Le prime vittime dell’islamofobia
Monica Massari 17 April 2009

Oggi, in Europa, le donne musulmane risultano al centro di pratiche discorsive dove la questione dei simboli religiosi è divenuta il nodo politico emblematico delle tensioni fra islam e occidente, fra musulmani e culture politiche europee. Si tratta di tensioni di vecchia data, che da sempre hanno interessato le relazioni tra questi due universi. Ma la paura alimentata in passato dai lunghi confronti e conflitti che li hanno visti protagonisti nella storia, trovano oggi – dopo l’11 settembre e gli attentati terroristici che hanno colpito Londra e Madrid – un’eco assai forte nel sentire sociale diffuso delle nostre società. Qui, infatti, la ripresa della coloritura religiosa del discorso stigmatizzante – dopo la storia drammatica dell’antisemitismo nel corso del Novecento – ha condotto a una ri-definizione della religione nei termini di «marchio negativo», di «stigma».

Dopo l’11 settembre le comunità musulmane presenti nei vari Paesi europei – spesso composte da individui nati e vissuti in quei medesimi Paesi e solo in parte da migranti – sono divenute, come emerge dalla stampa internazionale e dalle denunce di organismi di tutela dei diritti umani, oggetto di manifestazioni di protesta, di disprezzo, di pratiche di controllo sociale e istituzionale spesso immotivate. Questo atteggiamento di avversione e di paura patologica nei confronti dell’islam e dei musulmani – a cui viene attribuito il nome di islamofobia – si esprime in forme differenziate che spaziano da manifestazioni più propriamente ideologiche, che hanno dunque a che fare con pratiche discorsive orientate a inferiorizzare l’altro o a ingabbiarlo entro una fissità identitaria che non lascia spazio ad altre forme di soggettività, fino a episodi di aggressione, di violenza o, comunque, di discriminazione che tendono a escluderlo o a limitarne fortemente la partecipazione alla vita politica, sociale, economica e culturale.

La frontiera del desiderio tatuata sul corpo

La differenza culturale e religiosa è divenuta nuovamente simbolo, mezzo secolo dopo la Shoa, di un’alterità radicale e inassimilabile di cui le donne, loro malgrado, costituiscono uno dei bersagli privilegiati. Perché proprio le donne musulmane, che la sociologa marocchina Fatema Mernissi descriveva come coloro che portano la frontiera del desiderio tatuata sul corpo, rivelano, con la loro visibilità fisica e simbolica, con la loro corporeità, un’eccedenza che si vorrebbe negare, cancellare. La questione della visibilità dell’appartenenza religiosa costituisce, infatti, un elemento cruciale. I contrassegni visivi dell’essere musulmano/a – in particolare l’uso dell’hijab e degli abiti tradizionali – sono spesso all’origine della costruzione di dispositivi di nemicizzazione dell’altro/a da parte dalla società circostante.

Gli stereotipi e i pregiudizi che concorrono ad alimentare forme più o meno esplicite di razzismo nei riguardi dei musulmani, pur incentrandosi sugli aspetti culturali della presunta diversità, non disdegnano di fare ricorso, tuttora, anche alle caratteristiche esteriori, all’apparenza fisica, a sostegno del fatto che “natura” e “cultura” vengono utilizzate congiuntamente per alimentare un’idea di superiorità. Le donne, in particolare, costituiscono uno dei principali target di aggressioni verbali e psicologiche sia perché la loro apparenza contribuisce immediatamente a dotarle di una connotazione ben precisa – come “musulmane”, appunto – sia perché, frequentando molto più degli uomini luoghi pubblici (come i mercati, i negozi, le scuole, ecc.) si trovano a interagire maggiormente con gli altri. A questo proposito è interessante notare come non solo le donne musulmane che indossano l’hijab possano diventare vittime di aggressioni e insulti, ma anche coloro che non lo indossano, ovviamente da parte di musulmani tradizionalisti che si oppongono fortemente a stili di vita considerati troppo “occidentali”. Casi di questo tipo, nel corso degli ultimi anni, sono giunti sulle cronache di diversi Paesi europei, facendoci notare come le donne, ancora una volta, costituiscano assai spesso le vittime sacrificali designate di uomini che tendono a riaffermare il proprio potere servendosi di forme estreme di controllo sociale sul corpo femminile.

