Quelle identità soft che aiutano l’integrazione
Chiara Saraceno 7 November 2007

Chiara Saraceno è professore ordinario di Sociologia della famiglia presso la facoltà di Scienze politiche di Torino, dove insegna anche sistemi sociali comparati.

Il formarsi di coppie “miste” per caratteristiche socialmente rilevanti è considerato generalmente un indicatore insieme di indebolimento del controllo sociale delle comunità di appartenenza sui propri membri e di integrazione sociale. Integrazione sociale tuttavia è un concetto non univoco. Soprattutto sul piano pratico, può significare cose molto diverse, come insegna la letteratura in generale sui rapporti tra gruppi e può dispiegarsi tra i poli opposti della assimilazione e del “separatismo in parallelo”. In certa misura, queste differenze nei modelli di integrazione valgono non solo per i gruppi (etnici, religiosi, nazionali, ecc.), ma anche per le coppie e le famiglie “miste”.

Quali sono le differenze che contano?

Il termine “coppia mista” allude ad una qualche forma di eterogamia: ad una alleanza di coppia tra socialmente diversi ove il contenuto specifico della diversità rilevante può variare. Anche senza includere nelle “coppie miste” quelle che vedono partner appartenenti a classi sociali molto diverse – quelle mésaillances che a lungo hanno costituito il timore delle parentele e prodotto un ricco materiale per il romanzo borghese – entro le coppie miste si includono quelle in cui i partners sono diversi per appartenenza religiosa, o colore della pelle (“razza”), o origine nazionale, o etnia. Vale la pena osservare che mentre negli Stati Uniti le coppie miste per antonomasia sono state e sono quelle interrazziali e in particolare quelle che vedono una persona “bianca” e una “nera”, in Italia ancora fino a tutti gli anni ottanta le coppie miste per antonomasia erano quelle tra italiani di religione diversa, in particolare quelle che vedevano una persona cattolica con una di altra religione. Solo a seguito della esplosione del fenomeno migratorio il significato di “coppia mista” è parzialmente mutato e per coppie miste ora nel linguaggio comune si intendono soprattutto le coppie in cui uno dei partner è straniero, soprattutto se proveniente da un paese in via di sviluppo e soprattutto se di etnia percepita come molto diversa. Potremmo dire che oggi l’immagine della coppia mista per antonomasia nel nostro paese sembra incorporare sia quella prevalente negli USA (una “razza”, non solo una etnia diversa) sia la “vecchia” immagine italiana della differenza religiosa.

Anche se la differenza che rileva oggi non è più tanto quella tra le varie religioni cristiane, o tra queste e l’ebraismo, ma la differenza mussulmana. La coppia “più mista che ci sia” è quella tra italiana e africano di religione islamica. Il fatto che in alcuni paesi conti più la differenza religiosa (specie se rafforzata da quella linguistica) rispetto a quella etnico-razziale ed in altri avvenga invece il viceversa è stato segnalato anche da dallo studio di Kalmijn e van Tubergen (2006) sull’Olanda. Queste sintetiche osservazioni segnalano come una coppia possa essere considerata mista sulla base di criteri e per ragioni differenti e che “la differenza che fa differenza”, per i singoli e le loro famiglie, ma anche per il contesto sociale in cui vivono, muta nello spazio e nel tempo. Proprio allargare lo sguardo, d’altra parte, per considerare i vari modi in cui una coppia può costituirsi ed essere considerata come mista, consente di vedere che cosa c’è di comune in tutti i vari modi di essere una coppia mista e viceversa che cosa le distingue l’una dall’altra. E in che senso il formarsi di coppie miste possa essere considerato un indicatore di integrazione sociale.

Tra secolarizzazione ed egemonia

Innanzitutto, le coppie variamente miste presentano in modo insieme più esplicito e più acuto i “problemi evolutivi” che devono fronteggiare tutte le coppie, anche le più socialmente omogamiche, nella misura in cui provengono da tradizioni familiari diverse. Ogni coppia, infatti, deve costruire un “fare comune” a partire da abitudini, tradizioni, know how differenti: che cosa si mangia e come lo si cucina, come si festeggiano i compleanni e le feste comandate, quali sono i rituali e le scadenze importanti, come si esprime l’affettività, quali sono gli standard di igiene e pulizia, i modelli di genere e i rapporti genitori figli – sono tutte cose che sono percepite e normate in modo più o meno sottilmente differente da ciascuna famiglia e costituiscono il bagaglio e la mappa di navigazione che ogni persona si porta appresso quando forma una coppia e su cui si trova a negoziare con il/la proprio partner. Quando queste differenze sono motivate, fatte valere, o anche interpretate nella argomentazione come aventi una origine non solo, per così dire, familiare-idiosincrasica, ma collettiva, le cose ovviamente diventano ancora più complicate.

