A metà strada tra società e politica
Alessandro Ferrara 4 March 2008

Risponderò alla domanda «Che cos’è il secolarismo?» in modo indiretto, seguendo un ragionamento un po’ articolato: partirò da due interpretazioni del secolarismo a noi familiari, passerò quindi a illustrare la nuova formulazione del secolarismo elaborata da Charles Taylor cercando di riportare questa nuova concezione su un terreno più familiare e di ricostruire il rapporto che il secolarismo intrattiene con quelli che oggi vengono considerati dei capisaldi della condizione moderna. Assumerò dunque come punto di partenza il significato che il secolarismo ha assunto laddove tale concetto ha fatto la sua prima apparizione e si è sviluppato maggiormente: le società e i sistemi politici moderni dell’emisfero occidentale. Tale scelta non nasce dalla convinzione che ciò che accade altrove sia meno importante – anzi, sotto molti aspetti il futuro della democrazia, della pace e del rispetto dei diritti umani dipende proprio da quello che accade in altre parti del mondo, e non in Occidente –, ma scaturisce piuttosto dall’idea che per promuovere il dialogo tra le civiltà, l’esatto contrario dello sciagurato scontro di civiltà, è molto più utile cercare di comprendere ciò che accade a casa propria, nel proprio angolo di mondo, per così dire, piuttosto che mettersi a speculare su quello che sta o non sta accadendo, o peggio ancora dovrebbe o non dovrebbe accadere, in altre parti del globo.

Detto ciò, il primo significato del termine secolarismo si riferisce al fatto che il potere statale legittimo – ciò che potremmo definire la dimensione coercitiva del diritto – viene esercitato in termini secolari, ossia tutti i cittadini godono della facoltà di esercitare liberamente la propria libertà religiosa e di credere in tale o talaltro Dio, o anche di non credere in alcun Dio, e che esiste una netta separazione tra Stato e Chiesa. Nella sua versione classica la separazione tra Stato e Chiesa prevede che a ogni fede religiosa venga garantita la libertà di diffondere la conoscenza rivelata, indicare la via per la salvezza, amministrare l’interpretazione del sacro, regolamentare i rituali, infondere un senso di trascendenza nella vita quotidiana, celebrare il vincolo che unisce la comunità di fedeli; ma questa libertà può essere esercitata fintantoché tali confessioni non reclamano il sostegno del potere coercitivo dello Stato, non pretendono di trasformare il peccato in crimine e lasciano sempre ai fedeli la libertà di cambiare idea e di convertirsi a un’altra religione o anche di abbandonare del tutto la religione. È questo il senso del secolarismo che ritroviamo nel termine francese laicité, nell’italiano laicità, nello spagnolo laicidad e nell’espressione inglese forse un po’ tortuosa «neutralità religiosa », e che ritroviamo nelle due clausole del primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. In questa prima accezione, dunque, il secolarismo può essere definito come «secolarismo politico».

Nel suo secondo significato, invece, il secolarismo si riferisce a fenomeni sociali più che politici. In questa accezione secolarismo significa che nelle società moderne le comunità religiose perdono la loro influenza sul diritto, sulla politica, sull’educazione e sulla sfera pubblica in generale, trasformandosi in sottogruppi con funzioni ben determinate, in pratica in comunità di credenti che condividono gli stessi valori; significa che le tappe cruciali della vita degli individui sono sempre meno segnate da rituali e simboli religiosi; significa inoltre che nella definizione dei network sociali l’appartenenza religiosa assume un’importanza solo marginale; e infine significa che le categorie religiose perdono in parte il potere di condizionare i pensieri degli individui, come anche il loro impegno e la fedeltà verso qualcosa, a vantaggio di altri ordini di considerazioni, e che l’agire che nasce da motivazioni religiose viene relegato in ambiti particolari, che hanno un’importanza sempre più marginale per la vita sociale.

Questa distinzione tra secolarismo politico e sociale è utile per diversi motivi: in primo luogo, ci consente di individuare le asimmetrie e gli squilibri che si annidano nei complicati processi di secolarizzazione. In alcuni paesi in un dato momento storico, per esempio, il processo di secolarizzazione politica può procedere a un ritmo più sostenuto rispetto alla secolarizzazione della società. È questo il caso dell’Italia, in cui sebbene una sentenza del 1989 della Corte costituzionale abbia sancito che la laicità delle istituzioni pubbliche è un «supremo principio costituzionale», ancora oggi la pratica di esporre i simboli religiosi, come il crocifisso, negli edifici pubblici, viene confermata da sentenze di tribunali civili e amministrativi che evidentemente sono particolarmente sensibili alle pressioni di una parte della società civile meno secolarizzata, e in cui l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche è ancora completamente incentrato su un’unica confessione.

