“Così la nostra legge difenderà le donne islamiche”
Khaled Fouad Allam intervistato da Elisabetta Ambrosi 6 November 2007

Per ovviare a questa palese violazione del principio di laicità, alcuni deputati – Santelli (Forza Italia), Santanché (An) e Fouad Allam (Margherita) – hanno presentato in settembre una proposta di legge trasversale, che stabilisce che «non sono opponibili divieti al matrimonio civile in Italia tra un cittadino italiano e uno straniero se non quello previsti dall’ordinamento italiano». La proposta prevede anche, per contrastare il problema della poligamia (conseguenza di altri matrimoni contratti fuori dall’Italia) e affermare i diritti fondamentali delle donne musulmane, due ulteriori articoli sulle false attestazioni di stato civile e l’obbligatorietà dell’applicazione delle leggi sul matrimonio italiane.

“Il caso dei matrimoni interreligiosi non è che una delle espressioni di un problema più ampio, quello del rapporto tra diritto e cultura”, spiega Khaled Fouad Allam, algerino, uno dei firmatari e autore, tra gli altri, di L’Islam globale (Rizzoli 2002), Lettera a un kamikaze (Rizzoli, 2004, tradotto in più lingue) e La solitudine dell’Occidente (Rizzoli, 2005). Lo abbiamo intervistato a poche ore dall’approvazione del pacchetto sicurezza del governo e del drammatico evento della donna violentata e uccisa da un rumeno a Roma. “Viviamo in un momento difficile”, ha detto Allam, “nel quale la sicurezza è divenuta un elemento fondamentale della gestione politica. Ma il vero problema che ci pone la nostra democrazia moderna è quello di mantenere una simmetria tra la necessità della sicurezza e il fatto che i diritti dell’uomo siano comunque mantenuti. Non ci deve essere sovrapposizione tra l’uno e l’altra, ma le due cose devono camminare insieme”.

La vostra proposta di legge mira a sanare una evidente violazione del principio di laicità dello stato. Concretamente, cosa prevede? E quali saranno i tempi (e gli ostacoli)?

Chiariamo subito che il problema non nasce dalla legge italiana, ma dal fatto che nel caso di un matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano a quest’ultimo è richiesta la conversione alla fede islamica se egli è di altra religione. Il nulla osta è una prova di tale conversione. E poiché spesso i paesi islamici non rilasciano questo tipo di documento, subentra un contenzioso tra due legislazioni diverse, quella italiana e quella del paese musulmano. Ecco perché noi prevediamo un articolo secondo cui se entro tot tempo non viene rilasciato il nulla osta, esso si intende come pronunciato e dunque si esce dal contenzioso giuridico e si applica direttamente la norma italiana. Quanto ai tempi, la proposta sarà esaminata alla commissione Giustizia della Camera e poi andrà in aula, ma non è assolutamente calendarizzata.

Voi intendete frenare anche il fenomeno della poligamia, che come nel caso della conversione forzata discrimina sempre le donne musulmane.

Sì, in questo campo occorre mettere ordine, perché molti uomini musulmani sono già sposati nei loro paesi di origine. È un problema che condividiamo con altri paesi, per esempio la Francia. Ad ogni modo, ricordo che il problema è circoscritto: la poligamia resta nei paesi islamici abbastanza difficile, perché sono richieste delle condizioni tali che spesso la rendono impraticabile. Ci sono poi due legislazioni che la vietano del tutto: mi riferisco a quelle di Turchia e Tunisia. Il Marocco, a sua volta, si avvia all’abolizione, perché c’è in corso una riforma dello statuto personale.

Tornando ai matrimoni misti. La sociologa Saraceno, in questo dossier, avverte: questi tipi di unione possono creare rapporti meno simmetrici. Lei che ne pensa? Si tratta di un fenomeno da incoraggiare, in quanto veicolo di integrazione, oppure no?

Dall’esterno, noi spesso vediamo le coppie miste come una specie di corpo a corpo, uno stato di guerra permanente. Ma non è così. Man mano che le diaspore configureranno una nuova geografia territoriale mondiale, i matrimoni interetnici e interreligiosi saranno un elemento centrale, e non marginale, del tessuto costitutivo delle nostre società. Le nostre società si muovono anche grazie a queste unioni.

La controversia sulla legislazione che regola i matrimoni tra persone di religione diversa è uno dei sintomi di un problema più generale, quello su come far convivere il nostro ordinamento liberale con il diritto di famiglia di persone provenienti da paesi con una legislazione caratterizzata da una forte impronta religiosa.

