“A Sarajevo servono istituzioni non etniche”
Christophe Solioz intervistato da Matteo Tacconi 16 September 2008

Impegnato in una ricerca e in un’analisi approfondite e costanti sui Balcani, il Ceis ha appena pubblicato il volume Regional Cooperation in South East Europe and Beyond. Challenges and Prospects, una nuova indagine, a tutto campo, sulle dinamiche che caratterizzano la ex Jugoslavia. Solioz spiega a Resetdoc che «se il profilo di stato assistito della Bosnia dovesse consolidarsi, per il paese si prospetta quanto di peggiore gli possa accadere. Qualcuno parla di scissione tra la Federazione e la RS. Magari è possibile, anche se io sono abbastanza scettico. Il guaio vero è che la Bosnia sprofondi nell’inazione».

In Bosnia è stallo politico. Di chi è la colpa?

La leadership politica locale ha senz’altro le sue pesanti responsabilità. Ma c’è da dire che anche la comunità internazionale non è esente da errori. Le dinamiche dell’assistenza “esterna” della comunità internazionale per lo sviluppo economico, il rafforzamento delle istituzioni e il potenziamento del ruolo della società civile sono distorte. Non si è creato quel circolo virtuoso con i leader locali. La comunità internazionale ha creato una serie di Ong che rappresentano il modello e la visione occidentali, puntando a esportare questi paradigmi nella realtà locale. All’inizio, in Bosnia, c’era un forte slancio ideale per aiutare il paese a superare il trauma della guerra, per ricostruire la società, civile e politica. Poi è però subentrato un certo lassismo. Istituire una Ong è diventato sinonimo di ricevere fondi internazionali, affittare costosi uffici nel centro di Sarajevo, acquistare computer, organizzare seminari e viaggiare all’estero. Stiamo assistendo a un fenomeno che chiamerei “oennegizzazione” della società. Non vedo più quello slancio della società civile, come quando alla fine degli anni ’90 quando venne creato il Citizens’ Alternative Parliament (Agosto 1996), un’iniziativa che mirava a trasformare le pulsioni dal basso in una forza politica. Allora questo era possibile, e va inoltre ricordato che le forze di opposizione vinsero le elezioni nel 2000 portando al potere un’Alleanza per il cambiamento (2001-2002). La domanda che mi porrei, oggi, è questa: come mai con tutti questi milioni di milioni di dollari spesi per rafforzare la società civile, la società civile non esiste? I cooperanti che andavano in Bosnia negli anni ‘90 avevano motivazioni solide, erano pronti a rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, in condizioni difficili. La gente li rispettava perché sapeva che cosa facevano e quanto sgobbavano. C’era una fase di pionierismo. Adesso gli internazionali vanno a Sarajevo perché si sta bene, vogliono comfort. Infine, direi che c’è anche un problema “generazionale” in Bosnia.

Ovvero?

Il punto è che emerge – già da alcuni anni – una nuova generazione, che potenzialmente rappresenta forze sociali “fresche” e che non è legata ai retaggi della guerra. Questa generazione ha idee e tanta buona volontà, vuole cambiare le cose. Ma i “vecchi”, i politici usciti dalla guerra e con una concezione di società basata sugli schemi del conflitto, la tengono a freno. Ritengo opportuno azzeccare una dinamica positiva per mettere questi due gruppi in comunicazione, facendo sì che l’interazione tra di loro sia genuina e contribuisca all’emergere di una nuova dinamica politica. Ovviamente, questo processo deve essere locale e non pilotato dall’esterno.

Ora Boris Tanovic, il regista premio Oscar, è sceso in campo con l’obiettivo di scuotere la Bosnia dal torpore. È forse un sussulto della società civile?

Serbo la speranza che l’operazione di Tanovic contribuisca a far sì che ci sia uno “shock” positivo. Ma credo purtroppo che non c’è una volontà, in seno alla società, per introdurre dei cambiamenti. La mossa di Tanovic è da lodare, soprattutto perché ha deciso di tornare in patria per migliorare il proprio paese. Ma oggettivamente sono un po’ scettico. Detto questo, il mondo della cultura è molto dinamico in Bosnia, per quanto in parte staccato dal mondo politico, verso il quale c’è un forte sentimento di disillusione («il mondo politico è corrotto, non ci si può aspettare nulla…»). La mossa di Tanovic potrebbe riconnettere la cultura e la politica, offrendo nuova spinta a forze politiche che devono iniziare la loro rivoluzione interna.

Qual è, se c’è, la exit strategy?

In generale si sa che cosa fare. Il peso delle entità e dei cantoni va diminuito, è necessario creare al loro posto delle regioni e potenziare il ruolo svolto dalle municipalità. Serve, in sostanza, creare un’impalcatura istituzionale non etnica. Questo è possibile, il problema è solo agire al momento giusto. Nel 2005 ero a Mostar e ho incontrato i vertici dell’HDZ 90 (uno dei partiti “croati”). Abbiamo discusso di riforme sanitarie e osservato che c’era un consenso politico per prestare assistenza medica nel quadro di una regionalizzazione della Bosnia, cioè oltrepassando lo steccato etnico. Ecco, questo dimostra che dove c’è la volontà di fare riforme, le riforme si possono fare. Invece la riforma della polizia, varata senza convinzione, viene bloccata da anni perché politicamente molto più sensibile. E ciò danneggia il processo d’integrazione nell’Ue.

Come si può superare Dayton?

Ci sono due requisiti. Il primo è che la comunità internazionale si faccia garante di un nuovo accordo, si adoperi per gestire il processo di riforma di Dayton e la scrittura di una nuova Costituzione. La comunità internazionale dovrebbe avere un approccio molto elastico, nel gestire e monitorare questo processo. L’ex presidente sloveno, Milan Kucan, ha proposto l’anno scorso una nuova conferenza sui Balcani, in cui si discuta certamente di Bosnia, ma anche delle altre questioni aperte della regione. Ma il problema è che la comunità internazionale non intende commettere altri sbagli sulla Bosnia e questo timore la paralizza. Stati Uniti e Unione europea evocano il “vaso di Pandora”, dicendo che aprire questo vaso può moltiplicare i già tanti problemi. Ma parlare di vaso di Pandora è solo una scusa per non fare nulla. Il vantaggio di una conferenza internazionale, se si decidesse di farla, sarebbe quello di riuscire finalmente a superare il modello di Dayton, lo svantaggio è che si tratterebbe di una soluzione esterna e imposta. E qui, per attutire questo effetto, entra in gioco la seconda condizione, che è il consenso politico della società bosniaca sul superamento di Dayton. Però torniamo al punto di partenza: per avere consenso politico, per comporre le varie istanze serve una società civile forte. Oggi, questa società civile forte non c’è e politici come Milorad Dodik riescono a fare il loro gioco, in mancanza di contrappesi che glielo impediscano. Per scuotere la Bosnia da dentro e mandare un messaggio forte “fuori”, così che la comunità internazionale si attivi, serve che in Bosnia emerga un personaggio forte e dinamico, creativo, alla Sarkozy o alla Obama – chissà, alla fine, perché no Tanovic! – Un personaggio che abbia caratura nazionale e internazionale, che sia capace di dare voce al cambiamento e trasformare le istanze di rinnovamento in istanze politiche.

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