Uniti nella diversità?
Eva Pföstl 4 November 2008

Eva Pföstl, Istituto di Studi Politici S. Pio V

Oggi, sempre più spesso il diritto indiano volta le spalle ai modelli europei e “occidentali”, preferendo elaborare metodi specifici e più rispondenti alla situazione locale per affrontare complessi problemi di natura socio-giuridica. Il futuro del mondo, ovviamente, non risiede in una semplicistica uniformità giuridica ma in un rispetto meditato ed attentamente valutato verso la diversità. La globalizazione, che si manifesta prevalentemente come localizzazione, sta creando nuove entità ibride di una pluralità in continua crescita. Perciò, dobbiamo imparare ad affrontare e comprendere più profondamente in che modo operano le diverse organizzazioni giuridiche e quale sia il loro potenziale in vista di un miglioramento progressivo della vita umana e di uno sviluppo sostenibile.

La principale lezione da trarre da tutto ciò è che il Personal status law (diritto di famiglia) che disciplina tutti gli aspetti che riguardano la famiglia – matrimonio, divorzio, separazione, custodia dei figli, eredità e mantenimento – possono resistere e sopravvivere alla tanto agognata uniformità delle riforme giuridiche in tutta l’Asia e l’Africa e probabilmente anche altrove. Da questo elemento, i giuristi europei potrebbero trarre una importante lezione, particolarmente in termini di gestione delle diversità culturali attraverso un intervento giuridico consapevole della pluralità, invece della consueta insistenza su un’uniformità giuridica stato-centrica. Il Personal status law, tuttavia, spesso, risulta in forte contrasto con la giustizia di genere. Abbiamo discusso con Neera Chandhoke, docente di Scienza della Politica presso l’Università di Dheli e direttrice del Centro Ricerche sui Paesi in Via di Sviluppo, del modo in cui l’India é riuscita a conciliare con successo unità e diversità.

Professoressa Chandhoke, il sistema politico indiano è spesso considerato un modello per gli altri Paesi. L’impresa compiuta dall’India consiste nel saper conciliare unità e diversità. La realtà coincide davvero con la retorica? E’ noto che la politica indiana continua ad essere funestata da tensioni tra comunità, tra regioni e tra caste, tanto da metterne in pericolo l’ethos democratico e laico. Allora, i diritti umani in India sono ancora un problema?

Sì, i risultati ottenuti nel campo dei diritti umani nelle regioni in cui il dissenso è stato espresso attraverso la lotta armata, sono modesti. Non possiamo cancellare questa realtà e non dovremmo nemmeno desiderare di farlo. La sola circostanza attenuante è che, riguardo alle violazioni dei diritti umani, la democrazia politica fornisce un sistema di freni e contrappesi attraverso i mezzi di comunicazione indipendenti, le organizzazioni per le libertà civili, un potere giudiziario attivo e il diritto ad intentare azioni legali di interesse pubblico in nome di altri. Una società civile vigile forse non é in grado di impedire gli abusi, ma può contribuire ad obbligare i responsabili a rendere conto delle loro azioni.

Come certamente saprà, in Europa è in atto un appassionato dibattito circa la compatibilità tra islam e democrazia, in particolare circa la tensione tra religione islamica e condizione femminile. Potrebbe spiegare brevemente qual’è la situazione in India?

Nel 1947, dopo la spartizione dell’India, alla comunità islamica fu consentito mantenere il proprio diritto di famiglia e ciò per varie ragioni, principalmente per placare il timore, nutrito dai musulmani, di venire schiacciati dalla maggioranza indù. Quel diritto di famiglia è molto lontano dalla giustizia di genere. I nodi sono giunti al pettine a metà degli anni Ottanta, con il caso Shah Bano. Nell’India indipendente, non era la prima volta che si presentava un caso di quel genere e la sentenza emessa dalla Corte Suprema non fu il primo intervento attraverso cui il potere giudiziario giudicava in materia di mantenimento delle donne musulmane.

Negli anni Ottanta, tuttavia, la decisione della Corte e la conseguente approvazione del Muslim Womens Bill da parte del Parlamento suscitò un’ondata di proteste della comunità musulmana e in particolare dei settori patriarcali di quella comunità. Le dimensioni della protesta possono essere comprese soltanto considerandola una reazione all’imponente mobilitazione della destra indù, avvenuta nella metà degli anni Ottanta. Qualunque ne sia stata la causa, tuttavia, la protesta senza precedenti della comunità musulmana ebbe importanti implicazioni politiche. Per tornare al nostro tema, il caso in questione era piuttosto semplice. Shah Bano, una donna anziana divorziata dal marito, aveva chiesto all’Alta Corte di Madhya Pradesh che l’ex marito pagasse per il suo mantenimento in conformità all’articolo 125 del codice di procedura penale. Ai sensi di tale articolo, l’ex marito di una donna divorziata, qualora ella sia priva di risorse e non abbia i mezzi economici per garantire la propria sussistenza, deve provvedere al suo mantenimento finché la donna è in vita o fino a quando questa non si risposi. L’Alta Corte si pronunciò in favore di Shah Bano. L’ex marito, Ahmed Khan, tuttavia, fece ricorso alla Corte Suprema sostenendo di non essere obbligato a pagare il mantenimento dell’ex moglie per un periodo superiore ai tradizionali tre mesi (iddat), in conformità all’articolo 127, comma 3, del codice di procedura penale.

