L’«evoluzione» del Corano
Massimo Campanini 6 August 2010

Questo testo è tratto dal libro di Massimo Campanini Il pensiero islamico contemporaneo (pp. 216, € 11,50, Il Mulino, 2009)

Il pensatore egiziano Nasr Hamid Abu Zayd (n. 1943) è un altro filosofo che ha cercato di applicare una chiave di lettura storicistica al Corano. Anzi, ha cercato propriamente di applicare al Corano un’ermeneutica storica, prendendo le mosse da Gadamer e Ricoeur ma proseguendo su una propria strada originale. Il tema dell’interpretazione è stato al centro dei suoi studi, fin dalla tesi di dottorato sull’esegesi coranica del mistico andaluso medievale Ibn ‘Arabi. Proprio nella prospettiva dell’indagine ermeneutica, i suoi lavori principali, almeno nella prima fase, si sono incentrati sul «concetto di testo» nell’Islam e sul presupposto che il Corano è eminentemente un testo. Il termine «testo», in arabo nass, fa soprattutto riferimento alla composizione, diversamente dal latino textus dove viene più evidenziato l’aspetto della struttura e della costruzione. Nel corso del tempo, tuttavia, il concetto di nass è stato fossilizzato, così che alcuni pensatori musulmani radicali e tradizionalisti come Sayyid Qutb hanno affermato che laddove vi è un nass è proibita l’interpretazione. Essendo il Corano un nass, l’interpretazione ne risulterebbe vietata. Abu Zayd ha inteso invece restituire al Corano tutte le sue potenzialità di contenuto, non solo normative, ma etiche, sociali, teologiche, narrative, artistiche, eccetera.

La testualità del Corano implica in primo luogo la sua linguisticità e la sua storicità. I due aspetti sono strettamente collegati, visto che «il testo non può essere che un prodotto culturale e storico» poiché deve essere messo in esplicita relazione con una determinata cultura e una determinata realtà sociale, politica, antropologica. Ciò porta alla conclusione che «i testi religiosi non sono, in ultima analisi, che dei testi linguistici, nel senso che appartengono a una struttura culturale determinata, che sono prodotti conformemente alle leggi che reggono la cultura che li ha visti nascere e la cui lingua è, giustamente, il principale sistema semiotico». Ora, i segni linguistici trasformano il contenuto in simboli, e «l’analisi linguistica è il solo mezzo offerto agli uomini per comprendere il messaggio coranico e, partendo da lì, l’Islam stesso». L’elemento della linguisticità, pur importante, è tuttavia solo un punto di partenza; la dimensione storica del Corano ha infatti una precisa portata filosofica.

È altamente interessante notare come per Abu Zayd la filosofia mutazilita del Corano – il Corano non è parola divina eterna, ma è «creato» – sia la più adatta a un orientamento ermeneutico; e Abu Zayd prende infatti esplicita posizione a favore di questa dottrina mutazilita:

Occorre distinguere tra eternità della potenza e temporalità degli atti. La potenza divina è eterna in quanto costituisce un attributo immanente all’essere intemporale e increato. All’opposto gli atti risultano iscritti nella Storia, poiché la manifestazione originaria della potenza divina è la creazione del mondo, che costituisce necessariamente un fenomeno temporale. […] Se la Parola di Dio, nella sua realizzazione, costituisce un atto, come potrà il Corano che non è altro che un accidente della manifestazione di questa parola essere increato ed eterno? […] Che cosa ne sarà allora della Tavola ben custodita che, secondo alcuni, contiene il testo coranico? Sarà essa eterna o creata? Per noi sarà necessariamente creata, esattamente come il «Trono» e il «Seggio», perché in caso contrario si dovrebbe avere a che fare con svariate entità eterne. Dunque, se la Tavola ben custodita è creata, come può il testo che vi è scritto essere eterno?

Una volta iniziata la rivelazione, il Corano è entrato nella storia, si è secolarizzato. Si tratta di un processo che coinvolge tutta la realtà cosmica. Nell’atto stesso con cui Dio ha creato l’universo è implicito che quanto è venuto dopo sia storico.

