Medio Oriente, la rivoluzione del capitalismo rosa
Nadereh Chamlou 22 March 2007

Questo testo è la trascrizione dell’intervento dell’autrice al Forum Internazionale delle Donne Imprenditrici, tenutosi a Milano dal 4 al 6 marzo e registrato da Radio Radicale.

Ho l’onore quest’oggi, a nome della Banca Mondiale, di presentarvi i punti salienti di uno studio in via di realizzazione inerente al tema che fa da cornice a questo incontro, e che verrà probabilmente completato nei prossimi sei mesi. Prima di presentarvi il nostro studio, il cui oggetto è l’imprenditoria femminile nell’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa), vorrei sintetizzare molto brevemente alcune delle sfide che questa regione – la quale copre un vasto spettro di Paesi, dal Marocco all’Iran e dalla Siria allo Yemen – sta fronteggiando. Innanzitutto, occorre dire che l’area Mena vede, da qualche anno a questa parte, una marcata crescita a livello di investimenti in politiche educative e formazione: a tutti è garantito l’accesso all’istruzione primaria e secondaria, e cresce il numero delle donne che giungono a completare anche un percorso universitario. È lecito, quindi, affermare che oggi, in gran parte di questa regione, a possedere una formazione universitaria sono più donne che uomini.

Tuttavia, complice la crescita record della popolazione da venti anni a questa parte – specie con riferimento alla cosiddetta youth bulge, cioè i giovani sotto i trenta anni – l’area Mena si trova a dovere fronteggiare una sfida: le fila della forza lavoro nei vari Paesi, infatti, hanno visto in questi ultimi anni un notevole incremento, il che si traduce in un marcato tasso di disoccupazione giovanile concentrata soprattutto tra i giovani, le donne in primis. Queste ultime incontrano tuttora maggiori difficoltà, rispetto agli uomini, nella ricerca di un lavoro. Ecco perché una delle risposte alle sfide che l’area Mena deve fronteggiare è proprio la creazione di più posti di lavoro. Il settore pubblico, però, non è più in grado di assolvere a tale compito, e occorre che a fare da traino sia quello privato. In altre parole, si deve abbandonare il tradizionale modello di occupazione nel settore pubblico, promuovendo il privato, che – in molti Paesi – necessita di una più marcata diversificazione (esso, infatti, si basa per lo più sullo sfruttamento delle risorse naturali come gas, petrolio, etc.) puntando anche sull’export. Non Basta. L’area Mena, infatti, deve raccogliere un’ulteriore sfida: quella di una maggiore parità tra sessi e dell’empowerment delle donne. Come fare tutto ciò?

La chiave per affrontare queste due sfide risiede, a nostro avviso, nella promozione dei diritti economici e opportunità per le donne incrementando, al contempo, la loro presenza in seno a organismi e istituzioni decisionali, che ne possano favorire l’empowerment. Durante la realizzazione del nostro studio, abbiamo scandagliato alcune realtà dell’area Mena, ciò che ci ha permesso di riscontrare diversi “miti” e fraintendimenti di cui è bene, in questa sede, discutere. Tra i luoghi comuni più diffusi, ad esempio, c’è quello per cui le imprenditrici sono concentrate soprattutto nelle micro-imprese o nei settori di nicchia; sono manager delle rispettive aziende di nome, ma non di fatto, in quanto non sono loro a gestirle; sono meno preparate dei loro colleghi imprenditori, e il mondo dell’economia riserva all’imprenditoria femminile pari trattamento rispetto a quella maschile. Ebbene, oggi tenteremo di dimostrare come tutto ciò sia fittizio e lontano dalla realtà.

Il nostro studio è consistito in una serie di indagini random aventi come oggetto il settore privato e da cui è emerso, tra le altre cose, come in America Latina il 20 per cento circa delle imprese sia a proprietà femminile. Il dato scende, nell’area Mena, al 13 per cento. Che significa? Che, grosso modo, una su otto imprese è a conduzione femminile. Ora, a un’analisi superficiale si direbbe che l’area Mena conti meno imprenditrici rispetto alle altre regioni. Guardando, però, alla distribuzione e le dimensioni delle imprese, emerge chiaramente che, nello stesso contesto geografico, l’imprenditoria femminile occupa il segmento medio-grande (100-250 dipendenti), non quello micro. In altre parole, se è vero che solo il 13 per cento delle imprese è a proprietà femminile, la percentuale interessa, in realtà, prevalentemente la fascia medio-grande. In altre parole, le aziende a proprietà femminile contano più lavoratori e maggiori dimensioni. Guardando al caso del Libano e dell’Egitto, tra l’altro, si è visto come le imprese a proprietà femminile superino, in percentuale, quelle a conduzione maschile. Il che ci è parso un dato alquanto sorprendente.

Per quanto riguarda la distribuzione settoriale, si è proceduto a una divisione delle imprese in manifatturiere, di servizi (consulenza finanziaria, etc.) e altre categorie, da cui è emerso, anche in questo caso, che l’imprenditoria femminile si attesta sostanzialmente sullo stesso livello di quella maschile. Anzi, nel settore manifatturiero e dei servizi le imprenditrici tendono a essere leggermente più numerose dei loro colleghi. È un luogo comune che l’imprenditoria femminile interessi per lo più le aziende a gestione famigliare, di cui le donne non sono proprietarie né responsabili. Tuttavia, analizzando la distribuzione delle imprese nell’area Mena sotto il profilo proprietario (proprietà individuale, famigliare, etc.), se è vero che le donne tendono a essere a capo di imprese famigliari, a fronte di una marcata imprenditoria individuale maschile si è comunque riscontrata un’alta percentuale di imprenditrici individuali.