Tale articolo afferma che, se all’epoca del matrimonio era stata concordata una dazione in denaro alla moglie in forma di controdote (meher), tale somma e il mantenimento della donna per tre mesi (iddat) sciolgono il marito da ulteriori obblighi, se ciò è quanto previsto dal diritto di famiglia (personal law) di una data comunità. La Corte Suprema, in realtà, doveva pronunciarsi, da un lato, sul rapporto esistente tra articolo 125 e 127, comma 3, del codice di procedura penale, e su quello tra tale codice e il personal law , dall’altro. Il 23 aprile 1985, una sezione della Corte Suprema presieduta dal Chief Justice Chandrachud ha confermato la sentenza emessa dall’Alta Corte ed ha stabilito che l’articolo 125 del codice di procedura penale prevale sul personal law ed è uniformemente applicabile a tutte le donne. In questo modo la Corte subordinava non solo l’articolo 127, comma 3, del codice di procedura penale all’art.125 dello stesso codice, ma anche il personal law al codice di procedura penale. Il giudice, inoltre, esortava il governo indiano ad applicare un Codice Civile Uniforme in conformità all’articolo 44 della Costituzione.

Come previsto, i leader della comunità musulmana, e in particolare gli Ulama, contestarono la sentenza, affermando che essa rappresentava un atto di disprezzo nei confronti del diritto di famiglia della comunità musulmana, fondato sulla sharia. Essi sostennero che, dal momento che la sharia è sancita da Dio, la Corte non può né interferire con essa né interpretarla. La controversia si ingigantì fino ad assumere le dimensioni di un grave problema politico, dal momento che migliaia di musulmani scesero in strada per manifestare contro la sentenza. Infine, il governo di Rajiv Gandhi, allora al potere, cedette alle proteste. Nel febbraio 1986, il governo presentò al Parlamento un progetto che proponeva di esonerare le donne musulmane dalla protezione fornita dall’articolo 125 del codice di procedura penale.In sostanza, il Muslim Women (Protection of Rights on Divorce) Bill abrogava il diritto al mantenimento in conformità all’articolo 125 perché stabiliva che, al momento del divorzio, il marito dovesse pagare l’ammontare della controdote (mehr) – le proprietà date all’ex moglie dai suoi genitori, dagli amici, dal marito e dai suoi parenti-, farle un’unica dazione, equa e ragionevole, come stabilito dal Corano, e provvedere per due anni al mantenimento dei figli e per tre mesi a quello dell’ex moglie. La donna poteva chiedere al magistrato di ordinare al marito di provvedere a questi obblighi.

Nel caso in cui la donna non fosse riuscita a mantenersi, il magistrato poteva ordinare ai suoi parenti, qualora essi fossero suoi eredi, di mantenerla. In alternativa, sarebbe stata la wakf board a mantenerla. Se la donna e il marito avessero deciso in tal senso, avrebbero potuto chiedere che il loro caso venisse disciplinato dagli articoli 125-128 del codice di procedura penale. Ciò vuol dire che, con il consenso dell’uomo, l’esenzione dall’applicazione dell’articolo 125 poteva essere ignorata. Il progetto di legge fu approvato dalla Lok Sabha il 6 maggio 1986 dal Rajya Sabha l’8 maggio 1986. L’approvazione del progetto di legge provocò forti proteste quando i liberali, la sinistra e il movimento delle donne, che consideravano tale legge regressiva e lesiva della giustizia di genere, si mobilitarono contro di essa. Sebbene il potere giudiziario continui a svolgere un ruolo importante in questo contesto, purtroppo le iniziative in favore della giustizia di genere e del diritto di famiglia sono state, almeno per il momento, accantonate.

Si è discusso molto delle sempre crescenti attività delle forze fondamentaliste in India, in particolare di quelle dei gruppi fondamentalisti indù. Può spiegarci in che modo questi gruppi affrontano i problemi collegati alle donne?