Il primo atto divino è la creazione del mondo, il suo emergere dal «nulla delle tenebre alla luce dell’esistenza». Con questo atto si inaugura la Storia, poiché è soltanto a partire da questo momento che è possibile parlare di «tempo». La creazione del mondo è dunque di per se stessa un evento storico. […] La storicità è dunque un tratto immanente alla creazione stessa del mondo. Che il mondo sia stato creato ex nihilo o a partire da una materia prima, poco importa. Il concetto di storicità indica qui il venire alla luce all’interno della dimensione temporale anche se questo tempo era ancora, per così dire, al suo inizio, alla propria soglia. E l’istante della rottura, del confine che separa l’esistenza assoluta, trascendente – l’esistenza divina dall’esistenza temporale.

La secolarizzazione del Corano che deriva dalla sua storicità non ne implica in alcun modo un irrigidimento. Bisogna infatti distinguere tra il senso e il significato:

Si può dire che il senso è ciò che significano i testi al momento della loro redazione. Tuttavia, limitarsi a questo tipo di significato significa imbalsamare il testo in una certa epoca, il che finisce per trasformarlo in un monumento del passato che può valere, tutt’al più, come pura testimonianza storica. Ma dal momento che i testi religiosi possiedono, nella cultura di cui ci stiamo occupando, uno statuto epistemologico specifico, il loro senso non cessa di evolversi, tanto che accade spesso che il significato dei testi sia un elemento fondamentale in gioco nella lotta tra le diverse forze sociali all’interno della stessa comunità religiosa. […] Il senso è dotato di una certa stabilità, mentre il significato è fluido, variabile a seconda delle prospettive di lettura dei suoi parametri, anche se risulta in genere tarato sul senso.

Il senso può essere stabile, ma il significato che gli giustappongono gli uomini può variare e quindi liberare il testo da molti vincoli, diremmo così, «testuali».

Sono piuttosto coloro che leggono il testo solo come un sistema di norme eterne, fuori dal tempo e dallo spazio – come un senso privo di significato –, che hanno «mummificato» il Corano smarrendone le qualità di autentica parola di Dio che risponde alle più intime necessità dell’essere umano. L’entrata del Corano nella storia ha, anzi, significato che Dio e l’uomo si sono messi in connessione e comunicazione diretta.

Contrariamente al pensiero religioso che focalizza la propria attenzione sull’enunciatore del testo – Dio nella fattispecie – e ne fa il punto di partenza delle proprie riflessioni, noi situiamo invece il ricevente – ovvero l’uomo nelle sue condizioni storico-sociali – al centro del nostro interesse e ne facciamo, per così dire, il punto di partenza e il punto di arrivo. […] Il Corano è un testo religioso immutabile nel suo enunciato. A contatto con la ragione, però, perde questo suo carattere di immutabilità e diviene un concetto dinamico aperto a molteplici significazioni. L’immutabilità è la caratteristica dell’assoluto e del sacro, così come all’umano appartiene il regno del relativo e del mutevole. Ma il Corano, testo sacro nel suo enunciato, diviene comprensibile proprio in virtù di ciò che è relativo e mutevole – vale a dire l’uomo – trasformandosi così in un testo umano o, se si preferisce, umanizzato.

La riduzione del testo al livello della ragione umana ne libera le potenzialità di significato e, evidentemente, di interpretazione: «Il Corano è un testo religioso definitivamente fissato dal punto di vista dell’espressione letterale, ma una volta che è stato assoggettato all’umana ragione, diviene un “Concetto” che perde la sua fissità mentre i suoi significati proliferano». Condurre un’indagine ermeneutica non significa limitarsi all’analisi del testo, ma, esattamente come preconizzato da Gadamer, innescare il circolo ermeneutico. Il momento cruciale del circolo ermeneutico consiste nel rapporto che si instaura tra l’interpretante e l’interpretato: «L’esegesi si fonda sul movimento della mente dell’interpretante in direzione del testo». Da una parte, è necessario considerare il testo nella sua oggettività; dall’altra, bisogna andare oltre per cercare il fine e lo scopo del testo che sono stabiliti dal suo autore, nella fattispecie Dio. Abu Zayd è consapevole del fatto che l’oggettività del testo si relaziona al contesto. Come è stato detto,

riconoscere una relazione dialettica tra il testo e la realtà implica prendere in considerazione due elementi importanti. Da una parte, il contesto modella il testo. La cultura e il linguaggio che formano il contesto costituiscono il soggetto, e il testo è l’oggetto. Ciò è verificabile attraverso le circostanze della rivelazione che forniscono al lettore il contesto sociale del testo. D’altra parte, seconda tappa, secondo aspetto: si inverte il rapporto tra soggetto e oggetto. il testo diviene soggetto, mentre il linguaggio e la cultura diventano oggetto. In questo momento, è il testo che modella il contesto. Con questa seconda tappa il Corano diviene produttore di cultura.

