Il “diritto” alla violenza domestica
Dina Mansour 4 May 2010

La ventottenne Aisha vive nel piccolo villaggio di Bolaq, alla periferia di Giza, in Egitto, una poverissima comunità dominata dalle credenze religiose e dalle tradizioni. All’interno di questa comunità depressa, la violenza domestica, i matrimoni precoci o combinati, i delitti d’onore e le mutilazioni genitali costituiscono la quotidianità, malgrado le numerose leggi emanate per eliminarli. Nonostante le frequenti violenze verbali e fisiche, Aisha non ha mai denunciato suo marito. Convinta che il coniuge sia autorizzato dalla Sharia a punire la moglie quando questa gli disobbedisce, Aisha ha sempre rifiutato di interrompere questa vita di violenze. Come molte donne prive di istruzione e in condizioni di estrema povertà, Aisha sopporta di vivere così da 10 anni. Vivendo in una comunità che è patriarcale in ogni suo aspetto, la donna non sa nulla del concetto di “diritti” o delle leggi che garantiscono il suo benessere e l’uguaglianza all’interno della famiglia. In effetti, per lei, idee come “diritti” e “uguaglianza” sono assurde.

In Egitto, l’ineguaglianza delle donne, indipendentemente dalla loro condizione socio-economica, è una sgradevole realtà, sebbene sia più evidente tra le povere comunità disseminate per il Paese. In tali comunità, la violenza domestica è considerata un diritto e non un reato: un’azione commessa in “buona fede”. Tra queste comunità, la condizione sociale di secondo piano delle donne legittima praticamente qualunque atto di violenza compiuto dal marito o da qualsiasi parente di sesso maschile. In un’indagine governativa effettuata nel 2001 tra le comunità a basso reddito dell’Egitto, il 96 per cento delle donne dichiarava di essere stata picchiata almeno una volta dal proprio marito. Tuttavia, la maggior parte di quelle donne riteneva che il coniuge avesse il “diritto” di picchiarle in caso di disobbedienza o di mancanza di rispetto (Egypt: Abused Women Reluctant to Come Forward).

La Sharia islamica non stabilisce in modo assoluto tale cosiddetto “diritto”. Come ha spiegato lo State Council Deputy Hossam Abu-Yusif, “ in virtù della Sharia, [un] uomo ha il diritto di punire la propria moglie…ma questo è un diritto che la Sharia non impone . Dio dice che i migliori di voi non useranno mai tale potere”. Ciò significa che un diritto non imposto costituisce più un suggerimento conforme ai dettami della Sharia che un diritto legittimo. Purtroppo, il diritto di famiglia egiziano sembra accordarsi perfettamente con una credenza che ha sviato la Sharia islamica dalla giusta proporzione e dal giusto contesto. L’articolo 60 del codice penale egiziano stabilisce che “le norme del codice penale non saranno applicate ad alcuna azione compiuta in ‘buona fede’, conformemente ad un diritto determinato in virtù della Sharia”. Le azioni compiute in buona fede ritenute conformi alla legge comprendono il picchiare “non duramente”, non sul viso e non in zone vulnerabili.

D’altro canto, il diritto internazionale stabilisce le garanzie essenziali della vita e della dignità umana per tutti, senza discriminazione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani alla Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro Le Donne (CEDAW), alla Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne che condanna “qualunque atto di violenza di genere che abbia come conseguenza certa o probabile un danno fisico, sessuale o psicologico ovvero sofferenze per le donne…verificatesi sia in pubblico che nella vita privata”. Tuttavia, il diritto internazionale ha fatto poco per cambiare una pratica e delle convinzioni diffuse tra le comunità più povere, dove mancano sia l’istruzione che la coscienza necessarie a sapere di più. In effetti, la riserva egiziana all’articolo 2 della CEDAW, che si oppone sia all’oggetto che alle finalità della Convenzione, ha praticamente annullato ogni speranza di modificare un frainteso “diritto”, applicato e legittimato dal diritto di famiglia. Indipendentemente dalla gravità e dalla frequenza delle violenze, molte donne si astengono dal denunciare alla polizia i propri mariti per paura di commettere un’azione “disonorevole” o peccaminosa oppure semplicemente per timore della vendetta del coniuge.

Inoltre, tra queste comunità povere non soltanto il divorzio viene largamente scoraggiato e considerato un atto indesiderabile e “disonorevole” che può avere come conseguenza l’emarginazione delle donne da parte della famiglia e della comunità, ma alle donne si pone un problema ancora più grande:le loro difficoltà economiche rendono il divorzio o il Khula un’alternativa costosa e finanziariamente inaccessibile. Il Khula, che in Egitto fu introdotto una decina di anni fa, offre un’alternativa alle donne che vogliono divorziare in cambio della rinuncia ai loro diritti economici, a differenza del divorzio che rappresenta per le donne un processo a lungo termine, legalmente e finanziariamente estenuante. “Tuttavia, se la donna è povera, le sarà impossibile raggiungere l’indipendenza economica dopo aver rinunciato ai suoi diritti economici”, spiega Nevine Abeid di The New Women Foundation. Per questa ragione, molte delle donne che come Aisha vivono nelle comunità più povere finiscono col rimanere accanto a mariti violenti “fino a quando la morte le libererà” da una vita di umiliazioni, violenze e abusi.

Traduzione di Antonella Cesarini

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