“Festeggiamo, ma senza illuderci”
Ramachandra Guha intervistato da Valeria Fraschetti 6 May 2009

In passato c’è stato chi ha espresso perplessità sulla tenuta del sistema democratico in un Paese tanto vario come l’India, eppure gli indiani tornano puntalmente a votare i loro rappresentanti da oltre mezzo secolo. Qual’è lo stato di salute della democrazia indiana?

Queste elezioni nazionali sono un evento per cui non solo l’India, ma tutto il mondo dovrebbe festeggiare. Il fatto che teniamo elezioni regolarmente, che i cittadini scelgano i loro rappresentanti senza paura e che il voto avvenga in maniera corretta è certamente un fatto notevole. Comunemente si credeva che l’India fosse troppo grande, varia e frammentata per essere guidata da una democrazia, in quanto è una democrazia multilinguistica e multiculturale. Eppure ora assistiamo alle 15esime elezioni. Ed è anche il voto con l’elettorato più grande al mondo: 714 milioni di elettori, più della popolazione europea. C’è sicuramente da festeggiare. Tuttavia sono presenti delle debolezze. Invece di celebrare semplicemente la condotta delle elezioni, credo sia importante che gli indiani guardino a quello che avviene tra un voto e il successivo. La qualità nel governare e il funzionamento delle pubbliche istituzioni sono in declino. Credo che molto di più possa essere fatto nelle politiche che riguardano la salute, l’educazione e l’ambiente. Penso che sia necessario iniziare un dibattito sulla “governance”.

Una caratteristica che emerge chiaramente da queste elezioni sembra essere il crescente seguito dei partiti regionali. Crede che sia un sintomo della maturità della democrazia o piuttosto una manifestazione di latenti tensioni verso il potere centrale che stanno emeregendo?

Da una parte, poiché l’India è così varia dal punto di vista religioso, e ancor più da quello linguistico, la proliferazione dei partiti regionali e il declino di quelli nazionali è un segno del consolidamento e del processo di decentralizzazione della democrazia. Per via della diversità intrinseca dell’India è difficile pensare che un solo partito possa dominare nel Paese intero. Certo, è accaduto con il Congresso nei primi anni dall’indipendenza: poté rappresentare la nazione intera perché era il partito di Gandhi e quello che ci aiutò a porre fine alla dominazione britannica. Tuttavia, inevitabilmente, dopo un certo periodo di tempo i gruppi che si sentivano marginalizzati, esclusi dai centri di potere di Nuova Delhi hanno iniziato a volere i loro rappresentanti e partiti. Così ecco quello che ora sta succedendo consistentemente. D’altro canto, l’aspetto negativo della crescita dei partiti regionali arriva quando bisogna formare un governo: siamo 28 stati, ma alla fine restiamo un Paese solo. E la presenza di così tanti partiti si traduce in governi centrali con deboli coalizioni multipartitiche.

L’altra faccia della medaglia del radicamento della democrazia indiana è quindi l’inerzia nel portare avanti le riforme di cui il Paese ha bisogno?

Assolutamente sì. Il primo ministro trascorre il grosso del suo tempo a massaggiare a turno l’ego dei suoi alleati, mentre l’India resta un Paese con enormi disuguaglianze. Sono cinque i settori in cui a mio avviso c’è bisogno che il governo agisca con politiche di lungo termine: istruzione, salute, ambiente, economia e politica estera.

Come si può restringere la forbice delle disuguaglianze presenti nel Paese?

Dando potere ai cittadini, promuovendo una buona istruzione e una sanità per tutti, pianificando lo sviluppo attraverso politiche ecologicamente sostenibili. Questi sono traguardi che però non possono essere raggiunti con deboli governi dati da coalizioni multipartitiche. Nel lungo termine c’è quindi bisogno di un maggior equilibrio tra interessi regionali e centrali. Non credo che gli indiani possano essere rappresentati da uno o due partiti solamente, ma ora siamo andati troppo oltre con l’affermazione dei partiti regionali. Quindi mi auguro che dopo queste elezioni gli interessi regionali e quello centrale ritrovino una sorta di equilibrio.

Numerosi partiti locali fanno leva su fattori identitari come la casta. Crede che oggi gli indiani votino a seconda della loro casta di appartenenza più che in passato?

No. Certamente resta un fattore importante, come lo sono anche la lingua e la religione. In città però le caste stanno diventando sempre meno importanti: i matrimoni inter-castali sono sempre più comuni, per dire. Nell’Inda rurale se tuo padre è un fabbro, anche tu lo sarai. Ma in città il legame tra casta e mestiere si sta affievolendo. Il sistema castale è radicato, ma il suo ruolo in politica sta diminuendo.

Il declino dei due grandi partiti nazionali, principali contendenti delle elezioni, è da imputarsi solo all’affermazione dei movimenti locali, o Congresso e Bharatiya Janata Party (Bjp) hanno le loro colpe?

Sì, hanno le loro debolezze interne. Il Congresso soffre per il suo eccessivo appoggio a una sola famiglia. E’ un partito centralizzato, in cui tutte le scelte rilevanti vengono prese da Sonia Gandhi e suo figlio Rahul. Ciò che il Congresso dovrebbe fare è ricostruire la sua organizzazione a livello locale, distrettuale. La debolezza del Bharatiya Janata Party, invece, è di tipo ideologico: non sono capaci di rinunciare all’agenda induista radicale. Una parte della classe media indiana sperava che il partito si sarebbe trasformato sul modello dei cristiani-democratici in Germania. Anche loro, come il Bjp, si ergono a protettori dei valori tradizionali della famiglia, ma non odiano musulmani o ebrei. Il Bjp invece nutre odio per islamici e cristiani. La maggior parte degli induisti è però moderata: non approva le molestie ai cristiani o la demolizione di moschee. Per cui, il Bjp può essere un grande partito solo se si separa chiaramente dalla politica dell’odio e abbandona la retorica sulla superiorità degli indù.

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