In secondo luogo, poi, questa distinzione ci permette di comprendere quella «ideologia della secolarizzazione» che per un certo periodo ha dominato il pensiero politico e sociale in Occidente. È indubbio che la religione sia prepotentemente tornata alla ribalta della scena politica con la nuova situazione delineatasi all’indomani degli eventi del 1989. Alcuni sociologi, come Peter Berger, José Casanova e Adam Seligman, ci hanno messo in guardia sui processi di de-secolarizzazione in corso, sul «riemergere» di un bisogno del sacro che in realtà non era mai scomparso del tutto, oltre che sulla centralità che le tematiche e i simboli religiosi stanno assumendo nella vita di un numero sempre crescente di individui e di gruppi. Con il passar del tempo l’idea che il secolarismo, inteso nella sua prima accezione – e cioè come separazione istituzionale tra religione e politica ed estromissione dall’arena pubblica delle questioni religiose, possibile oggetto di controversie –, avrebbe condotto inevitabilmente all’affermazione del secondo tipo di secolarismo – ossia il declino dell’elemento religioso quale base delle motivazioni, della dedizione e degli obblighi di un numero crescente di individui – si è rivelata un’ennesima filosofia della storia animata da convinzioni ideologiche. Gli studi empirici nel campo della sociologia della religione hanno dimostrato che persino il fatto che il numero di fedeli che partecipa alle cerimonie religiose sia diminuito non significa che le idee religiose non continuino a condizionare la vita dei fedeli.

Taylor e il problema della fede

Ma il quadro non è ancora completo. Vorrei infatti parlare di una terza concezione del secolarismo, una concezione formulata di recente da Charles Taylor in A Secular Age, il suo monumentale (900 pagine) quanto rivoluzionario volume, pubblicato appena due mesi fa. Il grande merito della prospettiva di Taylor consiste nella sua qualità experience-near («prossima al vissuto ») e nello spessore fenomenologico della sua riformulazione del concetto di secolarismo. Per affrontare il problema del secolarismo, infatti, Taylor non prende le mosse da interrogativi del tipo «Come devono essere le istituzioni in una comunità politica secolarizzata? Quale ruolo svolge la religione nella percezione della legittimità di quelle istituzioni?»; né pone la questione chiedendosi se «la capacità della religione di influenzare le intenzioni, l’impegno, la fedeltà degli individui e i loro network sociali sia andata scemando nel corso del tempo» oppure se «il numero di persone che crede in Dio sia diminuito». Taylor al contrario affronta il problema partendo da un interrogativo che scaturisce direttamente dall’esperienza vissuta. Le domande cruciali per comprendere la terza accezione del secolarismo diventano allora: «Che cosa si prova a credere? Come è vivere da credente o da non credente?».

Sintetizzando il lungo ragionamento di Taylor, si può affermare che in questo terzo significato il secolarismo «consiste, tra le altre cose, nel passaggio da una società in cui la fede in Dio è un fatto incontrovertibile e viene quindi vissuta in modo non problematico, a una società in cui la fede viene considerata come un’opzione tra le altre, e spesso neanche la più facile da scegliere». Assumendo come punto di vista il secondo significato del secolarismo, gli Stati Uniti appaiono una società meno secolare rispetto alla Francia o alla Germania; al contrario, dalla prospettiva fenomenologica l’America non può essere considerata meno secolare di questi paesi. Parimenti, se si prende come criterio la frequentazione dei luoghi di culto, allora la frequentazione delle chiese negli Stati Uniti si avvicina molto alla frequentazione delle moschee in Pakistan e in Giordania, eppure in tutti questi paesi la fede viene vissuta in modo completamente diverso. Partendo da questa terza nozione di secolarismo, quindi, credenti e non credenti, teismo e ateismo non vengono considerati, in termini cognitivi, come teorie antagoniste, bensì come modi diversi di essere nel mondo, di vivere la propria vita.

Ricorrendo agli idealtipi potremmo descrivere questi due modi di essere nel mondo in questi termini: tutti noi, sia credenti che non credenti, percepiamo la nostra vita come dotata di una determinata forma morale, di un ordine non casuale di significati, di intenzioni, di scopi per cui lottare; tutti noi sentiamo che in certe condizioni o in determinate attività sperimentiamo una pienezza dell’essere, una ricchezza interiore, una sorta di riconciliazione che altrove ho definito autenticità. E, allo stesso modo, abbiamo un vocabolario per esprimere l’esperienza opposta: esilio, distanza, assenza, malinconia, noia, spleen. La differenza sta nel fatto che vivere da credente significa collocare la fonte della propria pienezza o della propria disperazione nella possibilità di raggiungere un contatto o, viceversa, nell’allontanamento da una causa esterna da sé, a cui il sé deve aprirsi.

Per i non credenti, invece, la forza per raggiungere quella ricchezza risiede interamente dentro di sé. Ci sono svariate versioni di questa fonte interiore di riconciliazione e dignità: per taluni (Kant) essa risiede nella capacità di darsi una legge, per altri (Copernico, Darwin, Freud) nella capacità unica di riuscire a vivere in un mondo disincantato, ossia un mondo che ha perso ogni significato, anche se personalmente esprimerei questa idea in un lessico più piegato verso la nozione di autenticità. Si tratta dunque di due diversi atteggiamenti verso la vita. Il mondo non ancora secolarizzato è un luogo in cui – stando alla nozione di secolarismo elaborata da Taylor – tutti, non il singolo individuo, danno per scontato che la fonte del valore, del significato e della ricchezza si trovi al di fuori della portata dell’uomo, in qualcosa di trascendente. Quindi nel mondo in cui viviamo l’esperienza della fede esce del tutto trasformata.

