I liberi e i meno liberi
Margot Badran 12 October 2009

Originariamente pubblicato da The Washington Times (8 settembre 2009)

Un giorno iniziato come tutti e finito come nessun altro. La statunitense di origine iraniana Haleh Esfandiari era diretta all’aeroporto di Tehran per prendere il volo che l’avrebbe riportata a Washington, dopo una visita di una settimana all’anziana madre, quando il taxi sul quale viaggiava è stato spinto al lato della strada e tre uomini armati di coltello sono balzati all’interno dell’auto. I tre sono poi fuggiti con i suoi effetti personali, compresi i due passaporti, quello americano e quello iraniano. La vicenda iniziata all’alba del 30 dicembre 2006 e terminata agli inizi di settembre 2007, quando un aereo ha riportato via dall’Iran la signora Esfandiari, è la storia struggente di come il suo paese d’origine si sia trasformato nella sua prigione.

In “My Prison, My Home”, Haleh Esfandiari, intellettuale e docente universitaria, direttrice del Middle East Program del Woodrow Wilson International Center for Scholars di Washington, racconta la storia del suo arresto in Iran. Trattenuta in patria dall’8 maggio 2007, la Esfandiari è stata anche imprigionata nel famigerato carcere di Evin, dove è rimasta per un totale di 105 giorni, fino al momento del rilascio, avvenuto alla fine di agosto, e dell’autorizzazione a lasciare il paese. 

Le autorità iraniane l’accusavano di voler istigare una rivoluzione di velluto nel contesto di un complotto americano teso a rovesciare il regime, cercando di strapparle informazioni e l’ammissione delle sue colpe. Il racconto di Haleh Esfandiari, si compone, in effetti, di tre storie strettamente intrecciate. Le prime due sono storie interne. Una narra l’esperienza vissuta dalla Esfandiari dal momento in cui è caduta tra le grinfie delle autorità (in stato di fermo o in una condizione di semi-arresti domiciliari e, successivamente, come detenuta), la sua disciplina e la sua determinazione, le sue valutazioni e le sue riflessioni. La seconda è la storia dello Stato iraniano e del suo apparato di intelligence per ciò che la Esfandiari ne ha potuto vedere e per l’esperienza che ne ha avuto: i metodi di interrogatorio, le procedure della detenzione e la burocrazia carceraria, i segni di cedimento e le crepe al loro interno, la gentilezza di alcune donne addette alla vigilanza. 

La terza storia, di cui, all’epoca la studiosa era praticamente all’oscuro, è quella, tutta esterna, delle iniziative intraprese per favorire il suo rientro negli Stati Uniti. Dopo la sua incarcerazione, quelle iniziative che in origine erano state sotto tono si sono trasformate in una campagna pubblica di livello globale. La detenzione della Esfandiari era talmente rigida che, di quella storia esterna e parallela, la studiosa non era riuscita a cogliere che qualche accenno grazie ai commenti sfuggiti casualmente ai suoi carcerieri. La storia di Haleh Esfandiari è un agghiacciante resoconto del profondo intreccio tra ciò che è personale e ciò che è politico. Involontariamente, era finita nella rete di una politica più vasta: quella delle relazioni tese e ambigue tra l’Iran, il suo paese d’origine, e gli Stati Uniti, la sua nuova patria. 

Nel suo caso non vi è stata presunzione di innocenza fino a prova contraria: Esfandiari è stata bollata come colpevole ed ha subito pressioni affinché creasse un quadro di colpevolezza ad uso e consumo dello Stato. Haleh Esfandiari ha capito il trucco. Bisognava rimanere concentrati e stare all’erta, malgrado la posizione di svantaggio. La strana vicenda degli interrogatori ad opera dei servizi segreti, alimentata dalle stravaganti teorie di cospirazione, come in una storia a fumetti, per ironia della sorte ha riversato l’onere maggiore sugli inquisitori, che avevano bisogno di estrarre una prova incriminante dal loro stesso confuso cocktail, più che sull’accusata, la quale operava in un mondo di realtà più banali.

Gli inquisitori potevano disporre di un potere totale, liberi di terrorizzare attraverso le intimidazioni e di sfinire mediante la ripetizione ossessiva delle domande e la noiosa richiesta di lunghe risposte scritte dense di notizie dettagliate sul Wilson Center: tutte reperibili in rete. Come altri istituti culturali, il Wilson Center era considerato dalle autorità iraniane il cuore della cospirazione americana per rovesciare il regime iraniano. Pur cercando disperatamente di strappare prove di colpevolezza e di smascherare le macchinazioni americane, non avevano ottenuto nulla, riuscendo solo a coprirsi di ridicolo.

