“Ecco perché il mondo vota Obama”
Charles Kupchan intervistato da Marilisa Palumbo 1 April 2008

Il mondo intero sta seguendo da vicino la campagna per le presidenziali americane. Come si spiega tutto questo interesse nonostante si parli ormai di declino dell’impero Americano?

Io ritengo che gli Usa siano ancora in una posizione in cui le sue decisioni di politica estera riguardano tutto il mondo sia da un punto di vista della sicurezza sia da un punto di vista economico. C’è preoccupazione che quello che accade in Iraq e Afghanistan possa influenzare la traiettoria dell’estremismo islamico, c’è preoccupazione che un progressivo declino dell’economia americana possa portare a una recessione globale: per questo tutti seguono con attenzione quello che sta succedendo da noi. A volte mi capita di sentire qualcuno che dice – scherzando ma non troppo – che il resto del mondo dovrebbe avere la possibilità di votare nelle elezioni americane perché influiscono sulla vita di tutti. E poi questa è una corsa molto interessante soprattutto grazie ai candidati democratici, una donna e un africano americano. Una circostanza che già di per sé è una buona storia.

Perché secondo lei Obama è il preferito del “resto del mondo”?

In parte credo perché rappresenterebbe una nuova immagine degli Stati Uniti, un’immagine molto multiculturale e multietnica. E in un momento della politica globale in cui la globalizzazione e le migrazioni sollevano preoccupazioni sulla multientnicità e sulla coesione sociale, la gente guarderebbe all’elezione di Obama come a un progresso. E poi c’è uno scontento diffuso nei confronti del presidente Bush e dei suoi due mandati alla Casa Bianca e c’è la convinzione – giustificata o no – che Obama rappresenterebbe un cambiamento più significativo rispetto agli anni di Bush.

È un pensiero che condivide?

Sì. Penso che la storia di Obama e i suoi istinti si tradurrebbero probabilmente in una politica estera e in una forma di governo più diversi rispetto al passato di quanto non sarebbero quelli che ha in mente Hillary Clinton. Penso inoltre che il senatore riuscirebbe meglio a rimettere insieme quello che rimane di un paese molto diviso.

Crede che farebbe meglio di Hillary anche con gli alleati?

Sono convinto che tutti i candidati, compreso McCain, farebbero il loro meglio per tendere la mano all’Europa e provare a riparare i danni che sono stati fatti negli ultimi anni. Per McCain sarebbe certamente più difficile perché cercherebbe di portate avanti politiche molto più vicine a quelle di Bush sull’Iraq, sull’Iran, sul confronto duro con la Russia. Ma anche lui, nel discorso di politica estera pronunciato questa settimana, ha chiarito che ritiene gli Stati Uniti siano diventati un giocatore troppo solitario e per questo anche lui cercherebbe di ristabilire i legami con i tradizionali alleati dell’America in Europa.

Quali sono le principali crisi che il prossimo presidente si troverà ad affrontare? E, parlando di Iraq, crede davvero che Hillary o Obama ritireranno tutte le truppe entro un anno? E, secondo lei, chiederanno l’aiuto dell’Europa per stabilizzare il paese?

Non credo che né Clinton né Obama ritireranno tutte le truppe entro un anno. Entrambi avvierebbero il processo di riduzione della presenza americana nel paese, ma nessuno dei due arriverebbe a un ritiro totale. E sì, penso che si aspetterebbero più aiuto non solo dall’Unione europea ma anche dalle Nazioni Unite e da altre istituzioni e partner internazionali: uno sforzo maggiore, non sul fronte militare ma su quello economico e del nation building verrà probabilmente richiesto agli alleati dalla prossima amministrazione.

Ma uno sforzo maggiore sul piano militare potrebbe essere richiesto agli alleati in Afghanistan…

Certo, se ci sarà una spinta sul fronte militare arriverà soprattutto come richiesta di un maggiore contributo in Afghanistan. Sta già succedendo con l’amministrazione Bush, aumenterà con l’arrivo del prossimo presidente.

Quindi gli europei che si aspettano una luna di miele con il prossimo inquilino della Casa Bianca dovrebbero invece prepararsi a una conversazione difficile?