In teoria, gli indù parlano di eguali diritti delle donne e della necessità di renderle autonome. Ma la maggior parte di questa retorica è intesa a sottolineare la natura ineguale delle donne musulmane nel personal law. Nel caso appena citato di Shah Bano, stranamente le femministe hanno trovato un terreno comune con la destra politica indù che attaccava il progetto di legge per gli stessi motivi. In effetti, questi ultimi sostenevano in modo anche più agguerrito delle femministe la necessità di subordinare il personal law della minoranza allo Uniform Civil Code, allo scopo di garantire a tutte le donne i loro diritti essenziali. Sebbene fosse evidente che le forze della destra non erano tanto interessate alla giustizia di genere quanto alla subordinazione delle identità minoritarie al maggioritarismo, l’argomento sembrò convincere molti indiani politicamente favorevoli alla destra. Coloro che difendevano il diritto delle minoranze a conservare la propria cultura e la propria identità comunitaria, erano francamente in posizione di svantaggio. Come poteva il governo, o i sostenitori del laicismo, giustificare il mantenimento del personal law delle minoranze quando esso violava i precetti fondamentali della giustizia di genere? In secondo luogo, perché lo Stato non ha interferito con il personal law a favore della riforma sociale avendolo invece fatto per la causa della maggioranza indù? In breve, il diritto religioso non parla di una condizione inferiore per le donne indù, ma neanche fa qualcosa per migliorare tale condizione. Le donne indù continuano ad essere sfruttate ed oppresse quanto le donne musulmane.

Professoressa Chandhoke, a differenza di quello francese, il concetto indiano di laicità trova il suo fondamento nell’idea di unità nella diversità. Per i padri fondatori dell’India contemporanea, laicità non significa esercitare un ateismo irreligioso. Al contrario, essa significa coltivare la pacifica coesistenza tra le fedi. Pensa che il Modello Indiano possa essere considerato una “terza via” per la soluzione della crisi delle società politiche del Medio Oriente in contrasto all’autoritarismo laico dello Stato e all’avanzata del fondamentalismo religioso nella società civile?

Quando il Mahatma Gandhi iniziò a organizzare un grande movimento di massa capace di affrontare il colonialismo, la politicizzazione delle identità religiose ostacolò il progetto della creazione di una lotta di liberazione pan-indiana. Il Mahatma Gandhi cercava un principio capace di unire persone appartenenti a fedi diverse e di saldarle in un movimento di massa. Egli fondò tale principio nella dottrina del sarva dharma sambhava, che può essere interpretata come l’ “uguaglianza di tutte le religioni”, oppure nel senso che “tutte le religioni dovrebbero essere considerate in modo eguale”. Considerata la religiosità del Mahatma Gandhi,il concetto di sarva dharma sambhava non era soltanto un principio pragmatico concepito allo scopo di unire la gente; esso era anche un principio normativo che riconosceva il valore della religione nella vita delle persone. Per Pandit Nehru, che divenne Primo ministro indiano, laicità voleva invece dire un muro di separazione tra religione e Stato. Ma egli non continuò a credere che lo Stato potesse separare il campo della decisione politica da quello della religione. I ricorrenti disordini tra comunità diverse, culminati con la spartizione dell’India, dimostravano che la caratteristica costitutiva della politica indiana era diventata, più che la sensibilità religiosa, il pregiudizio religioso. Ignorare ciò, oltre a costituire una politica sbagliata, sarebbe stata anche una errata valutazione storica. Nel venire ai termini con questa sgradevole realtà della politica indiana, la visione laica di Pandit Nehru si avvicinò molto di più al concetto di uguaglianza di tutte le religioni. In primo luogo, il laicismo non significava “uno Stato in cui la religione in quanto tale è scoraggiata.

Esso significa libertà di religione e di coscienza, includendo la libertà per coloro che non hanno religione”. In secondo luogo, nella visione di Nehru la parola “laico” non si contrappone alla parola “religione”. “Forse non è molto facile neanche trovare una parola adatta al laicismo”, ebbe modo di affermare una volta. “Alcune persone pensano che significhi qualcosa di contrario alla religione. Naturalmente questo non è esatto. “Laicismo” significa che c’è uno Stato che rispetta allo stesso modo tutte le fedi e che offre loro pari opportunità; che, in quanto Stato, esso non permette a se stesso di aderire ad una fede o ad una religione, che in tal modo diventerebbe religione di Stato”. Per Nehru, il concetto di Stato laico, perciò, comprende tre significati a) libertà di religione o di assenza di religione per tutti; b) uno Stato che rispetta ugualmente tutte le fedi; c) uno Stato che non aderisce ad una fede o ad una religione che, attraverso tale adesione, diventerebbe religione di Stato.

