”La tragedia di chi cerca fortuna altrove”
Jean-Pierre Boris con E. A. 24 September 2008

Morire, in primo luogo, nel modo drammatico in cui sono morti più di cento clandestini nel naufragio – che il giornalista francese racconta – nell’agosto del 2005 sulle coste dell’Ecuador: annegati, ustionati dal sole e dal sale. Oppure essere presi e fare ritorno in patria, nelle stesso condizioni di miseria e assenza di speranza, ma attorniati da strozzini sciacalli, sapendo di non poter pagare. E dunque alla fine costretti, di muovo, a indebitarsi e ripartire, questa volta sapendo a che cosa si va incontro.

Perché ha deciso di dedicarsi alla vicenda degli ecuadoregni costretti a lasciare il proprio paese in cerca di fortuna? E, specificamente, di scrivere un libro su quel naufragio?

Sono trent’anni, a parte qualche interruzione, che mi occupo di attualità latino-americana. Qualche mese prima di questo libro, ne avevo pubblicato un altro che parlava assai poco di America Latina. Di qui una sorta di frustrazione, per cui, appena ho sentito parlare di questo naufragio al largo dell’Equatore, ho subito pensato che sarebbe stato un buon soggetto per un libro.

Qual era il suo intento nel raccontare questa storia? Quello di concentrarsi sullo specifico evento oppure, insieme, quello di denunciare la condizione dei clandestini che, da molte parti del mondo, arrivano sulle nostre coste?

Sono un giornalista, non un ideologo. La mia vocazione è quella di descrivere il mondo che ci circonda. Non avevo dunque l’intento di raccontare l’incubo degli immigranti illegali. Ha presente quei medici che di fronte ad una malattia grave parlano di un “bel caso”? Ecco, per me si è trattato della stessa cosa. Scoprendo questa storia del naufragio, ho immediatamente pensato che sarebbe stato un bel racconto. Ciò che mi ha colpito, in particolare, è il fatto che ci fossero dei sopravvissuti, tornati al loro punto di partenza, che potevano raccontare ciò che gli era successo. Sono dunque partito alla loro ricerca.

Quali sono, secondo lei, i fattori e le persone responsabili della sofferenza dei clandestini? Nel suo libro, lei descrive la figura dei “coyote” (gli scafisti). Perché è così difficile scoprire e punire questi uomini che si macchiano di orribili delitti?

In Equatore, i principali responsabili del martirio che subiscono gli immigranti illegali sono i dirigenti politici ed economici del paese. La corruzione e l’incompetenza, il disinteresse per le popolazioni emarginate, sono tutti fattori che spingono alla partenza, qualunque siano le condizioni. Le reti mafiose prendono il sopravvento solo in secondo luogo, spesso grazie all’appoggio di qualcuno in alto.

Venendo alla questione scottante delle politiche migratorie: come dovrebbe essere secondo lei una politica dell’immigrazione che meglio realizzi un equilibrio tra la necessità di mettere dei limiti all’ingresso illimitato e l’obbligazione morale all’accoglienza?

Su questa questione ho un punto di vista molto radicale. Io credo che bisognerebbe lasciare le frontiere aperte, e permettere un flusso regolare di stranieri. La chiusura delle frontiere non fa che incoraggiare l’apparizione di filiere clandestine, di mafie. Essa non fa che riflettere la paura dell’altro, nella quale ci fanno vivere gli ambienti più conservatori. Naturalmente è una posizione teorica che non tiene conto dei problemi che porrebbe un afflusso massiccio di immigrati. Tuttavia si è visto, ad esempio nel momento dell’integrazione della Ue dei paesi come la Romania, che ciò che si temeva non si è verificato, e cioè un dilagare di immigrati da quei paesi. Eppure, molti avevano detto che l’immigrazione avrebbe dilagato.

In molti paesi, come l’Italia, la paura degli extra-comunitari, o comunitari rom, accusati di un’ampia varietà di reati, ha aiutato la vittoria delle destre. Anche i partiti di sinistra, tuttavia, su questo fronte sono deboli e controversi. Perché a suo avviso?

Ho naturalmente sentito parlare della questione dei rom in Italia. La politica messa in atto nei loro confronti ha provocato molte emozioni in Europa. Ciò che è successo è che i partiti della sinistra francese, ma lo stesso vale per altri paesi, non hanno saputo condurre una battaglia ideologica contro la destra e hanno battuto in ritirata di fronte a una politica dell’immigrazione molto conservatrice. Ma si sa che in periodi di difficoltà economica gli stranieri non integrati sono spesso dei capri espiatori molto comodi.

Ultima domanda sui media. Nel suo libro, lei descrive il tragico contrasto tra la generale indifferenza verso i traffici di clandestini e l’attenzione morbosa dei media alle facce e alle storie delle vittime. Quanto la stessa informazione è responsabile delle condizioni degli immigrati clandestini?

Non penso che si possa accusare i media di essere responsabili dei traffici degli esseri umani. Per quello che so, ci sono dei numerosi reportage giornalistici, radiofonici, televisivi, dedicati ai trafficanti. È il caso degli Stati Uniti con l’America Latina, ma anche naturalmente dell’Europa con l’Africa o l’Asia.

Intervista di Elisabetta Ambrosi

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