Risucchiata nel surreale mondo carcerario, sebbene le cose avessero preso una piega assurda già molto tempo prima della sua formale detenzione, Esfandiari doveva mantenere il contatto con la realtà, concentrarsi sull’immediato. Riuscì a farlo usando vari espedienti: mantenendo una disciplina nella sua routine quotidiana, continuando scrupolosamente a fare esercizio fisico e , più dolorosamente, allontanando il pensiero dei suoi familiari – suo marito, la figlia e la nipotina- per riuscire a non perdere il controllo.

Nel frattempo, le sue giornate erano fatte di lunghi tragitti –coperta da un chador e bendata – attraverso stretti corridoi e anguste scale, lunghe ore (anche otto al giorno) di interrogatorio con il viso rivolto al muro, costretta a lavare continuamente i pochi indumenti, dormendo su un letto ricavato da quattro coperte ripiegate (aveva rifiutato una branda, sia per timore dei parassiti che a causa dello spazio eccessivo che avrebbe occupato nella minuscola cella), esposta alla luce di una lampada al neon che non veniva mai spenta. Faceva la sua solitaria passeggiata quotidiana di un’ora sulla terrazza della prigione, la più piccola, quella riservata alle donne, con qualunque tempo, pioggia o sole, e dove un giorno vide una farfalla che, diversamente da lei, poté volare via.

Leggere “My Prison My Home” fa comprendere come, in questo mondo, siamo tutti interdipendenti, i liberi e i meno liberi. Haleh Esfandiari, in prigione, ha fatto la sua parte tracciando la linea tra il perseverare e il soccombere. In Iran, prima del suo imprigionamento, gli amici le avevano offerto consigli e incoraggiamento, fino a quando farlo non è diventato troppo pericoloso per la loro incolumità. Quando hanno iniziato a tirarsi indietro, la Esfandiari ha percepito il sinistro precipitare degli eventi che hanno portato alla sua detenzione in carcere. In prigione, durante le brevi telefonate, sotto controllo, alla madre che le venivano concesse, Esfandiari è riuscita a trasmettere dei messaggi destinati al marito, Shaul Bakhash, docente alla George Mason University, che ha lavorato giorno e notte per il suo rilascio, assieme a Lee Hamilton, direttore del Woodrow Wilson Center, allo staff e a molti altri. In tutto il mondo, una vasta rete di professionisti, funzionari di governo, docenti universitari, attivisti, istituzioni e organizzazioni ha lavorato per liberarla. Lo stesso regime iraniano era tutt’altro che indifferente a questa attenzione indesiderata e, al suo interno, falchi e colombe litigavano su quale dovesse essere il destino di Haleh Esfandiari.

Alla fine dell’ agosto 2007, alla studiosa fu improvvisamente comunicato che sarebbe stata rilasciata. La sua prima reazione fu di incredulità. Quando si convinse che “non si trattava di un inganno né di uno scherzo crudele”, racconta, “l’angusta, soffocante stanza in cui si svolgevano gli interrogatori mi sembrò improvvisamente più grande; anziché opprimermi, le pareti sembrarono allargarsi, il soffitto sollevarsi. Finalmente avevo spazio per respirare”. Avvicinandoci alla fine del suo avvincente racconto, anche noi tiriamo il fiato. 

Il tormentoso periodo che la Esfandiari aveva trascorso in carcere, con i suoi esiti incerti, era finito. Gli interrogatori, le umiliazioni e la noia della vita carceraria, la minaccia di un processo-farsa, per lei, erano finiti. Una delle ultime cose che Haleh Esfandiari ha fatto prima di lasciare il carcere di Evin è stato raccogliere una pila di libri da restituire a un altro detenuto, il sociologo statunitense di origine iraniana Kian Tajbakhsh. Era il segnale per comunicargli che stava per uscire. Qualche tempo dopo, anche lui è stato rilasciato e ha potuto fare ritorno a una vita tranquilla a Tehran. Ma le incriminazioni e gli imprigionamenti sono continuati. Durante la massiccia sollevazione popolare che ha scosso il paese per protestare contro la fraudolenta elezione presidenziale del giugno scorso, centinaia di persone sono state imprigionate e molte altre sono state sottoposte a processi farsa. Uno di loro, Kian Tajbakhsh, è stato nuovamente imprigionato e processato . Le accurate memorie di Haleh Esfandiari, la storia di una donna, aprono una finestra su un mondo terribile e spaventoso e sulla prova del fuoco che altri esseri umani sono obbligati a sopportare.

Margot Badran è senior scholar presso il Woodrow Wilson Center e senior fellow presso il Prince Alwaleed bin Talal Center for Muslim Christian Understanding della Georgetown University. È autrice di “Feminism in Islam: Secular and Religious Convergences”.

(Traduzione di Antonella Cesarini)

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