Si tratta di una forma peculiare di circolarità ermeneutica; diventando produttore di cultura, il Corano ottempera alle intenzioni di Dio che lo voleva messaggio propriamente rivolto agli uomini. Inoltre, l’indagine ermeneutica sul testo è culturale e non assoluta. La radice originaria è il testo nella sua oggettività, ma il testo possiede anche una teleologia e dunque è dinamico, di una dinamicità come abbiamo visto legata alla realtà umana. «La parola ta’wil [esegesi, non letterale ma allegorica e metaforica], come intende il ritorno alla radice originaria, intende pure il conseguimento del fine e dello scopo». Siffatta dinamicità serve a non irrigidire il testo in schemi concettuali e ideologici predeterminati, a sottolinearne il carattere di composizione e non di struttura, e a consentirne una continua interpretazione. Non siamo lontani dalla posizione di Paul Ricoeur quando affermava, nella sua indagine ad un tempo fenomenologica ed ermeneutica, che infiniti sono i possibili significati del testo.

Il fatto che i testi religiosi siano testi linguistici come gli altri, sottoponibili all’ermeneutica, e soprattutto che siano testi collocabili in una dimensione storica potrebbe sollevare il problema se essi conservino (e come) il loro valore di sacralità. Il Corano è parola di Dio, oltretutto per i musulmani parola diretta ed eterna; come possono queste caratteristiche, che ne esaltano la sacertà oggettiva, contemperarsi con la storicità che implica evoluzione, variabilità, flessibilità dei concetti e delle prescrizioni? Per risolvere questo delicato nodo che potrebbe sollevare (e di fatto ha sollevato) le critiche dei musulmani più tradizionalisti, è necessario operare una attenta distinzione tra i significati letterale, linguistico, simbolico (o allegorico) del testo. Abu Zayd tiene particolarmente a sottolineare il valore simbolico del Corano. Nonostante questa peculiare valorizzazione simbolica, il Corano conserva o addirittura esalta la sua capacità di parlare in maniera diretta all’interpretante su piani ad un tempo teoretici e pratici come quello teologico, morale o addirittura politico. Nella prospettiva di Abu Zayd, il testo è vivo se posto in contatto con l’attività degli uomini: «La realtà è la base che non si può occultare. E dalla realtà che è uscito il testo, ed è da una lingua e da una cultura date che provengono i suoi concetti. E attraverso il suo contatto con l’attività degli uomini che si rinnova il senso del testo».

 

Questa teoria ha costruito la fama di Abu Zayd e ne ha fatto uno degli intellettuali musulmani più noti in tutto il mondo. Essa è stata anche la causa di violente proteste da parte degli ambienti egiziani più tradizionalisti: accusato di apostasia, il filosofo ha dovuto emigrare in Olanda dove ha insegnato e insegna nelle Università di Leida e Utrecht. E necessario però dire che, negli ultimi anni, Abu Zayd sta pian piano riorientando il suo pensiero e la sua interpretazione. Non ha ancora pubblicato sistematicamente in questo senso ed elaborato un libro che contenga tutta la sua nuova analisi, ma posso tuttavia parteciparne gli aspetti essenziali.

Il punto di partenza è un vero bouleversement: il Corano non è più considerato un testo (nass), ma bensì un discorso (discourse). La prospettiva è di fatto completamente rovesciata. Il Corano come testo deve avere una struttura (tartib) determinata, una struttura che è consegnata, in certo modo in maniera invariabile, alla sua forma «fisica», al fatto di contenere centoquattordici capitoli collocati in un preciso ordine, un numero altrettanto preciso di versetti meccani o medinesi, frasi e parole che non possono cambiare di luogo o di senso, eccetera. Il Corano cosiffatto è quello che i musulmani chiamano mushaf, ovvero il «libro» in senso proprio, manoscritto o stampato su pagine a loro volta rilegate con una copertina. Il mushaf è diverso dal contenuto dogmatico, storico, spirituale, che invece rappresenta in senso proprio il «Corano». Il fatto di confondere il mushaf col «Corano», l’aspetto esteriore e letterale con l’aspetto vivente del contenuto, ha reso il Corano un corpo chiuso e silente, imbalsamato nella sua oggettività. Qui Abu Zayd sembra rifiutare esplicitamente l’assunto sostenuto nella prima fase della sua riflessione per cui la parola di Dio è, da un certo punto di vista, «immutabile» perché codificata nel «testo». Ciò non significa che considerare il Libro sacro come un testo abbia solo aspetti negativi. Tuttavia, «trattare del Corano solo come testo amplia le possibilità di interpretazione e reinterpretazione, ma permette anche manipolazioni ideologiche non solo del significato ma anche della struttura, seguendo il modello delle interpretazioni polemiche dei teologi».

