Nahr El Bared, il campo del Nord che sconta ancora la distruzione del 2007
Ilaria Romano 11 October 2012

Dal 20 maggio al 2 settembre di cinque anni fa quell’area è stata il luogo degli scontri fra il gruppo di miliziani di Fatah Al Islam e l’esercito libanese. Tutto era cominciato a Tripoli, dopo un raid della polizia in una casa sospettata di essere in uso al movimento armato; ne era nato un primo scontro a fuoco poi continuato nel campo, dove i membri di Fatah Al Islam si erano insediati, pare, almeno un anno prima.

Alla fine di maggio l’esercito libanese circonda Nahr El Bared e comincia a bombardarlo. I miliziani resistono, ci sono vittime da entrambe le parti, e ai primi di giugno viene sferrato il secondo attacco, e sganciati anche dei missili, mentre comincia l’evacuazione dei civili. Alla fine di agosto saranno cinque gli attacchi dell’esercito libanese, e ci saranno anche diverse vittime civili, oltre che nuovi sfollati. Il campo è praticamente raso al suolo, e dopo subirà anche i saccheggi delle proprietà di chi si è trasferito temporaneamente in altre aree di rifugiati del Libano, almeno 26mila palestinesi.

Quanto è accaduto nel 2007 è un ricordo indelebile per gli abitanti, perché la ricostruzione messa in atto dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, non è stata ancora portata a termine, e poi perché è difficile spiegare come dei miliziani di altre nazionalità abbiano potuto insediarsi nel campo, chissà con quali appoggi anche all’esterno.

Oggi i 19 membri del Comitato Centrale raccontano che nessuno ha mai chiesto garanzie o eccessive informazioni all’ingresso a chi arrivava a Nahr El Bared, soprattutto a chi affermava di essere fedele alla causa.

Il prezzo da pagare però è stato altissimo. Da allora gli ingressi al campo sono presidiati dall’esercito libanese, che controlla i documenti di riconoscimento e i veicoli in transito. Negli ultimi tempi però le ispezioni si sono allentate, e per entrare da “ospiti” la trafila non è più quella di una volta, anche se può essere utile fare in anticipo una richiesta di permesso. Fino al 2007 Nahr El Bared era un luogo tutto sommato ricco, con una fiorente economia ed un mercato frequentato anche da libanesi e siriani. Ora quel benessere è solo un ricordo.

Secondo i dati dell’UNRWA l’assedio ha portato alla distruzione del 95% degli edifici presenti, fra case e infrastrutture. Quasi 6mila famiglie ancora oggi vivono nei container, in una condizione di estremo disagio per mancanza di spazio, carenza di igiene, problemi relativi all’impianti idrico. Le Nazioni Unite hanno intrapreso un progetto di ricostruzione che procede a rilento e che ha un costo stimato di 345 milioni di dollari. Le prime 300 famiglie si sono trasferite nelle case di nuova costruzione nell’aprile del 2011, altre 300 hanno avuto le chiavi nel mese di ottobre. Ma il completamento dei lavori è ancora lontano. Proprio in questi giorni si sta ultimando una scuola, vicino al mare, ma l’anno scolastico è già iniziato e bisogna adattarsi alle strutture esistenti, per il momento.

Milal scioglie i capelli, una nuvola di ricci gli coprono le spalle: “ho deciso di non tagliarli più finchè tutto qui non sarà tornato come prima”. Prima lavorava al Children and Youth Center del campo, ora si è iscritto all’università di Tripoli e studia psicologia. Con il suo amico Halil, formazione militare da Fronte Popolare, allena i bambini delle squadre di calcio, maschile e femminile. Facciamo un giro per il campo, nella sua vecchia macchina polverosa ma che ancora affronta gli sterrati e le salite con dignità. Milal conosce e saluta tutti, ognuno con la formula più appropriata. Alle persone di fede augura la benedizione, agli altri si rivolge con un “ciao, tutto bene?”. Parcheggia a pochi metri dal mare. Qui la spiaggia è fatta di cumuli di detriti, i bambini la attraversano e vanno a fare il bagno.

Subito di fronte ci sono le nuove case dell’UNRWA, intonaco giallo ocra, infissi alle finestre, panni stesi. I vicoli però sono sempre troppo stretti, anche se nuovi, come se il modello del campo che opprime la vista e il respiro non avesse alternative, neppure nell’edilizia. Basta uscire da quest’area che la situazione cambia radicalmente: da una parte c’è il deserto dei ruderi centrati dai bombardamenti del 2007, che nessuno ha ricostruito, né demolito. Alcuni sono in piedi, completamente sventrati, altri sono implosi e le pareti si sono adagiate l’una sull’altra.

Allontanandosi dal mare si arriva ai container, allineati e sempre più arrugginiti, bui, consunti, soprattutto quelli delle file più interne dove il sole non arriva mai.

La parte più vicina agli ingressi con i checkpoint è fatta di case in muratura, con spazi più ampi e strade in buone condizioni. Qui c’è il Children and Youth Center, legato a quello di Shatila come gestione, ma qui portato avanti da un gruppo di donne e ragazze che seguono i bambini nei compiti e nel gioco. Shukkra, la coordinatrice, racconta la quotidianità di questo spazio: “qui i bambini sono seguiti e studiano insieme, divisi per classi d’età e materie.” C’è l’aula di matematica, quella di inglese, anche se sono poche le insegnanti che lo parlano.

Le aule sono curate nei dettagli, e al piano terra c’è anche uno spazio per l’asilo nido, con una piccola area giochi in cortile.

Da poco è stata anche ristrutturata la clinica di Nahr El Bared: pareti rosa e lilla, una pedana di compensato per colmare il gradino all’ingresso e consentire l’accesso ai disabili. Due donne aspettano di essere visitate. La prima stanza è il pronto soccorso, con le pareti blu, verniciate di fresco, lenzuola pulite nei letti e sedie nuove. L’unica cosa che tradisce una storia ben più lunga, fra i colori, è la ruggine delle bombole d’ossigeno, precedenti all’ultima ricostruzione e forse anche alla nascita di quel presidio sanitario.

Immagine: Nahr El Bared, (cc, nimzilvio)

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