Cara Nadia, ecco i limiti del dialogo
Michael Walzer 19 December 2007

Questo testo è il primo intervento di Michael Walzer nel dialogo svoltosi tra l’autore e la filosofa Nadia Urbinati. Il dialogo ha avuto origine dall’articolo di Urbinati “No al manicheismo, scelgo il dialogo come Bobbio”, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

Nadia Urbinati è una vecchia amica e sono assolutamente aperto a un confronto con lei, anche se non con tutti coloro che vorrebbe far partecipare al dialogo. Questo testo di risposta (e critica) del suo saggio presenta argomentazioni che sono ovviamente suscettibili di ulteriori discussioni. Le opposizioni che stabilisce sia tra due tipologie di multiculturalismo sia tra le due versioni della teoria democratica sono esempi delle stesse rigide (manichee?) dicotomie che sostiene di avversare e non aiutano, a mio avviso, a descrivere in maniera accurata le riflessioni contemporanee su questi argomenti. Nello stesso modo non sembra efficace l’analogia con la lotta contro il comunismo nella versione da lei proposta – anche se mi trovo d’accordo sulla necessità di utilizzarla.

È su quest’ultimo punto che vorrei soffermarmi, prendendo in esame la mia posizione personale: non sono mai stato un critico dall’interno del regime stalinista – come avrei potuto vivendo io negli Stati Uniti? Piuttosto sono stato un critico esterno o disconnected che nella mia analisi ho applicato principi minimalisti, universalisti e morali (è possibile trovare l’articolazione di questo approccio in un saggio intitolato Geografia della morale, pubblicato per la prima volta in Italia, se ben ricordo). Ho sicuramente sostenuto intellettuali che adottavano una posizione critica in Unione Sovietica e nei paesi dell’Est (e tutti noi di «Dissent» abbiamo appoggiato dissidenti dell’Est Europa in esilio) mentre ho criticato quegli intellettuali occidentali (ed erano molti) che difendevano o giustificavano i crimini dello stalinismo. Ero contrario alla guerra di liberazione in Est Europa, ma caldeggiavo l’avvio di relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica e la Cina; ho sostenuto l’importanza dei summit, degli aiuti americani al regime comunista jugoslavo e delle negoziazioni per ridurre gli arsenali nucleari; ho partecipato a incontri con accademici sovietici e ho provato ammirazione per gli studiosi americani che avevano organizzato le conferenze di Pugwash.

Tutto questo non rientra nella visione olistica e completamente intollerante del comunismo che Nadia descrive. E non ero l’unico ad avere un atteggiamento simile, ma come me, molti (anche se mai abbastanza) anticomunisti di sinistra avevano le stesse opinioni e posizioni. Tutti noi abbiamo affermato che il regime stalinista era colpevole di omicidi di massa e che non era possibile stringere le mani o intavolare un dialogo con degli assassini. Mentre i diplomatici possono stringere le mani a tutti perché indossano sempre i guanti, gli intellettuali di sinistra dovrebbero porre un limite alla loro disponibilità di dialogare con chiunque. Sicuramente Nadia concorderà con questa restrizione per quanto riguarda il nazismo, ma la stessa si applica anche allo stalinismo e, oggi, al fanatismo islamico. Proseguendo con un’altra analogia, immaginiamo che Nadia venga trasportata nell’Italia dell’XI o XII secolo. Potrebbe forse affermare che gli intellettuali che adottano una posizione critica nei confronti dei crociati mostrano una visione intollerante e olistica della cristianità? Potrebbe sostenere che, dopotutto, solo una piccola minoranza di cristiani in cammino verso la Terra Santa, uccide gli ebrei che incrocia lungo la strada e musulmani che incontra a destinazione? Porterebbe alla nostra attenzione che il comportamento di quei frati che predicano la morte dell’infedele (spesso a capo di squadroni della morte), risponde all’esigenza di «ricerca di una vita ricca di significato»?

Spero e credo che si mostrerebbe una fiera, anche se non «dall’interno », critica del fervore crociato. In maniera simile, se io e Paul Berman fossimo trasportati nella stessa epoca affermeremmo forse che l’intera storia della cristianità si possa riassumere in quella manifestata dal fervore crociato? Saremmo forse contrari al dialogo con gli oppositori cristiani dei crociati, come quei teologi che cercano di sviluppare una teoria della guerra giusta, anziché santa? Ci opporremmo a una conferenza internazionale per stabilire una sorta di potere condiviso su Gerusalemme? Spero e credo in una risposta negativa a queste domande. Quali sono le implicazioni di questo discorso per il XXI secolo? In altre parole, qual è la posizione che la sinistra occidentale dovrebbe tenere oggi nei confronti dell’islam? Dovremmo essere fortemente critici del radicalismo jihadista ed essendo molti di noi infedeli e laici, si tratterebbe di un’analisi critica non «dall’interno» su temi come la vita e la libertà, che hanno risonanza universale.

Dovremmo sostenere quei musulmani che, in patria o in esilio, si oppongono al fanatismo religioso, cercando di capire le ragioni del loro atteggiamento e l’esperienza da cui nasce. Dovremmo promuovere il dialogo con intellettuali e accademici islamici – pur non ritenendoci obbligati a «discutere» con coloro che sostengono pubblicamente la nostra morte (o che cercano scuse per i fanatici che lanciano questi proclami) ed essere tolleranti verso l’islam nello stesso modo in cui siamo tolleranti verso il cristianesimo e l’ebraismo – pur mantenendo un atteggiamento critico generale, e scettico, verso le credenze religiose. Dovremmo assumere un’attitudine di critica consapevole verso quegli intellettuali occidentali apologeti del fanatismo religioso e del fervore crociato (a questo proposito, Paul Berman offre un modello eccellente per sostenere tale atteggiamento). La difesa dei principi progressisti di democrazia e uguaglianza dovrebbe essere portata avanti in tutte le occasioni possibili, tenendo conto delle condizioni materiali che rendono possibile una politica democratica – come Nadia stessa sostiene – senza dimenticare l’importanza dell’impegno polemico nei confronti dei difensori dell’oligarchia e del clericalismo. La democrazia infatti, prima in Europa e oggi nel mondo, dipende da questo genere di impegno. Non vedo niente di intollerante o di manicheo in questa posizione politica.

Michael

Michael Walzer insegna Scienze sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton. E’ uno dei protagonisti del dibattito pubblico in America e in Europa. Dirige la rivista Dissent e collabora al periodico The New Republic. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Ragione e passione (Feltrinelli, 2001), Sulla tolleranza (Laterza, 2003), Sulla guerra (Laterza, 2004).

Traduzione di Antonella Santilli

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