Certo, è evidente che questa questione solleva quella, più ampia, del rapporto tra diritto e culture: un grande dilemma dei nostri tempi, non solo in Italia ma in tutti i paesi europei dove ci sono importanti diaspore musulmane. Fino a che punto possiamo ammettere un corpo a corpo tra diritto e culture? E come uscire da questa strozzatura, da un rapporto troppo stretto fra dominio di un assetto culturale e un diritto che non arriva ad emanciparsi da questo assetto, impedendo l’evoluzione e la compatibilità tra sistemi giuridici diversi? Si tratta di problemi teorici che hanno tuttavia gravi ripercussioni a livello psicologico, perché è proprio a causa di essi che i matrimoni entrano in crisi, oppure non si possono celebrare. E le conseguenze, ad esempio, di un divorzio tra un musulmano e una non musulmana sono pesanti sul piano della tutela dei bambini, del diritto all’eredità etc etc. Insomma, è una materia complessa, che prevede interventi che susciteranno parecchi problemi nei paesi di provenienza, e che tuttavia vanno assolutamente intrapresi.

Tra universalismo e multiculturalismo, insomma, meglio sbilanciarsi verso il primo?

La nostra è una situazione simile a quella della Germania del primo 800, quando arrivò Napoleone e – grazie al codice civile ¬– spinse alla trasformazione la società tedesca, che era ancora abbastanza feudale. In altre parole, la nostra società multietnica ha bisogno di un diritto che sia in un certo senso espressione di uno standard europeo, in grado di accordare le diverse legislazioni, perché il rischio è di avere degli scontri giuridici che poi diventano politici e infine culturali. Insomma, mi sembra evidente che le diaspore che si stanno formando in tutto il mondo necessitano di un apparato giuridico che accompagni il mutamento e che riesca a spezzare il rapporto tra diritto e cultura quando questa non è espressione di uno standard universalistico, appunto, ma di tradizioni locali che impediscono l’armonizzazione dei sistemi giuridici. Occorre ammettere, tuttavia, che questo compito è facilitato da quella che io considero la condizione sociologica dell’immigrato, ossia il fatto che la sua è un’identità diluita, perché dopo un certo numero di anni chi arriva, pur continuando a sognare il proprio paese di origine, non è più lo stesso: è infatti entrato in contatto con altre culture che lo hanno profondamente trasformato. Questa è una legge, direi, antropologica.

Tuttavia, quanto all’importanza dell’universalismo, il centro-sinistra non sembra avere le idee così chiare. Le recenti affermazioni di Amato sul velo lo confermano. O no?

Il velo è solo un epifenomeno; e poi Amato non parlava certo del burqa, ma del hijab, il fazzoletto che copre i capelli, e che non crea certo problemi di sicurezza nelle nostre città. Ad ogni modo, è evidente che nella società multiculturale non si può accettare tutto. Un conto è la letteratura e l’arte araba, che esprimono elementi universalistici, un altro è la poligamia, e insieme ad essa tutti gli elementi di forte discriminazione in totale contraddizione con la storia della modernità e dell’emancipazione femminile. Il compito delle politiche di immigrazione che entrano in contatto con quelle sfere culturali è quello di filtrare tra tradizione e diritto. E la politica non deve ispirarsi al politicamente corretto che ha prevalso negli Stati Uniti, ma piuttosto ripensare i modelli in funzione di una maggiore armonizzazione delle differenze e della ricerca di elementi compatibili ai fini della convivenza sociale. Il grande problema politico che si esprime in queste controversie legislative, in Italia come nel resto d’Europa, è quello del mantenimento della coesione sociale nella diversità culturale che caratterizza le società democratiche moderne.

Che modello di laicità lei ha in mente? Una laicità secolare, alla francese, oppure, potremmo dire, “post-secolare”?

Ho sempre pensato che i modelli francesi sono falliti perché espressione alla rovescia del modo con il quale la società francese, ma anche quella inglese, hanno trattato le loro colonie: penso all’Algeria e all’India. In quest’ultimo caso, ad esempio, il governo britannico lasciava vivere la comunità indiana nello stesso modo di sempre, impedendo la comunicazione tra i due elementi culturali, quello britannico e quello indiano. Questo mancato scambio è la stessa conseguenza della politica opposta, quella assimilatoria. Io credo tuttavia che occorra abbandonare gli estremi, e uscire da un universalismo astratto, cercando un dosaggio molto meticoloso ed equilibrato fra le culture, in cui c’è sempre qualcosa di positivo. L’obiettivo di questo processo è un’integrazione che includa la condivisione dei valori basati sull’uguaglianza e la libertà. Questi ultimi sono i due paradigmi fondamentali della democrazia in Occidente, e qualsiasi multiculturalità si deve fondare su questi due valori pena il rischio del formarsi di società gerarchizzate di tipo castale, o di ghetti, all’interno di uno stesso paese o città, che non riescono a comunicare tra di loro. Si tratta, questo sì, di un lungo cammino.

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