Non si tratta più di differenze inter-individuali e interfamiliari, ma di differenze tra gruppi sociali, popolazioni, mondi culturali. “Loro” e “noi”, “i tuoi” e “i miei” diventano mondi complessivi di vita diversa – che può attrarre o invece respingere – che in qualche misura inghiotte il singolo individuo e la singola famiglia, assunti a meri rappresentanti di quel mondo, allo stesso tempo dando una forma particolare a conflitti e negoziazioni (sui modelli di genere, sui rapporti di parentela, ecc.) che in un matrimonio “non misto” assumerebbero un altro codice (vedi anche Collet e Varro 2000). È un fenomeno evidente non solo quando scoppiano i conflitti, ma nella stessa ricerca del partner “diverso”, che si tratti della ricerca di una donna latino-americana perché “più donna”, o “più sensuale”, o di una donna dell’Est Europeo perché “meno emancipata” della “donna italiana “.

D’altra parte, le culture familiari, i modi di fare famiglia, sono tra gli elementi più distintivi delle società, facendo parte delle caratteristiche di lunga durata: l’importanza dei parenti, i modelli di genere e i rapporti tra generazione distinguono più o meno nettamente società anche appartenenti alla stessa area geografica, come testimoniano i tassi di occupazione femminile, piuttosto che di instabilità coniugale o la diffusione delle convivenze more uxorio o ancora i tipi di dibattiti politici sulla famiglia e le soluzioni giuridiche che si danno nei diversi paesi europei. Lo testimoniano anche indagini comparative sugli atteggiamenti quali la World Value Survey o la European Value Survey. Non solo, quindi, l’Italia è diversa dal Marocco o dal Senegal. Lo è anche dalla Svezia o dalla Germania o dall’Olanda. Queste differenze emergono più chiare in presenza di figli, nella misura in cui la coppia si trova confrontata con modelli di socializzazione e di relazione talvolta anche molto diversi e che non possono essere ricomposti una volta per sempre, ma si ripresentano in ogni fase della crescita dei figli (Crippen e Brew 2007). Il “lavoro transculturale” di una famiglia mista per certi versi non finisce mai.

Le “differenze” socialmente più potenti e organizzate, soprattutto in campo religioso, sono quelle che sono meno disponibili al compromesso e quindi quelle che da un lato limitano di più la formazione di una coppia mista, specie tramite il matrimonio, dall’altro, in caso di coppia mista, pretendono di più di essere riconosciute e confermate in particolare quando vi sono figli. Tutte le grandi religioni, infatti, hanno norme precise in questo senso. Ciò significa che uno dei due deve rinunciare a seguire le norme della propria religione per consentire all’altro di seguire quelle della propria. Il che può avvenire solo se egli/ella stessa non dà altrettanto importanza alla propria religione – quando addirittura non si converte (collocando la coppia sul polo della assimilazione). Ovvero, i matrimoni misti sono resi possibili vuoi da una bassa identificazione di entrambi i partner con le proprie differenze, vuoi dal fatto che uno dei due rinuncia a far valere la propria differenza, di nuovo perché vi si identifica poco o non la ritiene una differenza per la cui riproduzione valga la pena di entrare in un conflitto o di rinunciare al rapporto di coppia. A parità di “differenza” (la religione in questo caso), si tratta di coppie miste diverse. Ma in entrambi i casi esse esprimono in livello di mixité – o interculturalismo – debole. Nel primo caso perché entrambi i partner sono portatori di differenze deboli, nel secondo perché c’è una differenza egemone. Si aggiunga che sembra che i figli di matrimoni misti per religione siano in media meno religiosi, meno identificati con una o l’altra religione e i comportamenti che ne derivano, dei figli di coppie religiosamente omogamiche. Una mixité – o interculturalismo – promossa per la via “privata” della coppia sembrerebbe quindi insieme richiedere e promuovere appartenenze identitarie di gruppo deboli, o circoscritte.

