Il “ritorno” dei palestinesi, un mito da cui emanciparsi
Lorenzo Trombetta 5 December 2007

Beirut, Libano

Il blu e il rosso del palco di Annapolis sul quale siedono il presidente statunitense George W. Bush, il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) entra prepotentemente nella casa di Abu Rami, nel campo profughi di Mar Elias, ai margini di Beirut, in Libano. La tv è accesa, ma ad ascoltare distratto la cantilena dello speaker arabo che traduce in simultanea i discorsi di Bush, Abbas e Olmert c’è solo il piccolo Fadi, ultimo degli otto figli di Abu Rami, impegnato a giocare in salone. Fuori casa, vicino all’uscio, Abu Rami, 63 anni, originario di San Giovanni d’Acri (Akka/Akko, sulla costa a nord di Haifa) accetta di parlare della conferenza di Annapolis: "E’ un’altra buffonata per prender tempo e per farci credere che la pace prima o poi arriverà, e con quella anche il nostro ritorno a casa", dice con tono sicuro. "Qui nel campo se ne parla da settimane – confessa – perché dietro le frasi di circostanza, Abu Mazen sta preparando un altro boccone amaro da farci ingoiare a noi profughi. Vogliono cancellare anche il nostro sacrosanto diritto al ritorno in Palestina".

Sono appena passate le sette di sera e dal vicolo spunta Jihad, 29 anni, il secondo figlio di Abu Rami. Jihad ha aperto due anni fa un internet-point nel campo di Mar Elias, "ma da me vengono soprattutto i ragazzi a sfidarsi con i giochi al computer", racconta il giovane. Entrato in casa, Jihad prende il telecomando e cambia canale: "Non voglio sentire queste chiacchiere inutili". Abu Rami lo sente da fuori la porta, entra in casa e lo rimprovera: "Saranno chiacchiere, ma ormai riguardano più te che me!". Jihad è già in cucina a curiosare tra le pentole al fuoco in attesa della cena. "A me non importa di tornare in Palestina", dice sperando di sorprendere l’interlocutore. "Ovvio – precisa – una parte di me sogna ogni notte di tornare ad Akka, ma un’altra parte è terrorizzata di sentire nel cuore una profonda tristezza, di non poter più vivere".

La diaspora

Abu Rami e Jihad rappresentano due diverse generazioni di profughi palestinesi in Libano che non hanno mai visto la loro terra madre. Come loro, almeno altri 400.000 profughi palestinesi vivono da decenni in Libano, sparsi nei dodici campi presenti nel Paese dei Cedri. Moltissimi altri loro "fratelli" si trovano in Giordania, Siria, in Europa, in Nord America e altrove. In tutto, secondo dati dell’Unrwa (l’agenzia Onu creata nel 1949), oggi sono circa quattro milioni e 300.000 i profughi palestinesi, "figli" di quegli 800.000 che nel biennio 1948-49 furono costretti ad abbandonare case e terreni, mentre vedeva la luce lo Stato d’Israele vittorioso sugli impreparati "eserciti nemici” nella prima guerra arabo-israeliana. La Giordania è attualmente il paese che ospita il maggior numero di profughi: un milione e 800.000, quasi un terzo della popolazione totale del regno hascemita (circa sei milioni), divisi in 10 campi profughi.

Segue poi la Siria, con 432.000 profughi registrati, residenti in 13 diversi agglomerati e le cui condizioni di vita sono in media migliori di quelle dei loro conterranei "ospitati" in Libano. I 400.000 palestinesi del Paese dei Cedri non godono infatti dei basilari diritti civili e fino al 2005 non avevano il diritto di esercitare una serie di professioni liberali, elencate in una lista di circa settanta mestieri (nel 2005, in seguito al ritiro delle truppe siriane dal Libano e al conseguente aumento del clima "antisiriano" nel Paese, le autorità di Beirut hanno concesso ai palestinesi di poter essere impiegati come muratori e manovali, sostituendo i braccianti siriani nel contempo fuggiti in Siria). Ma si è profughi anche sulla propria terra: nella prigione a cielo aperto che è ormai Gaza sopravvivono oggi quasi un milione (986.000) profughi stipati negli otto campi della Striscia. Circa 700.000 rimangono invece sfollati in Cisgiordania, ostaggi di un territorio frammentato che Bush, Olmert e Abbas vogliono trasformare nel futuro "Stato indipendente di Palestina".

Il mito del ritorno

Abu Rami non lo vuole ammettere, ma sottovoce confessa: "Nemmeno io credo più al ritorno. Lo so che è un’illusione ma siamo nati con questa certezza. I miei genitori mi hanno allattato con le foto di Akka, con le canzoni popolari e le filastrocche, e noi, come tutti, teniamo conservate le chiavi della nostra casa che ci aspetta. O meglio, che ci aspettava". Abu Rami nel profondo comprende anche suo figlio Jihad, che "come molti altri giovani del campo” non hanno mai veramente creduto nel ritorno. “Ma forse questi ragazzi hanno ragione – dice Abu Rami – perché guardano al futuro e non vogliono marcire in questo vicolo angusto e senza speranze". Dopo cena Jihad è già tornato al suo internet-point e non ha voluto parlare né di "ritorno" né di "Annapolis". Chiudendosi la porta dietro le spalle ha solo commentato laconico: "Voglio vivere, magari in Canada o in Europa, ma comunque lontano da qui".

E’ una logica che la dirigenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) oggi presieduta da Mahmud Abbas, ha già da tempo accettato. Il suo partito, Fath, oggi cerca di governare in Cisgiordania, mentre la Striscia è stata negli ultimi mesi trasformata da Hamas nell’Emirato islamico di Gaza. Il movimento islamico, come gli altri gruppi integralisti palestinesi, non accetta nessun compromesso con Israele o con gli Stati Uniti. Per loro, tutti i quattro milioni di profughi hanno diritto di tornare alle loro case nella "Palestina storica", quella pre-1948. L’idea dell’Anp, più pragmatica ma non per questo più facilmente realizzabile, è quella di ottenere il diritto a un "ritorno simbolico": Israele dovrebbe accettare che almeno 100.000 profughi potranno ristabilirsi in Cisgiordania. Di questo però non si è parlato ad Annapolis, anche perché prima di affrontare la questione dei profughi bisogna definire quella territoriale, dei confini, delle risorse energetiche, del controllo della sicurezza interna di questo "Stato indipendente di Palestina", che a vederlo dal vicolo ormai buio del campo di Mar Elias assomiglia sempre più all’"ennesima buffonata”, espressione usata da Abu Rami per definire la “conferenza di pace” di Annapolis.

Lorenzo Trombetta, studioso di questioni politiche mediorentali, è autore del libro “Siria. Nel nuovo Medioriente” (Editori Riuniti, Roma, 2005). Sta concludendo la preparazione della tesi di dottorato sulla Storia della Siria contemporanea all’Università “La Sapienza” di Roma e, in co-tutela, all’Università “Sorbonne Nouvelle” di Parigi. Giornalista professionista, vive e lavora a Beirut dove collabora con l’agenzia Ansa, Limes, La Stampa e numerose altre testate italiane.

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