Serbia, dalla riconciliazione al ripiegamento nazionalista?
Enza Roberta Petrillo 13 June 2012

Dimentichiamoci, quindi, il contegno misurato di quest’ultimo, il tono un po’ ingessato delle sue dichiarazioni internazionali, l’europeismo convinto e quell’attitudine conciliatoria bollata dai detrattori come manierata. A solo un mese dalla vittoria Nikolić ha chiarito quale sarà la sua linea: “Giuro che tutti i miei sforzi saranno diretti alla difesa della sovranità e dell’integrità territoriale della Serbia, incluso il Kosovo quale parte integrante del Paese”. La formula di giuramento pronunciata davanti ai nuovi deputati del parlamento non lascia spazio a dubbi. Sul riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, il Presidente, con prospettive ben diverse da quelle aperte da Tadić, non arretrerà, ed è ragionevole pensare che anche dal Parlamento eletto a maggio, la cui maggioranza sta faticosamente provando a puntare su un accordo di desistenza tra ex miloseviciani ed esponenti del Partito democratico, non arriveranno spinte differenti.

Ma c’è di più. A valutare le prime uscite pubbliche di Nikolić, l’elemento di rilievo è rappresentato dalla nuova relazione con l’Ue. La Serbia, che nel mese di marzo aveva guadagnato l’ottenimento dello status di paese candidato, grazie ai risultati ottenuti da Tadić sul fronte della lotta alla criminalità organizzata transnazionale e della collaborazione con il Tribunale Penale Internazionale dell’Aia cui aveva consegnato i criminali di guerra Radovan Karadžić, Ratko Mladić e Goran Hadžić, da adesso devo fare i conti con un capo di Stato che frena rispetto alla politica di ingerenza di Bruxelles e che aspira a nuove alleanze internazionali.

Non è un caso che Nikolić, abbia bollato il percorso di adesione europeo come “lungo e incerto” proprio da Mosca, meta della sua prima trasferta internazionale da Presidente. La “mia vittoria è stata la vittoria dell’ideologia ‘sia Ue, sia Russia’, non di quella ‘o Ue, o Russia’”, ha dichiarato baldanzoso durante la conferenza stampa congiunta tenuta con il Presidente russo Putin. Per molti, una conferma del nomignolo di licemjer, “opportunista”, affibbiato a questo politico passato dall’onorificenza di “duce dei cetnici” attribuitagli dall’ultranazionalista Seselj – attualmente detenuto all’Aia per crimini di guerra – alla nomina a presidente della Repubblica di Serbia.

Ora il camaleontico Toma sogna una Serbia “che rappresenti una casa con due porte, una verso Ovest, l’altra verso Est”. Un ammiccare a oriente che poggia su due aspetti fondamentali: il prestito da 800 milioni di dollari appena elargito dalla Russia per risanare la spossata economia serba e l’appoggio incondizionato di Putin al mantenimento dei confini territoriali della Serbia. Un approccio decisamente divergente dall’euro-entusiasmo che ha caratterizzato il mandato Tadić e che la dice lunga sulle nuove prospettive di politica estera che si aprono per il paese anche sul piano degli equilibri regionali.

A conferma delle turbolenze che cominciano a gravare su questo fronte, la cerimonia solenne di insediamento del nuovo presidente serbo, svoltasi lo scorso 11 giugno, ha visto assenti gran parte dei rappresentanti dei paesi balcanici. Dopo la defezione dei presidenti di Croazia, Bosnia-Erzegovina e Slovenia, da ultima si è aggiunta anche quella del presidente macedone Gjorgje Ivanov. Tra i presenti, a mappare la nuova rete di alleanze regionali dell’era Nikolić, solo il presidente montenegrino Filip Vujanović e il leader della Republika Srpska (Rs, entità territoriale della Bosnia-Erzegovina a maggioranza serba) Milorad Dodik. Casus belli, le sortite inappropriate rimbalzate in tutte le agenzie di stampa internazionale che hanno visto un Nikolić più scalpitante del solito sparare bordate revisioniste sui genocidi di Vukovar e Srebrenica.

In un’intervista rilasciata al Frankfurter Allgemeine Zeitung Nikolić ha definito Vukovar, città croata devastata dall’esercito serbo nel 1991, una città serba. Uno sfregio alla memoria di quei 1.700 morti, 4.000 feriti e 500 scomparsi che dopo l’assedio durato tre mesi, finirono rastrellati e massacrati in nome della pulizia etnica commessa dall’esercito serbo, e un passo indietro notevole rispetto a quella visita di stato fermamente voluta da Boris Tadić e compiuta nel novembre del 2010 insieme al presidente croato Ivo Josipović.

“Sono qui oggi a Vukovar per inginocchiarmi davanti alle vittime e rendere loro omaggio. Sono qui per esprimere ancora una volta parole di pentimento e rimorso. Per creare la possibilità per la Serbia e la Croazia di aprire una nuova pagina nella loro storia”, aveva dichiarato Tadić solo due anni fa aprendo la via ad un percorso di riconciliazione che oggi rischia di arrestarsi sul colpo, minato com’è da dichiarazioni irriguardose come quella più recente su Srebrenica.

“È difficile accusare e provare davanti a un tribunale che l’evento abbia le caratteristiche di un genocidio”. Ha dichiarato Nikolić all’inizio di giugno, liquidando in un colpo la memoria degli 8 mila civili bosniaci uccisi dalle milizie serbe nel 1995 “con il preciso intento di distruggere i musulmani di Bosnia ed Erzegovina in quanto tali” come ha sancito nel 2004 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Un “genocidio deliberato” il cui orrore sembra oggi ancora più gravoso.

Nel tentativo di rimediare e tranquillizzare le cancellerie europee e quella statunitense allarmate dalle sue dichiarazioni, il neo-presidente, al margine del suo discorso di insediamento, ha affermato che in materia di politica regionale, “non consentirà che vedute differenti su alcuni avvenimenti del passato mettano in pericolo il futuro comune”, aggiungendo di credere che “tutte le diversità e i problemi vadano risolti con mezzi pacifici e democratici, in primis con il dialogo”. Per l’ennesima volta Toma rimescola le carte. A quando la prossima smentita?

Immagine: Tomislav Nikolic – Wikimedia Commons

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