La dottrina del laicismo, dunque, placava il timore che un gruppo, benché maggioritario, potesse avere il diritto di imprimere il proprio ethos sul corpo politico. Al contrario, nessun gruppo religioso, anche minoritario, sarebbe stato in alcun modo privato dei suoi privilegi. In realtà, il significato acquisito dal laicismo nel contesto indiano aggiungeva un’ulteriore dimensione all’idea generica di laicismo: non soltanto il riconoscimento della fede, ma l’eguale trattamento di tutte le fedi. Questa visione è stata avvalorata in vari modi. L’idea che laicismo significhi uguale rispetto per tutte le religioni è giunta a dominare il pensiero giuridico e politico: un ex Chief Justice indiano ha interpretato il secolarismo nel seguente modo: (a) lo Stato non deve lealtà ad una religione; (b) esso non è religioso né antireligioso; (c) esso offre eguale libertà a tutte le religioni (d) la religione dei cittadini non ha nulla a che vedere con i problemi socio-economici.

Nella sua importante opera sulla Società Civile, lei avverte che la società civile non é un’istituzione ma, piuttosto, un processo per mezzo del quale i cittadini controllano costantemente sia lo Stato che il monopolio del potere al suo interno. Qual è il ruolo della Società Civile in India?

Per cominciare, quei movimenti sociali degli agricoltori che chiedono il ritiro dell’agricoltura dal WTO, che protestano contro l’istituzione di Zone Economiche Speciali a Singur e Nandigram e che chiedono che l’informazione, l’istruzione, il lavoro e il cibo diventino un diritto, hanno ridotto drasticamente la capacità del governo di ritirarsi dal settore sociale o di agire secondo il mandato globale delle organizzazioni internazionali come il WTO. In secondo luogo, la concessione di diritti politici e civili nel terzo capitolo della Costituzione non soltanto ha dato ai vari gruppi spazio sufficiente per mobilitarsi collettivamente su diversi temi, ma li ha anche resi capaci di esigere la realizzazione dei diritti sociali ed economici come una questione di diritto. I gruppi sono stati mobilitati sul problema delle ineguaglianze sociali ed economiche sin dagli inizi dell’indipendenza, nel 1947. Da allora, sono state combattute senza tregua e con ostinazione molte battaglie sociali contro i sistemi di dominazione consolidati.

Tra questi movimenti vi sono quelli per il diritto alla terra, il movimento delle donne, il movimento contrario alle caste, il movimento ambientalista e quello contrario alla dislocazione a vantaggio dei grandi progetti, nonché la lotta armata combattuta da gruppi maoisti, come il movimento naxalita. Mentre la lotta dei gruppi naxaliti si fonda su una forte ethos redistributivo, il movimento femminista chiede una ristrutturazione dei rapporti di potere endemici ad una società patriarcale. Laddove il movimento che si oppone alle caste chiede che gli equilibri di potere che per secoli hanno fortemente favorito le caste superiori siano rovesciati a vantaggio di coloro che sono stati marginalizzati dalla storia, il movimento ambientalista e quello contrario ai grandi progetti di sviluppo sostengono che le comunità locali abbiano il diritto per prime alle risorse che tradizionalmente sono state sfruttate da e per il resto della società. Dalla metà degli anni Novanta, abbiamo assistito alla nascita di campagne per il diritto al cibo, al lavoro, alla salute, all’istruzione e all’informazione, campagne che cercavano di elevare i Directive Principles of State Policy allo status di diritti. In qualche modo, significativamente, le campagne che mirano ad inserire nell’agenda politica la normativa sui beni sociali non hanno sollevato i problemi collegati alla redistribuzione del potere o delle risorse.

E nemmeno esercitano pressioni per qualche tipo di cambiamento strutturale. Ciò che queste campagne sono riuscite a fare è : a) denunciare le carenze e i ritardi nella concettualizzazione della politica; b) rendere più evidenti le imperfezioni del processo politico; c) mettere in rilievo i gravi problemi connessi alla realizzazione della politica sociale. Usando abilmente i diritti civili garantiti dalla Costituzione e attingendo all’intero repertorio delle strategie politiche disponibili alla lotta non violenta -conferenze o comizi pubblici, sit-in, cortei, ricerche, mezzi di comunicazione, sostegno e pressioni esercitate dai membri del Parlamento e delle State Assemblies – alcune campagne hanno portato a qualche risultato, sia nella forma di formulazioni politiche che in un aumento della spesa. Altri movimenti non hanno ancora ricevuto una risposta dallo Stato indiano. Ma tutti loro sono serviti a mettere in evidenza il fatto che gli obiettivi sociali della politica indiana, codificati nel quarto capitolo della Costituzione, sono stati traditi. In altre parole, la società civile indiana ha insistito sul governo perché realizzasse gli obiettivi della Costituzione.

Traduzione di Antonella Cesarini

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