Il Corano in quanto testo ha ovviamente un autore, Dio, che lo ha composto perseguendo dei fini specifici e peculiari (maqasid). Essendo questi fini predeterminati dalla volontà divina, non è possibile in nessun modo metterne in discussione la vettorialità e neppure il senso. Il concetto del Corano come testo rende impossibile ogni dialettica; anzi, la lettura del Corano diviene una lettura obbligata, quasi «metafisica» e il testo si erge come un dogma. È questa la ragione per cui la teologia islamica, mutaziliti compresi, ha considerato il senso del Corano fissato nel mushaf. Si prefigura un rapporto verticale tra l’uomo e Dio nella rivelazione, mentre Abu Zayd è ora patrocinatore di un rapporto orizzontale che appunto serva a mettere gli interlocutori su un piano di comunicazione dialogante e non impositiva. Il Corano serve comunque, come si è visto prima, a mettere in contatto Dio e l’uomo, ma i due interlocutori occupano una posizione «spaziale» diversa e, in fondo, più favorevole all’uomo.

Come si vede, alcuni presupposti basilari del precedente ragionamento di Abu Zayd sono pregiudicati o addirittura respinti. Contro questa ipotesi, ora il filosofo egiziano avanza la proposta di considerare il Corano come un discorso. Se è tale, il Corano ha una struttura aperta in cui è possibile scoprire fili di ragionamento paralleli. Analogamente, il Corano non ha più un unico o anche più di un unico fine e senso determinato, monodirezionale, come evidentemente accadeva nel caso del concetto di testo. Il Corano presenta diverse opzioni a seconda delle diverse situazioni nelle quali fu rivelato. Ovviamente, in tal senso conserva il suo carattere storico. Per esempio, è possibile trovare nel Corano incitamenti alla guerra ed incitamenti alla pace. Ciò, nella prospettiva di Abu Zayd, non significa che il Corano sia un testo totalmente pacifico o totalmente bellicoso, ma che i diversi versetti che accennano alla pace e alla guerra sono stati rivelati in risposta a precise circostanze storiche dell’esperienza profetica di Muhammad e dell’affermazione dell’Islam in quanto religione.

Le conseguenze di questa premessa sono di grande importanza ed Abu Zayd è pienamente impegnato a svilupparle nelle sue lezioni e nelle sue pubblicazioni. In primo luogo, il Corano come discorso è essenzialmente dialogo e dibattito: non veicola un’unica ideologia, immutabile, dalla portata metafisica, ma incita al confronto, alla dialettica, all’intersecarsi delle opinioni. La flessibilità del Corano che precedentemente sembrava garantita solo dalle interpretazioni, dall’attività ermeneutica, sembra ora garantita anche dal fatto di mettere a disposizione del suo lettore (e del credente) delle riflessioni etiche e morali, dei suggerimenti teologici, delle prescrizioni comportamentali che possono rispondere via via e in modo diverso alle necessità che si presentano. Il filosofo egiziano ha insistito particolarmente (in primo luogo con me) sul carattere argomentativo del Corano.

I vantaggi sono innumerevoli. Innanzitutto, viene svuotata la dottrina dell’abrogazione con le sue pericolose conseguenze. Una curiosa dottrina delle scienze coraniche afferma che taluni versetti del Libro sacro ne abrogano altri (per esplicito volere di Dio). Così i musulmani radicali o fondamentalisti hanno sostenuto che i versetti «della spada» abrogano i versetti più pacifici e possibilisti, legittimando in questo modo la loro lotta armata. Se il Corano è un discorso, questo non è più possibile, poiché ogni affermazione del Corano deve venire contestualizzata. È eventualmente il suo messaggio morale, sono le sue idee religiose ad essere universali. Allo stesso modo, ci si muove nella direzione di risolvere un’accusa frequentemente portata al Corano: cioè quella di contenere storie profetiche contraddittorie con quelle della Bibbia ebraica o dei Vangeli cristiani. I vari racconti dei profeti, da Abramo a Mosè a Gesù, non pretendono in alcun modo di raccontare l’effettiva storia di quei grandi personaggi, ma sono accolti nel Corano appunto come «discorsi», come narrazioni letterarie che hanno un profondo senso morale o escatologico o parenetico.

