Rapporto Onu, quelle donne strette tra casa e velo
Alessandra Spila 21 March 2007

Hijab e haramlik sono due parole arabe che significano rispettivamente “velo” e “una parte della casa riservata alle donne”. Due parole che rappresentano i limiti entro i quali ancora oggi troppe donne devono racchiudere la propria esistenza. A dirlo è il IV Rapporto Undp (United Nations Development Programme) sullo sviluppo umano nei paesi arabi. Curato da un team di esperti arabi il documento, che prende in esame 21 Stati, compresi paesi dell’Africa mediterranea (come Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto) e dell’Africa subsahariana (come Mauritania, Sudan e Isole Comore), è dedicato proprio all’“altra metà del cielo”, come chiarisce il suo stesso titolo, Per un nuovo ruolo delle donne nel mondo arabo.

E dall’indagine dell’Onu emerge un quadro in cui si alternano luci ed ombre: molti passi in avanti sono stati fatti, ma c’è ancora molta strada da fare. Istruzione, salute, politica, lavoro e diritti rimangono ambiti difficilmente e scarsamente accessibili alle donne arabe. Nonostante 17 dei 21 paesi considerati abbiano firmato e ratificato la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), rimangono molte riserve nei confronti di alcuni articoli della convenzione, ritenuti in contrasto con la legge nazionale e con la sharia. Insomma, se da un lato sono stati ottenuti alcuni riconoscimenti legislativi per evitare differenze di genere, le leggi nel campo lavorativo, penale e della nazionalità dall’altro continuano a favorire la discriminazione.

Ancora oggi infatti quasi la metà delle donne, nonostante la frequenza scolastica femminile nel campo dell’istruzione primaria sia in continua ascesa, continua a non saper né leggere né scrivere, un tasso che per gli uomini si attesta invece al 25,1%. Inoltre, sebbene l’opinione pubblica araba si dichiari nella maggioranza favorevole alla parità tra uomini e donne nel diritto all’istruzione e sebbene le iscrizioni femminili alle università siano aumentate, queste ultime si concentrano ancora in campi come letteratura, scienze umane e scienze sociali, difficilmente spendibili nel mondo del lavoro. Così come restano gravi i disagi che le donne sono costrette ad affrontare nel campo della salute: la qualità dei servizi dedicati a loro rimane scarsa, spesso non vengono fornite condizioni sanitarie di base e a preoccupare è soprattutto la piaga dell’Aids. Nonostante la regione araba rimanga una delle meno colpite dal virus, risulta aumentato sensibilmente il numero di ragazze e donne infette, tanto da costituire ormai la metà della popolazione contagiata.

Nel Rapporto, che rappresenta l’ultima tappa di un’analisi complessiva dei deficit di sviluppo che colpiscono la regione e delle carenze nel processo di “empowerment” femminile, si torna poi a parlare della drammatica realtà delle violenze di vario genere di cui le donne arabe sono vittime in molte società. Il costume tribale di uccidere le donne “in difesa dell’onore” sopravvive in diversi paesi. Così come risultano diffuse le violenze domestiche, spesso invece negate e considerate argomento tabù, e l’alta percentuale di mutilazioni dei genitali femminili presso alcuni Stati arabi, con tutte le sue conseguenze fisiche e psicologiche. Tuttavia l’opinione pubblica araba condanna in modo assoluto, sempre secondo il Rapporto, ogni tipo di violenza sulle donne.

Ma impedimenti ed ostacoli all’emancipazione sono all’ordine del giorno anche nell’ambito lavorativo. Se da un lato si registra una nota positiva con la crescita stabile delle imprenditrici (in Tunisia dal ’98 al 2005 sono passate da 2000 a 5000), dall’altro il tasso di occupazione femminile (cioè la percentuale di donne dai 15 anni in su che forniscono lavoro o sarebbero disponibili a farlo) si ferma al 33%, rimanendo così il più basso del mondo. Inoltre le donne sono le prime ad essere licenziate nei periodi di crisi. La cultura maschile dominante, la scarsità di posti di lavoro in generale, la discriminazione tra sessi e nei salari, nonché gli alti tassi riproduttivi sono le cause principali che determinano la scarsa partecipazione femminile ai processi economici.

Le problematiche di genere hanno trovato uno spazio inedito, tuttavia, grazie all’avvento dei nuovi media e anche alla letteratura e al cinema arabo. Questi ultimi hanno contribuito ultimamente alla critica di stereotipi culturali e sociali, affrontando anche temi tabù come la violenza sessuale e l’emarginazione. Viceversa, a fronte di un maggior impiego delle donne nei media di alcuni paesi, la presenza di un network di comunicazione globale ha facilitato la diffusione di visioni tradizionaliste, contrarie all’emancipazione femminile. Per quanto riguarda invece la sfera politica, nell’indagine di campo del Rapporto, emerge ancora una contrapposizione tra l’opinione pubblica araba, a favore del diritto delle donne a partecipare all’attività politica e ricoprire le più alte cariche dirigenziali, e la situazione effettiva. Non si possono certo ignorare alcuni cambiamenti positivi, grazie anche al sistema delle quote rosa che in Marocco, per esempio, ha fatto salire tra il ’95 e il 2003 la percentuale di donne in Parlamento dall’1% all’11%. Ma neppure che, malgrado ciò, la proporzione delle donne parlamentari nei paesi arabi rimane sotto il 10%. Pure qui aggiudicandosi l’ultimo posto nella classifica mondiale.

Secondo il documento dell’Onu sullo sviluppo umano nel mondo arabo, infine, i problemi delle donne non dipendono solo dall’esistenza di società conservatrici o da un’errata interpretazione dell’Islam, ma anche dall’esistenza di conflitti, guerre, occupazioni straniere, terrorismo e crisi economiche. Eppure gli autori del Rapporto non esitano a sostenere che proprio dalla conquista della piena autonomia da parte delle donne potrebbe partire la rinascita commerciale, economica e culturale dei paesi arabi.

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