. Ronald Reagan, dopo tutto, fu per certi versi un politico decisamente “elitario”, che rincorse e vinse un’elezione dopo l’altra, poiché gli americani erano convinti che rappresentasse ognuno di loro. E invece non v’è mai stata, probabilmente, una figura più lontana dal comune cittadino americano.

Andrew Arato: Kerry era un elitarista, e Bush in un certo senso no. In termini sociologici, però, un ragionamento del genere è ridicolo…

Benjamin Barber: Tutto ciò si spiega con una ragione molto semplice: come diceva Louis Hartz, del quale fui allievo ad Harvard, “In America il socialismo non esiste, perché non esiste il feudalesimo”. Tentare di definire e incasellare i cittadini in termini di “classe” ed “elitarismo”, dunque, qui non ha alcun senso. Nell’immaginario americano, l’unica categoria vigente è la middle class: in essa si identificano ricchi e poveri indifferentemente, come si evince da studi e ricerche sociologiche. I sociologi europei, e i loro colleghi americani di formazione marxista, dunque, hanno sempre riscontrato enormi difficoltà nell’affermare il concetto di “classe”, quand’anche in funzione puramente descrittiva, con riferimento alla sperequazione economica o alle disparità a livello educativo. Molto semplicemente, gli americani si rifiutano di essere identificati con questi termini, e gli strateghi politici lo sanno bene. Ecco perché l’idea di giocare la carta “classista”, a quanto pare, non è mai politicamente vincente.

Qui trovate la seconda parte del forum.

Traduzione di Enrico Del Sero

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x