Voas (2003) a questo proposito parla di “demografia della secolarizzazione”: quanto più una società è multi-religiosa e quindi quanto più aumenta il numero dei matrimoni misti, tanto più diviene secolarizzata. Si può quindi comprendere come mai le religioni “forti” siano ostili ai matrimoni interreligiosi, qualsiasi sia l’altra religione: perché essi sono sia un indicatore che una causa di secolarizzazione. Si capisce anche perché questo rischio venga spesso affrontato anche con reazioni iper-identitarie, non solo da parte di una comunità contro l’altra, ma anche entro le famiglie: con i giovani, ad esempio, che usano la “ritrovata” identità religiosa per marcare la propria posizione rispetto a genitori e una società “troppo secolarizzate”. Il caso delle donne cristiane sposate con un islamico che si convertono e assumono in modo iperrealistico i comportamenti islamici (velo integrale, accettazione della poligamia, piena subordinazione al marito) è un altro esempio di questa possibile reazione contro-secolarizzante. La tesi della secolarizzazione, ma anche quella della “differenza dominante”, potrebbe valere per analogia anche quando “la differenza che conta” è razziale, ovvero riguarda tratti somatici visibili. I matrimoni interrazziali, infatti, segnalano una attenuazione delle barriere e delle gerarchie tra le “razze”. Viceversa possono – come nel caso della religione – anche comportare scelte di lealtà rispetto a quale razza privilegiare nei processi di identificazione e lealtà sociale, per sé e per i propri figli.

Tuttavia, proprio la visibilità della mixité – nella coppia prima e poi negli eventuali figli – e il fatto che l’appartenenza razziale è un costrutto sociale che ha molte ramificate e pervasive conseguenze sulla organizzazione sociale – degli spazi, delle risorse, dei sistemi di aspettative e così via – costringe la coppia e poi la famiglia mista a stare sulla scena pubblica e a dare conto delle proprie scelte in pubblico in modo molto più sistematico e diffuso che per ogni altro tipo di coppia mista. Le osservazioni di Waters (2000) sui problemi di identificazione “pubblica” di sé poste negli USA fino al censimento del 2000 alle persone di “razza mista” provenienti da società multirazziali dell’America latina ove esistono più differenze che quelle tra “bianco” e “nero” sono da questo punto di vista illuminanti. Le definizioni amministrative, che non sono affatto culturalmente e valorialmente neutre, si sovrapponevano come una corazza rigida su identità e appartenenze flessibili, allo stesso tempo cristallizzando una gerarchia non solo tra le “razze” ma tra le modalità per appartenervi.

Chiunque avesse un antenato nero era automaticamente classificato come nero, indipendentemente da quanto lontano e “solitario” fosse questo antenato. È un caso in cui la razza dominante, più che appropriarsi dei prodotti “misti”, li esclude e se ne difende. Un problema analogo si è posto in Italia in Alto Adige, per le famiglie miste italo-tedesche. Nella misura in cui in quella provincia molte risorse sono allocate in base alla appartenenza etnico-linguistica e il sistema scolastico e i servizi sociali sono distinti e separati per i due gruppi, identificare in modo univoco – e quindi parziale – l’appartenenza dei figli significa immetterli in uno piuttosto che un altro sistema di risorse, oltre che di identificazioni. I matrimoni misti non devono solo affrontare possibili conflitti di lealtà rispetto alle comunità di appartenenza originaria. Quelli misti per religione o per nazionalità (e ancor più quando religione e nazionalità si combinano) implicano anche sempre possibili conflitti sulle regole, incluse quelle giuridiche, e sulla autorità o istituzione appropriata cui rivolgersi in caso di conflitto. I giornali, ma anche le librerie, sono piene di casi in cui il genitore straniero è sparito con il figlio/a con la protezione del proprio governo e delle sue leggi. Riguarda padri islamici nord-africani, ma anche padri e madri statunitensi, o inglesi, o slovacchi, o italiani. Non solo le regole sull’affidamento dei figli in caso di separazione coniugale variano da paese a paese, anche entro l’Unione Europea, ma ciascun paese tende a dare maggior riconoscimento alle domande e diritti dei propri cittadini.