Nella rassegna di episodi di questo tipo raccolti da osservatori che si occupano di denunciare varie forme di razzismo e di discriminazione che avvengono nei vari Paesi europei troviamo casi di donne musulmane, ad esempio in Austria, insultate ripetutamente in strada, o il caso di donne con il foulard buttate fuori da taxi, autobus, vagoni della metropolitana per la loro presunta responsabilità negli attentati terroristici di matrice fondamentalista, o ragazze musulmane malmenate, insultate, sputate e spogliate dell’hijab mentre camminano in piccole e grandi città europee. Questi fatti, ritenuti non episodici, ma diffusi in maniera più o meno significativa a seconda dei contesti e dei particolari momenti storici un po’ in tutti i Paesi europei, hanno spesso indotto le organizzazioni musulmane a consigliare ai propri membri di optare per condotte di basso profilo e, nel caso delle donne, di evitare di indossare il foulard in luoghi pubblici, a conferma dell’impatto che questi simboli di identificazione visiva potrebbero innescare.

L’assimilazione e la somiglianza nell’aspetto esteriore, infatti, sembrano costituire fattori assai rilevanti nello stabilire fino a quale punto altre culture possono essere accettate o tollerate in un determinato ambiente sociale. Nel caso dell’hijab, poi, emerge chiaramente come stereotipi associati al clima di sospetto diffusosi dopo l’11 settembre e gli attentati di Londra e Madrid si siano combinati con pregiudizi radicati legati alle condizioni di subordinazione, sottomissione e assenza di emancipazione con cui si è abituati a pensare le donne musulmane. Senza alcuna attenzione alle modalità attraverso cui queste donne negoziano continuamente le proprie appartenenze multiple e ricostruiscono il legame sociale fra soggettività e spazio pubblico in un contesto qual è quello europeo.

La questione della visibilità dell’Islam

In molti casi, alla base di queste aggressioni, sembra vi sia la volontà di negare visibilità all’islam che, in modi e forme eterogenee, inizia a “marcare”, con la propria presenza, un territorio fisico e simbolico – l’Europa appunto – tuttora considerato indivisibile e inalienabile. Ma vi è di più. Questi sentimenti di odio e di disprezzo che assolutizzano la religione e la cultura come elementi di differenza irrimediabile danno luogo a meccanismi di razzizzazione e a relazioni fra le persone del tutto simili a quelli prodotti dal razzismo nelle sue varie manifestazioni. L’islamofobia è, infatti, una forma di razzismo (di “nuovo razzismo”) – e non di semplice intolleranza religiosa – dal momento che in essa ritroviamo, sotto sembianze parzialmente diverse, i medesimi meccanismi psicologici e le stesse prassi sociali che conducono ad una discriminazione di particolari gruppi di persone a causa delle loro presunte caratteristiche immutabili.

Oltre che un’ideologia, e cioè un insieme di idee, opinioni, stereotipi, pregiudizi, l’islamofobia si concretizza come vero e proprio rapporto sociale che conduce alla discriminazione, all’odio, al disprezzo e all’esclusione. Essa inoltre si alimenta, e a sua volta produce, un meccanismo tautologico secondo cui la semplice enunciazione dell’allarme e della paura nei confronti dei musulmani serve a dimostrare la realtà che l’islamofobia denuncia: e cioè che dietro a ogni musulmano possa, in qualche modo, celarsi un pericolo immanente. Il ruolo svolto da alcuni attori politici e sociali, unitamente alla funzione di cassa di risonanza e di ripetitore del senso comune più degradato offerta dai mezzi di comunicazione, contribuiscono enormemente a far sì che definizioni particolarmente allarmistiche della realtà acquisiscano poi una dimensione di crescente oggettività. Ciò ci sembra che sia confermato direttamente anche dalla generale tendenza alla normalizzazione, istituzionalizzazione se non, addirittura, banalizzazione di certi discorsi e pratiche che costituisce, a nostro avviso, il risultato più pericoloso del discorso anti-musulmano e che fa sì che si affermi un meccanismo perverso di costruzione sociale della realtà.

Monica Massari, sociologa, è autrice del libro “Islamofobia: la paura e l’islam”.

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