Una nuova speranza per cristiani, ebrei e musulmani
Jim Sleeper 20 January 2009

Nel momento in cui passiamo dal simbolismo al contenuto, ora che Barack Obama è il presidente eletto, spero che egli apprezzi la ricompensa simbolica e sostanziale del giuramento che presterà il prossimo 20 gennaio come “Barack Hussein Obama”. Durante la campagna elettorale, neo-consevatori come Daniel Pipes ed altri denigratori di Obama hanno pensato che fosse astuto sottolinearne le origini musulmane. Ma ora che Obama ha vinto, bisognerebbe essere ingenui quanto un neoconservatore per non comprendere il livello di nobiltà e lo storico passo in avanti che questo paese compirebbe se, avendo rovesciato un cattivo Hussein, ne insediasse uno buono, non a Bagdad, ma a Washington. Certo, si resta confusi. Hussein è un titolo onorario attribuito ai discendenti metaforici di Maometto. Un presidente americano che porti quel nome, anche se in modo residuale, rappresenterebbe ciò che i filosofi definiscono una transvalutazione dei valori: un caso perverso di dissonanza cognitiva per milioni di persone come Bill O’Reilly e Rush Limbaugh, e per altri milioni di persone molto diverse da loro.

Anche i tedeschi erano confusi 65 anni fa, quando un americano di nome Eisenhower assunse il comando delle forze alleate e, cinque anni più tardi, divenne presidente. In fondo, neanche trent’anni prima dell’ascesa di Eisenhower, durante la prima guerra mondiale, i tedesco-americani, qui, erano stati una minoranza disprezzata e perseguitata. Di certo oggi la situazione è anche più polarizzante per i musulmani, sia qui che all’estero. Gli islamici, di fronte ad un Hussein alla Casa Bianca, protesteranno che il Grande Satana ha rubato e contaminato un nome sacro. Ma dov’erano, loro, quando il falso bigotto Saddam Hussein, ammiratore più di Stalin che di Maometto, massacrava milioni di persone?

Diversamente dal dominio di quell’Hussein, degli sceicchi del petrolio, dei mullah e dei Talebani, la sola aspettativa dell’insediamento del nostro Hussein sta facendo volare le speranze di milioni di giovani musulmani democratici persino più in alto di quanto l’America abbia saputo sollecitarne le aspettative materiali e sensuali (e, date le circostanze attuali, questo ci dice che, proprio quando l’elezione di Obama stava per riflettere le energie più profonde della democrazia occidentale, un occidentale convenzionale come Gordon Brown stava implorando i sauditi di aiutare il Fondo Monetario Internazionale). Da notare, anche, l’impatto simbolico e sostanziale che Barack Hussein Obama sta producendo sulla gioventù afroamericana, già sottraendo fascino al “Nation of Islam”, il cui leader, Louis Farrakhan, vive nel Southside Chicago, a breve distanza dagli Obama. Farrakhan, l’estate scorsa, con una sorta di disperazione, ha offerto il proprio sostegno ad Obama, che lo ha respinto. Questo ci dice tutto quello che c’è da sapere, come ho già avuto occasione di spiegare, con successo, all’apprensivo elettorato ebraico.

Altre ironie accompagnano il nome di Obama. “Barack” è la versione in lingua araba dell’ebraico “Baruch” e, in entrambe le lingue, esso significa “benedetto”: un’altra delle numerose, quasi illecite e dolorosamente pregnanti affinità tra le due lingue e le due religioni. L’ebreo più famoso che portò quel nome fu il filosofo medievale Baruch Spinoza, che attraversò i confini tra giudaismo e cristianesimo, confondendoli per poterli trascendere. La storia di Obama riassume tutte e tre le linee della religione di Abramo – cristiana, musulmana ed ebraica – in una convergenza più promettente di quella tracciata oltre un secolo fa dal Rev. George Bush, uno studioso presbiteriano fratello di un antenato del nostro presidente, e primo docente di ebraico, arabo e di altre antiche lingue semitiche alla New York University, attorno al 1830. Nel 1844, il Rev. Bush scrisse “The Valley of the Vision, or The Dry Bones Revived: an Attempted Proof of the Restoration and Conversion of the Jews” che interpretava il libro di Ezechiele nell’Antico Testamento profetizzando, in un futuro che lo stesso Bush considerava non lontano, il ritorno in Palestina degli ebrei sparsi per il mondo.

Dubito che il presidente prossimo alla scadenza abbia mai letto l’esegesi del suo antenato e se egli non ha letto il Libro di Ezechiele, Barack Obama l’ha fatto certamente. L’inverno scorso a Filadelfia, nel suo discorso sulla razza, Obama ha ricordato che, secondo la sua Chiesa Congregazionale di Chicago, “Il campo di Ezechiele cosparso di ossa secche” è “una delle storie – di sopravvivenza, libertà e speranza che è diventata la nostra storia, la mia storia: il sangue versato era il nostro sangue, le lacrime, le nostre lacrime”. Non a caso, il Rev. Bush, che aveva immaginato il ritorno degli ebrei in Palestina come il preludio di Armageddon, scrisse anche il primo libro americano sull’islam, una “Vita di Maometto” nella quale il Profeta veniva dichiarato un impostore. Queste sono due ragioni ulteriori per le quali, con Barack Hussein Obama, le prospettive dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani d’America sono più rosee che con uno qualunque dei George Bush che abbiamo conosciuto, per non parlare di Karl Christian Rove.

Obama potrebbe non essere un messaggero di Dio più di quanto lo sia Rove o “W”, tuttavia, in qualche momento, la sua campagna elettorale ha fatto balenare dei segni della terribile maestosità del Dio ebraico che tuona nella storia, del viaggio difficile e appassionato dei pellegrini cristiani e dei vincoli della fede comune della ummah musulmana. Ed egli comprende – come aveva compreso un Abramo di nome Lincoln – che questa repubblica dovrà continuare a tessere la sua robusta trama liberale con i fili dell’intrepida fede di Abramo che ha saputo rappresentare in modo così deciso alle sue origini e nei suoi trionfi. Il fatto che Obama derivi tale comprensione dalla familiarità con Ezechiele, con l’Indonesia e con Southside Chicago, non fa che renderlo quanto mai provvidenziale.

Originariamente pubblicato da Talking Points Memo

Traduzione di Antonella Cesarini

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