Un altro caso analogo è quello dell’atteggiamento verso – poniamo – i cristiani o gli ebrei. Il Corano non condanna né assolve univocamente: si confronta con i cristiani e con gli ebrei sul piano nella necessità e della contingenza storica. «Il discorso coranico verso la gente del Libro, cioè gli ebrei e i cristiani, è per eccellenza un discorso di negoziazione», dice Abu Zayd. Ciò non vale per tutti. Per esempio, verso i pagani e i politeisti, il Corano è inequivoco.

La posizione di non negoziazione con i politeisti ha implicato un modo esclusivo di discorso: l’unica possibile via di comunicazione è la disputa, il dibattito e il rifiuto. il discorso con i credenti invece varia a seconda del modo con cui essi si comportano: se essi hanno successo vengono lodati; quando sbagliano, sono biasimati e condannati.

Varrà forse la pena di insistere sul ragionamento svolto riguardo agli ebrei, alla luce delle profonde ostilità storiche che, negli ultimi tempi dopo secoli di pacifica convivenza, hanno opposto la comunità musulmana alla comunità ebraica. Il Corano, pur riconoscendo che gli ebrei sono stati ricettori della rivelazione e sono stati eletti popolo di Dio, afferma in molti luoghi che essi hanno tradito la fiducia che Dio ha posto in loro, per cui sono stati abbandonati e destinati alla perdizione. Il Corano afferma in molti luoghi che i musulmani debbono considerare gli ebrei tra i loro più accaniti avversari. Orbene, secondo Abu Zayd, questa condanna aveva un senso ed era giustificata all’epoca del Profeta Muhammad contro il quale gli ebrei erano ricorsi prima al dileggio e poi al tradimento. Ma non può essere considerata valida in ogni tempo e in ogni luogo; deve essere contestualizzata e il ritenere il Corano non un testo, ma un discorso aiuta a questo fine:

Non essere in grado di apprezzare la struttura discorsiva [del Corano] è analogo a ritenere che il [suo] discorso possa essere indirizzato a tutti gli ebrei fino ad oggi. Non è soltanto una questione di contestualizzazione, che è comunque pivotale nell’analisi discorsiva; si tratta soprattutto di ciò che il discorso ci dice riguardo al contesto e al come. Ora, il problema sta nel capire che cosa è storico e che cosa è universale, un problema che tiene occupati tutti i moderni studiosi musulmani liberali del Corano. Se si rimane confinati al Corano solo in quanto testo, i conservatori alla fine vinceranno. Mentre i liberali, per esempio, enfatizzano l’«essere insieme» (togetherness) [dei musulmani e degli ebrei, per esempio nei primi anni di Medina] come universale cancellando l’ostilità che rimane contestualizzata a un passato negativo, i conservatori applicheranno il principio della «abrogazione» per storicizzare «l’essere insieme» come aspetto abrogato e universalizzare «l’ostilità» come l’aspetto abrogante. Nella attuale situazione dell’irrisolto trauma israelo-palestinese, quale ermeneutica o significato sono validi? Il conservatore è sicuro si tratti del ghetto, della separazione, dell’isolamento, analogamente al muro del signor Sharon.

I musulmani conservatori, fermandosi alla lettera del Corano come testo e applicando il principio dell’abrogazione, riterranno che i versetti ostili agli ebrei costituiscono una condanna definitiva da applicare in ogni tempo e in ogni luogo. I musulmani liberali, invece, considerando il Corano come dialogo, sanno che la condanna in esso contenuta contro gli ebrei è contestualizzata al loro comportamento ostile al Profeta, mentre è possibile valorizzare gli altri versetti che invece incitano al dialogo con la gente del Libro. Anche in questo caso, come si vede, Abu Zayd riserva un posto importante all’ermeneutica. Questa scienza infatti può aiutare a studiare come un discorso, nella fattispecie il discorso coranico, sappia ricostruire e integrare nel suo tessuto tradizioni e vicende di diversa provenienza, ammonizioni, lodi e condanne che, peraltro, sono esse stesse altrettanti discorsi.

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