Non c’è dubbio che ci sarà una luna di miele, ma probabilmente non durerà a lungo perché il prossimo presidente si aspetterà dagli europei cose che gli europei avranno difficoltà a offrirgli. E d’altro canto gli europei si aspetteranno cambiamenti radicali nelle politiche degli Stati Uniti, cambiamenti che arriveranno, ma lentamente. Ed è bene che gli europei tengano a mente che – chiunque sia il prossimo presidente – lui o lei entreranno in carica in condizioni estremamente difficili: una guerra in Iraq, una in Afghanistan, uno stato di tensione crescente con l’Iran, un’economia in netto declino, un paese profondamente diviso. Ecco perché penso che le aspettative su una sorta di rivoluzione dovrebbero essere quantomeno temperate.

Quanto al Medio Oriente, crede che ci sia un candidato tra i tre che ha più chance di lavorare con successo al processo di pace?

Non mi sembra di vedere grandi differenze tra loro su questo fronte. Ma è possibile che Obama possa rivelarsi in grado di innovare più degli altri per il semplice fatto che è nuovo rispetto al processo.

Non crede che possa avere qualche difficoltà a causa dello scetticismo che sembra circondarlo in Israele?

Scetticismo è forse una parola sbagliata, io direi cautela, incertezza, e questo in parte per il suo background e per alcuni commenti che ha fatto sulla condizione dei palestinesi. Ma mi pare che questa cautela sia basata soprattutto sul fatto che ha poca esperienza in Medio Oriente, non sulle sue dichiarazioni o sulle sue politiche.

La pace in Medio Oriente sarà in cima all’agenda del prossimo presidente?

Sì, credo che il prossimo presidente si concentrerà sul processo di pace: la situazione in Medio Oriente è pericolosa in questo momento a causa della crescita di Hamas, di Hezbollah, del conflitto settario in Iraq, dell’influenza crescente dell’Iran. Un progresso su quel fronte aiuterebbe immensamente gli Stati Uniti, ecco perché credo che ciascuno dei tre candidati spingerebbe per la pace.

Come valuta l’idea di Obama di incontrare, da presidente, senza condizioni, nemici dell’America come Ahmadinejad?

Io credo che questo tema venga un po’ esasperato. L’idea che il giorno dopo essersi insediato alla Casa Bianca Obama prenderebbe l’Air Force One e volerebbe su Teheran e poi il giorno dopo a L’Avana non è quello che ha in mente. Quello che Obama vuol sottolineare è la sua opposizione alla teoria che gli Stati Uniti non possano intavolare un dialogo con i loro avversari. E su questo sono completamente dalla sua parte perché, che sia con la Russia o con la Corea del Nord, la nostra storia ci insegna che dispute di lungo corso si risolvono con il dialogo e la diplomazia, non con la violenza.

Anche Hillary condivide questo approccio?

Sì, infatti dubito che ci sarebbero differenze sostanziali tra lei e Obama. Io credo che anche Hillary finirebbe per intraprendere un dialogo con l’Iran e con altri “nemici”. Potrebbe non arrivare a quel punto tanto velocemente o con lo stesso entusiasmo di Obama, ma in generale l’approccio di Bush è stato sonoramente bocciato da entrambi. Se guardiamo indietro agli anni di Reagan o agli anni della Guerra fredda, ci rendiamo conto che sia i repubblicani sia i democratici sono sempre stati impegnati nel dialogo con i nostri avversari. Questa è la norma, gli anni di Bush costituiscono l’eccezione.

Quindi lei non rintraccia nelle parole di Obama una visione di politica estera radicalmente nuova?

È troppo presto per dirlo, è presto per sapere quanto sarebbe diversa un’amministrazione Clinton da un’amministrazione Obama. Credo per esempio che Obama sarebbe più attento ai problemi dell’Africa vista la sua storia e le sue radici, e che sarebbe più incline a concentrarsi sui temi umanitari, sempre per il suo background e per le persone che ha intorno. Ma è decisamente prematuro immaginare i dettagli delle sue politiche.

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