“Ma i valori politici sono fondati su concezioni del bene”
Charles Taylor 18 September 2007

Società “post-secolare”: in un certo senso, questa definizione non si attaglia a tutti. Se con essa si intende che la società ha superato una fase di secolarizzazione e ora la religione sta “tornando”, allora tale definizione è alquanto errata. Alcuni processi di secolarizzazione che implicano il declino della religione, infatti, persistono. D’altronde è vero che tali processi erano ben più complessi di quanto non si pensasse; molte persone hanno in merito un atteggiamento profondamente ambivalente: mantengono una qualche identità religiosa senza però andare in chiesa, oppure credono in qualche modo al trascendente ma non appartengono ad alcuna Chiesa, e così via.

Cosicché i presunti “ritorni” della religione non sono mai realmente tali. Sotto molti aspetti, la “religione” non se ne è mai andata veramente: la sua impronta sulla nostra cultura è troppo marcata perché sparisca del tutto. Ad esempio, quando si è discusso dell’ammissione della Turchia nell’Unione europea, molti “laici” obiettavano che la Turchia non è “europea”. Perché? Perché non è cristiana. La realtà si presenta ben più eterogenea, molto più frammentata, dal momento che le persone assumono ogni sorta di posizione, da quella spirituale a quella anti-spirituale, dalla posizione religiosa a una anti-religiosa. In Occidente la portata di ciascuna di queste posizioni varia da società a società, e i due poli opposti possono essere rintracciati negli Stati Uniti da un lato e nella Germania orientale dall’altro. Ma in ogni caso non si può parlare di un’epoca “post-secolare”.

Nondimeno, si può tentare di dare un senso a questo termine. Esso riguarda l’interpretazione della nostra epoca: per molto tempo gli intellettuali e gli studiosi, e con loro i giornalisti e noi tutti, si sono bevuti la storia che la modernità dovesse condurre alla secolarizzazione nel senso del declino della religione. Oramai ci rendiamo conto che ciò non è necessariamente vero. La realtà è molto più complessa. E così tutti i problemi che dobbiamo affrontare, compreso quello del pluralismo religioso nelle nostre società, appaiono sotto una luce diversa. La religione non è un fenomeno in declino, che può essere meramente ignorato; continuerà al contrario a far parte del contesto in cui viviamo, e quindi la questione del pluralismo religioso va affrontata. Nozioni elementari come la laicité alla francese, che tendono semplicemente a emarginare la religione, sono ormai inadeguate alla situazione attuale. C’è bisogno invece di Stati realmente neutrali, non soltanto nei confronti delle varie religioni, ma altresì tra religione e miscredenza. Il secolarismo militante non può certo costituire la base dello Stato, però è un diverso punto di vista che deve avere diritto di cittadinanza nel vasto spettro delle appartenenze religiose e metafisiche. Adeguarsi a questa idea non è facile, e non solo per le Chiese che hanno sempre fornito il collante per l’intera società, ma anche per le ideologie secolari.

Böckenförde ha senza dubbio ragione: il problema esiste. Occorre una profonda e forte convinzione morale del valore della libertà, dell’uguaglianza, della tolleranza, magari anche dell’apertura agli altri; ma, per quanto profonda e organica, lo Stato non può sposare né favorire alcuna interpretazione morale specifica – sia essa religiosa o laica – che funge da base per questi valori fondamentali. Questo è il vecchio modello della cristianità, in cui la società è definita e fondata da una Chiesa che inculca quei valori in virtù dei quali vive (valori che non sempre accordavano alla libertà la stessa importanza che le accordiamo noi oggi). Attualmente una soluzione in questa direzione non è possibile; di qui il senso di pericolo espresso da Böckenförde. Ma in realtà si può concepire una società in cui i punti di vista religioso, metafisico e morale siano ineluttabilmente pluralisti (è questa la situazione in cui ci troviamo), in cui però i fautori di quei diversi punti di vista accettino di promuovere gli stessi valori politici fondamentali: libertà, diritti umani, uguaglianza, governo democratico. Alcune società occidentali hanno adottato tale modello. Ma questa base potrebbe rivelarsi fragile: che cosa accade infatti se la pluralità finisce con l’indebolire tutte queste concezioni? In tal caso a essere minacciate sarebbero proprio le fondamenta di quei valori.

Ci sono tuttavia dei potenziali punti di forza. In realtà le diverse concezioni – quella religiosa e quella laica – fungono da base per quei valori politici basilari, svolgendo tale ruolo in modo diverso. Ciascuna offre infatti una diversa lettura di questi valori, come emerge chiaramente in merito a tematiche come l’aborto o i matrimoni omosessuali (non che tali differenze riflettano soltanto la divisione tra credenti e non credenti, dal momento che su alcuni di questi temi all’interno di ciascun fronte esistono ulteriori spaccature, ma è evidente che determinate concezioni religiose fanno sì che alcuni siano più contrari di altri ai matrimoni gay). Ciò potrebbe anche essere indice di debolezza, visto che ci troviamo a discutere sui nostri valori fondanti e sul loro significato, ma potrebbe altresì rappresentare un punto di forza: se alcuni, accomunati dalla stessa concezione su cui poggiano quei valori, ignorano temi che ai loro occhi appaiono poco importanti, altri accomunati da una diversa impostazione sollevano la questione su quei temi costringendo i primi a prenderli in considerazione.

Così, se le Chiese rimangono al di fuori del consenso liberale su temi come i matrimoni gay, ne rimangono fuori anche su questioni come la guerra e la pace. Sicuramente, in uno scenario come il post 11 settembre, le Chiese sarebbero state meno inclini a ricorrere alla violenza rispetto al consenso liberale. Certo, a volte la pluralità di voci può rappresentare un impedimento (come nel primo caso), ma più spesso costituisce un salutare memento di ciò che con troppa rapidità tendiamo a dimenticare (come nel secondo caso).

Charles Taylor, professore emerito alla McGill University di Montréal, ha insegnato negli ultimi anni alla New School for Social Research di New York e alla Northwestern University di Chicago. È autore, tra l’altro, di Gli immaginari sociali moderni (2005).

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 101.

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