Obama e l’Islam
Stefano Allievi 15 April 2009

Stefano Allievi insegna sociologia all’Università di Padova ed è autore di diversi libri sull’Islam, tra cui “Le trappole dell’immaginario: Islam e Occidente” (Forum Edizioni 2007).


Non è l’Ich bin ein Berliner! kennedyano, ma nelle sue conseguenze politiche potrebbe assomigliarci. Dall’Europa infatti non ce ne accorgiamo, ma per un mondo arabo e un mondo islamico stanchi, disillusi ed esasperati da una lunga storia di umiliazioni e sconfitte culminata in questi giorni a Gaza, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America. Il compito inoltre era più difficile: se Kennedy infatti parlava a un’Europa, e in particolare a una Germania, prima colpite e sconfitte ma allora alleate e in attesa quasi messianica del verbo e del concretissimo aiuto americano, che già si era ampiamente manifestato, Obama ha parlato invece a un mondo islamico sempre meno filoamericano, sempre più critico, in cui serpeggiano rancori sempre meno sopiti, esplosi nell’era di Bush (che dell’islam non ha capito nulla) e dalle sue politiche alimentati.

Le parole prefigurano una svolta quasi a centottanta gradi: le azioni, lo vedremo. Ma già il fatto che Obama chieda di essere giudicato “non dalle mie parole ma dalle mie azioni, e dalle azioni della mia amministrazione” è l’indicazione che un piano d’azione c’è già, e probabilmente sarà illustrato in dettaglio nel già attesissimo discorso da una capitale islamica, preannunciato entro i primi cento giorni di mandato. Le linee guida tuttavia le conosciamo già: fine dell’unilateralismo arrogante (e, per quel che riguarda il mondo islamico, ostentatamente pro-israeliano), chiusura di Guantanamo, ritiro dall’Iraq, impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, persino un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran, nel quadro di una politica che programmaticamente prevede anche di parlare con i propri nemici, anziché limitarsi a demonizzarli. Certo, è stato ribadito che Israele resta un alleato di riferimento, e sarebbe stato sorprendente il contrario: ma, anche qui, Obama ha parlato di “forte alleato”, non del più stretto alleato, o del baluardo dell’Occidente in Medio Oriente, come ripetuto in una retorica di anni. E probabilmente l’annullamento del viaggio del ministro israeliano Barak negli Stati Uniti ha più a che fare con una riflessione e un bisogno di prepararsi su questo punto, che non con il soldato ucciso da Hamas in un attentato, negli stessi giorni, usato come giustificazione ufficiale.

La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti. Obama stesso si è definito così, nel suo rapporto con arabi e musulmani: “listening, respectful”. Parola riecheggiata insistentemente: “Siamo pronti a iniziare una nuova partnership, basata sul mutuo rispetto e sul mutuo interesse”. “Start by listening instead of start by dictate” è una frase più forte e politicamente più impegnativa, per l’orecchio arabo quasi inverosimile, della sua traduzione italiana. C’entra certamente la sua storia personale e familiare, che nell’intervista Obama ha voluto rievocare e mostra di usare sapientemente anche come mezzo per suscitare empatia. Ma il centro del messaggio riguarda anche chi l’ha eletto, basato com’è su un duplice impegno: dire ai musulmani che “l’America non è il vostro nemico. Qualche volta facciamo degli errori, non siamo così perfetti…”. Ma anche dire agli americani che il mondo islamico è fatto soprattutto di gente normale, che “vuole vivere la sua vita e che i propri figli abbiano una vita migliore”, né più né meno degli americani stessi: lontano anni luce dalla retorica dell’asse del male.

Gli arabi come l’hanno vissuta? C’è chi ha pianto (come per un velo che finalmente cade, più che di gioia vera e propria), chi ha espresso entusiasmo, chi cauta apertura, chi – moltissimi – attendismo. Ma c’è anche chi mostra disincanto o accusa apertamente di doppiogiochismo il presidente americano. Non è un caso che persino sulla pur ufficialissima e moderata emittente televisiva che ha ospitato l’intervista, un buon 15% delle reazioni sia stata negativa. In qualche caso riecheggiando il linguaggio intriso di razzismo, anch’esso tipico di una certa eredità araba, usato dal numero due di al Qaeda, al Zawahiri, in un messaggio pronunciato poco dopo l’elezione di Obama, che lo chiamava “servo negro” (“house slave” traducevano i sottotitoli in inglese dall’arabo “abid al-bayt”). Non sono pochi, del resto, coloro che rimproverano il neo-presidente americano di non essere musulmano come il padre (anche se alla causa islamica ciò non avrebbe reso miglior servizio, dato che non sarebbe mai diventato presidente…).

Anche Hamas ha scelto espressioni fuori dal tempo massimo della storia, per commentare l’intervista: “Per Hamas tra Barack Obama e George W. Bush non c’è alcuna differenza”, ha dichiarato un portavoce del movimento da Beirut, Osama Hamdan, ad al Jazeera. E questo “lo porterà a commettere gli stessi errori di Bush, che ha infiammato la regione invece di portare stabilità”, destinando Obama “ad altri quattro anni di fallimenti in Medio Oriente”. Nella società civile di molti paesi islamici, e arabi in particolare, tuttavia, l’intervista ha senza dubbio suscitato interesse e simpatia, confermando le parole pronunciate da Obama nel suo ormai storico discorso di insediamento, che potevano suonare come una sconfessione del sostegno a leader autocratici, o fintamente democratici, alleati dell’Occidente, alla cui successione, dopo un attaccamento al potere portato al limite della sopravvivenza fisica, si apriranno crisi e rivolgimenti drammatici: “Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società – sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno”.

E dall’Europa? La ferita palestinese sanguina anche nel corpo europeo della umma islamica. E quindi anche qui non basteranno le parole a rimarginarla. Ma la speranza è palpabile. Anche se i musulmani, soprattutto gli arabi, sono abituati a veder disattese le speranze di cambiamento radicale, sempre annunciate dai nuovi leader (come accaduto in questi anni in Algeria, Marocco, Giordania, Siria) ma mai mantenute. La speranza è tuttavia virtù islamica: e anche, come noto, l’ultima a morire. Vista dall’Italia, poi, la speranza si tinge anche d’altro: dell’attesa, destinata a rimanere per ora senza risposta, che qualcosa cambi anche qui. La speranza che l’ottuso anti-islamismo dell’era Bush, da noi declinato nella sottocultura del fallacismo, dispensato a piene mani perfino da altissimi esponenti di governo, trovi parole più sensate e tonalità più civili: che sembrano, entrambe, terribilmente lontane. Ma Obama non abita ancora da queste parti, il vento di cambiamento che ha portato con sé qui non si percepisce, la sua influenza culturale, in quest’ambito e in questo spicchio di mondo, ancora non si vede.

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