Il vero nemico è il dogmatismo
N. U. 19 December 2007

Questo testo è il secondo intervento di Nadia Urbinati nel dialogo svoltosi tra l’autrice e il filosofo Michael Walzer. Il dialogo ha avuto origine dall’articolo di Urbinati “No al manicheismo, scelgo il dialogo come Bobbio”, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

Caro Michael,
La tua seconda risposta mi aiuta a valutare il significato del nostro dialogo e, soprattutto, di quello lanciato da «Reset». Mi sembra che nella nostra corrispondenza siano due le questioni in gioco: a) l’estensione al mondo musulmano di quello che tu hai definito il criterio della «critica interna»; b) la scelta per il dialogo, quando questo è possibile. Ovviamente il primo tema riguarda sostanzialmente gli stessi musulmani, nel senso che sono loro a dover dare inizio ai confronti e alle diaspore, alla loro «riforma» per così dire. Come tu ci insegni, nessuno può agire al posto di un altro – cosa tutto sommato molto coerente con la visione democratica della formazione della cultura perché riconosce il valore dell’autonomia e della partecipazione diretta degli attori nel costruire il loro mondo di significati e istituzioni. Questo approccio esclude, tra le altre cose, che la guerra possa costituire un mezzo per creare o impiantare la democrazia e soprattutto che quest’ultima possa essere esportata. Inoltre, riconosce un ruolo importante al mondo esterno, in quanto «gli altri» possono giocare un ruolo importante nel sostenere indirettamente i critici interni, secondo modalità suggerite dalle circostanze del momento.

Il secondo tema ci riguarda più direttamente, perché possiamo sicuramente credere nell’impossibilità, indesiderabilità o persino inutilità di un dialogo con chi manifesta una dottrina che paralizza un approccio critico o scoraggia interpretazioni «interne» non ortodosse. Quando ho tracciato uno schizzo delle due forme di multiculturalismo avevo in mente esattamente questa mentalità, che ho paragonato con lo spirito manicheo della Guerra fredda (che ancora esiste). Vorrei anche chiarire che non volevo fare un’analogia tra i comunisti di ieri e i musulmani di oggi. Sebbene entrambe queste forme di dogmatismo sono state oggetto di opposizione radicale e sono altrettanto simili a tutti i «nemici» radicali, sono in realtà distinti per carattere e identità. Una religione secolare e una religione del libro sono differenti, per quanto i sociologi possano insistere nel dire che i meccanismi sociali e mentali attinenti alla formazione, propagazione e difesa di una religione sono simili alla fede di tipo religioso. Ma se andiamo oltre la categorizzazione astratta dei sociologi, ci rendiamo conto che l’interpretazione del lavoro di Marx e di quello di dio danno risultati molto differenti, per ragioni che non riguardano direttamente questa discussione e che necessiterebbero di una trattazione a sé. In ogni caso, il significato del mio riferimento alla Guerra fredda era diverso: il mio obiettivo era di protestare contro lo schema manicheo della mentalità e della pratica culturale e politica prodotti dalla Guerra fredda.

È interessante notare come in Italia persone che sono state nemiche irriducibili di qualsiasi dialogo con i comunisti, ora fanno lo stesso nei confronti dei musulmani. In Italia, Berman non è un autore della sinistra, al contrario le sue idee sono condivise dai giornalisti e dai lettori de «Il Foglio», un quotidiano di destra che ha tradotto con successo la logica della Guerra fredda in quella dello «scontro tra civiltà». Ecco quindi la ragione del mio riferimento a Bobbio. Nella mia testa Bobbio rappresenta uno dei più interessanti anti-anti-comunisti (distinguendosi in questo da Aron) proprio perché ne ha sconfitto la logica di contrapposizione, proveniente da entrambe le barricate. La cultura e la pratica del dialogo di Bobbio non metteva in questione semplicemente il dogmatismo comunista, ma il dogmatismo in quanto tale, quindi la logica stessa della Guerra fredda. Il suo approccio socratico implicava un’idea dell’intellettuale che secondo me è ancora molto valida e attuale. La sua politica del dialogo costituiva una risposta democratica alla politica dei blocchi perché aveva come oggetto quello di rivendicare il potenziale di apprendimento del processo democratico e, di converso, le implicazioni anti – democratiche del dogmatismo.

Tu mi chiedi se la cultura del dialogo può ancora servire a qualcosa di fronte alle questioni attuali, sollevando così un’obiezione consequenzialista. Personalmente, credo nella sua efficacia, in quanto il suo ethos è innanzitutto buono per noi dal momento che è la nostra società a essere colpita dal nostro anti–dogmatismo dogmatico. Le nostre società sono multirazziali e multiconfessionali, una cultura del dialogo quindi è il metodo migliore per i molti problemi culturali e pratici che emergono ogni giorno. Le persone che a Bologna hanno raccolto le firme per fermare la costruzione di una moschea sono dogmatiche e il loro dogmatismo può avere conseguenze negative per tutti, non solo per la comunità islamica, in quanto innesta un clima di intolleranza che può coinvolgere altre differenze culturali, oltre a quella islamica. Inoltre è corretto valutare un approccio mentale secondo il suo potenziale di successo concreto? Forse la politica estera e le relazioni internazionali sono ambiti in cui la teoria richiede di essere verificata per l’efficacia e per i risultati tangibili. Ma gli intellettuali non dovrebbero preoccuparsi di questi aspetti – o meglio, dovrebbero mirare a far sì che la teoria ideale e quello non ideale si intreccino, ovvero, parafrasando Kant, possono svolgere meglio il loro lavoro critico quando non si assumono il compito dei tecnici. Se Bobbio avesse ragionato in termini di risultato, non avrebbe iniziato quel dialogo nel 1954.

Nelle tue parole, Michael, noi siamo davanti a una forma di «riposo e svago», dal momento che, come sappiamo, il Pci ha impiegato molti anni prima di ammettere pubblicamente di non avere come modello l’Urss. Ma la cultura del dialogo può produrre anche un risultato concreto. Per ribadire quello che ho detto nel mio articolo «La politica del “pensiero assediato” » – o l’assunzione che esistano culture monolitiche e quindi immodificabili – è rischiosa in quanto tende a spingere tutti i membri delle culture in questione (musulmani o occidentali che siano) nelle braccia di quelle frange estremiste che vorrebbero fare della propria cultura un blocco unitario guidato dalla la loro leadership» Lo spirito manicheo di contrapposizione avrebbe l’effetto perverso di fermare il processo di secolarizzazione politica o anche solo l’avanzamento della «critica interna » nel mondo islamico, oltre a rendere le nostre società meno libere e aperte. Di conseguenza, anche se la cultura del dialogo può non garantire nessun risultato positivo o tangibile, ma la funzione negativa o preventiva da lei giocata ha comunque un valore.

Questa è la migliore risposta che sono in grado di dare alla tua obiezione consequenzialista.
Nadia

Nadia Urbinati è professore di Teoria politica alla Columbia University di New York. Dirige insieme ad Andrew Arato la rivista Constellations. Tra le sue pubblicazioni, Representative Democracy: Principles and Genealogy (University of Chicago Press 2006). Autrice di saggi sul liberalismo, l’individualismo e Stuart Mill, ha curato e pubblicato in America, per Princeton University Press, il Socialismo liberale di Carlo Rosselli. È inoltre co-autrice di Liberal-socialisti. Il futuro di una tradizione (con M. Canto-Sperber, I libri di Reset, Marsilio, 2003) e di La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio (Con C. Ocone, Laterza, 2005).

Traduzione di Antonella Santilli

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