Il problema non è che la percentuale di credenti nel 1500 era superiore rispetto a quella del 2000; quello che qui conta è che l’esperienza soggettiva della fede ha subito un mutamento radicale: da ordinamento incontestato, accettato da ciascun individuo in modo istintivo, irriflessivo, quell’esperienza si è trasformata in una delle tante alternative possibili, a nessuna delle quali può essere accordato uno status privilegiato all’interno della società. Il credente è dunque condannato a considerare la propria fede come una tra le altre possibilità; ovviamente può continuare a credere, ma questa esperienza non può più essere vissuta in modo irriflessivo, ingenuo, come avveniva nelle società non secolarizzate. Non è certo mia intenzione riassumere l’intero libro.

Taylor ha esplorato le cause e i processi culturali che in Occidente hanno favorito la transizione da una cultura «incantata» a una cultura disincantata o secolare, e le cause che hanno portato per la prima volta nella storia dell’uomo all’egemonia di un umanesimo autosufficiente fondato su una «struttura immanente», ossia un intero orizzonte culturale che identifica la più alta forma di vita con la realizzazione dell’essere umano e che non ammette fini ultimi al di là dello sviluppo dell’uomo né obblighi o fedeltà a qualcosa che non sia quella realizzazione. È possibile rintracciare una sorta di evoluzione interna nel pensiero di Charles Taylor. Se nei saggi intitolati Una modernità cattolica e Le varie forme della religione oggi Taylor puntava il dito contro la «lobotomia spirituale» che quella struttura immanente, se considerata esclusiva, imporrebbe al cittadino cristiano e ammoniva sul rischio che questo umanesimo autosufficiente di «valori politici condivisi» potesse apparire ai fedeli come un’«estromissione gratuita della religione in nome di una fede metafisica antagonista, e non semplicemente come la tutela e il controllo dei confini di una sfera pubblica condivisa e indipendente», Taylor sembra ora comprendere che quella struttura immanente rappresenta una componente essenziale della modernità secolare. Certo, anche questa è solo una prospettiva tra le altre, però ha il merito di aver trasformato l’esperienza religiosa in un punto di vista tra i tanti esistenti in uno spazio comune, il quale deve, per definizione, ammettere una pluralità di alternative. Sarebbe qui impossibile sintetizzare la complessità del concetto di secolarizzazione così come riformulato da Taylor. Vorrei quindi concludere con un’osservazione che vuole essere un metaforico sasso lanciato nello stagno.

A mio avviso, l’esperienza di autoriflessività, di decentramento e di denaturalizzazione che Taylor associa al terzo significato di secolarizzazione, non è in ultima analisi così lontana da ciò che John Rawls, il fautore di una visione liberale della politica, intende quando ammette l’esistenza del «fatto del pluralismo». L’ordine politico in cui noi occidentali siamo immersi trova così le sue radici culturali nel fatto che i sostenitori di dottrine onnicomprensive, siano esse religiose o laiche, hanno imparato a considerare la loro interpretazione dell’umano, del valore della vita, di ciò che è degno di essere perseguito solo come una interpretazione tra le altre, e hanno rinunciato ai loro sogni di onnipotenza: cioè, hanno smesso di pensare che ci sarà giustizia solo quando il resto dell’umanità abbraccerà le loro idee.

Infine, cosa più importante, si entra a pieno titolo nell’epoca secolare solo quando tutti coloro i quali aderiscono a teorie onnicomprensive capiranno che la creazione di un ordine politico non può basarsi su verità ultime, ma solo su verità penultime, che tutti possono condividere, non per una forma di rassegnazione alla triste realtà dell’onnipresenza dell’errore umano, bensì come atto di riconoscimento e di tributo alla libertà umana che, nella nostra condizione di finitezza, produce pluralità più che uniformità.

Alessandro Ferrara insegna Filosofia politica presso l’Università di Roma «Tor Vergata» ed è presidente della Società Italiana di Filosofia Politica. Si è occupato delle fonti e giustificazioni della normatività dopo la svolta linguistica. Partendo da una critica del proceduralismo habermasiano ha cercato di sviluppare una concezione autenticitaria della validità e una concezione giudizialista della giustizia in ambito di filosofia politica. È autore di: Autenticità riflessiva (Feltrinelli, 1999), Giustizia e giudizio (Laterza, 2000) e, in uscita, The Force of the Example (Columbia University Press, 2007).

Questo scritto è stato presentato al convegno di Reset-Dialogues on Civilizations “What is Secularism”, organizzato nell’ambito della giornata mondiale della filosofia dell’Unesco, che si è tenuta a Istanbul il 22 novembre 2007.

Traduzione di Marianna Matullo

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