Asimmetrie vecchie e nuove

Sia a livello internazionale che in Italia la combinazione di appartenenza di genere e di etnia/razza produce costellazioni specifiche di coppie miste che riproducono le disuguaglianze sociali di genere e la stratificazione sociale delle etnie/razze (senza escludere grandi e meravigliose storie d’amore che superano ogni ostacolo). Innanzitutto, come segnala anche Rosina su questo numero della rivista, entro la etnia dominante (i bianchi, gli autoctoni) sono più gli uomini che le donne a formare una coppia mista. Ovvero gli uomini in posizione dominante “pescano” nei mercati matrimoniali di tutti gli altri gruppi. In secondo luogo, ciò facendo seguono gerarchie di appetibilità etnicorazziali che incidono fortemente sulle opportunità matrimoniali sia delle donne che degli uomini degli altri gruppi. Ciò fa sì che le coppie miste in cui l’uomo appartiene al gruppo dominante (per nazionalità e/o razza/etnia) siano spesso più asimmetriche – per età innanzitutto, ma anche per condizione sociale indipendentemente dalla istruzione – delle coppie formate da persone etnicamente e nazionalmente simili, specie se la sposa di nazionalità/etnia diversa proviene da un paese non di area EU o OCSE. Si aggiunga che la donna in questo caso può essere indebolita dal trovarsi priva delle proprie reti informali – familiari e non – quindi più dipendente dal marito. La situazione è diversa quando è la donna ad appartenere al gruppo dominante.

Non solo si tratta di una minoranza delle coppie miste, segnalando come le donne abbiano mercati matrimoniali più ridotti degli uomini. Queste coppie sono apparentemente meno asimmetriche e tradizionali, nel senso che la differenza di età è più ridotta che in quelle formate con uomo dominante, e talvolta rovesciata. Inoltre le donne si trovano con risorse negoziali relativamente forti: appartengono alla comunità in cui vivono e possono in teoria contare su un capitale sociale intatto. Dire tuttavia che si tratta di coppie più simmetriche e più egualitarie è semplicistico, nel senso che il fatto che, quando non sposano persone dell’Europa occidentale o comunque del mondo sviluppato, le donne facciano coppia più spesso con i gruppi etnico/razziali/nazionali in cui più raramente “pescano” gli uomini autoctoni suggerisce piuttosto che si tratti di donne in posizione debole sul mercato matrimoniale autoctono – per età e altre caratteristiche personali – e che “spendono” la propria appartenenza al gruppo dominante come risorsa sul mercato matrimoniale interetnico/interrazziale/internazionale, ma “dovendosi accontentare” degli uomini appartenenti ai mercati matrimoniali meno appetibili, data la costruzione sociale delle “differenze che contano”.

Perciò è vero che sono in una posizione negoziale relativamente forte, nella misura in cui danno accesso a risorse preziose. Ma possono essere indebolite dalla posizione sociale del loro partner (oltre che esposte ai conflitti su modelli di genere e di relazioni di genere molto diversi). In questa situazione, le donne appartenenti ai gruppi meno appetibili per gli uomini del gruppo dominante possono trovarsi nella situazione di massimo svantaggio sul mercato matrimoniale: è difficile per loro essere prese in considerazione come partner dagli uomini dominanti; ma anche rispetto agli uomini del proprio gruppo sono in competizione con le donne del gruppo dominante. In ogni caso, questi dati sembrerebbero suggerire che mentre gli uomini con un matrimonio misto per nazionalità/etnia (specie se si tratta di nazionalità/etnia non del “primo mondo”) spesso cercano di realizzare un modello di coppia che temono di non poter più realizzare con una donna del loro stesso gruppo, le donne, sia quando sposano un europeo occidentale sia quando sposano un immigrato da un paese in via di sviluppo, cercano piuttosto di realizzare un rapporto più simmetrico. Naturalmente si possono sollevare esempi al contrario e occorrerebbero ricerche, anche qualitative, più approfondite di quelle disponibili. Ma questi indizi se non altro suggeriscono che l’integrazione verso cui portano le coppie e le famiglie miste può avere contenuti molto diversi.

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 103.

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