Altro aspetto rivelatosi assai interessante è la composizione della forza lavoro. Nonostante significativi investimenti – nell’area Mena – in politiche educative e capitale umano, le giovani generazioni trovano ancora difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. Per questo si è voluto sondare le differenze tra imprenditoria maschile e femminile in termini di percentuale di forza lavoro qualificata inserita nel proprio organico. E, dalla nostra indagine, è emerso come l’imprenditoria femminile sia caratterizzata da una maggiore percentuale, rispetto a quella maschile, di personale qualificato all’interno delle proprie aziende e imprese. In termini di distribuzione, si è visto che, a livello di forza lavoro semi-qualificata, non qualificata e non-produttiva, le percentuali sono sostanzialmente identiche. Il divario emerge, si diceva, confrontando il dato relativo al personale qualificato, che trova lavoro soprattutto nelle imprese a conduzione femminile. Scendendo un po’ più nel dettaglio, analizzando cioè la formazione e il backgroung del personale assunto, emerge, tra gli altri dati, che le imprenditrici contano il maggior numero di lavoratori con alle spalle un percorso formativo ultradecennale. In altre parole, l’imprenditoria femminile attrae, rispetto a quella maschile, una forza lavoro più qualificata. È un dato assolutamente sorprendente e, proprio per questo, merita a nostro avviso un’attenta analisi.

Infine, va rimarcato un ulteriore trend quanto alla composizione della forza lavoro: le imprenditrici tendono ad assumere un maggior numero di donne. Si è visto come il 15 per cento della forza lavoro nelle imprese gestite da donne sia femminile, dato che scende sotto il 10 per cento spostandoci sull’imprenditoria maschile. Ecco perché, probabilmente, una strategia per raccogliere la sfida di una maggiore occupazione femminile, soprattutto con riferimento ad impieghi qualificati, potrebbe essere la promozione dell’imprenditoria femminile, più adatta o propensa, a quanto pare, ad assumere donne. Come si traduce tutto ciò in termini di bilancio, produttività e redditività? Anche stavolta, si è cercato di sondare i tre fattori partendo da due indicatori: il valore aggiunto e le vendite per lavoratore. Sorprendentemente, è emerso che l’imprenditoria femminile registra risultati più virtuosi di quella maschile. Entrambi gli indicatori, infatti, attribuiscono percentuali maggiori alle imprese a conduzione femminile. Il che si traduce in una maggiore redditività per queste ultime. Non basta.

Infatti, dall’analisi di ulteriori importanti indicatori colpisce come l’imprenditoria femminile attragga un maggior numero di investitori stranieri. In particolare, il 12 per cento circa delle imprese a conduzione femminile intrattiene rapporti con investitori stranieri, a fronte dell’8 per cento circa su cui si attesta l’imprenditoria maschile. In sostanza, le imprese a conduzione femminile stanno divenendo in qualche modo partner commerciali sempre più interessanti per le aziende straniere. Infatti, dal nostro studio emerge anche il dato “export” attribuisce migliori performance all’imprenditoria femminile rispetto a quella maschile. In particolare, circa un terzo delle imprese a conduzione femminile si attesta attorno al 34,5 per cento, a fronte di appena oltre il 30 per cento per quanto riguarda l’imprenditoria maschile. Il gap, ancorché apparentemente trascurabile, potrebbe tradursi in diversi miliardi di dollari in più derivanti dall’attività di esportazione dall’area Mena verso il mondo intero. Ancora una volta, quindi, il settore commerciale vede in prima linea le donne.

Si è cercato, infine, di sfatare alcuni luoghi comuni attorno all’imprenditoria femminile. Quelli, in particolare, per cui le donne sono sì proprietarie delle rispettive imprese, ma solo di nome e non di fatto, perché in realtà non sono loro a gestirle. Tuttavia, raffrontando i parametri “proprietà” vs “gestione”, si è rilevato che, in realtà, più della metà delle imprese a proprietà femminile sono gestite dalle imprenditrici stesse. Le quali, dunque, svolgono un ruolo attivo e sono a tutti gli effetti a capo della propria impresa, che amministrano day-to-day. Ora, appurato il fatto che l’imprenditoria femminile investe gli stessi ambiti, occupa grosso modo le stesse dimensioni, esporta di più e ha più partner commerciali stranieri rispetto all’imprenditoria maschile, sorge un interrogativo: come mai non ci sono più imprenditrici?

Parte della risposta risiede nel fatto che, come rimarcato poc’anzi dal ministro Bonino, il mondo non è completamente “piatto”, almeno per le donne, le quali si trovano tuttora davanti una serie di ostacoli in termini di accesso, permanenza e crescita nel mondo degli affari. E le enterprise survey realizzate dalla Banca Mondiale hanno cercato di misurare la percezione, da parte dell’imprenditoria maschile e femminile, dell’investment climate, le prospettive di investimento. E sono le donne, al riguardo, ad avere espresso il punto di vista più sfiduciato e pessimistico rispetto ai colleghi imprenditori. In particolare, le imprenditrici hanno additato l’instabilità politica, il contesto macroeconomico e la corruzione quali principali ostacoli da sormontare. Ecco perché, sul terreno politico, occorre raccogliere queste sfide al fine di incrementare il numero delle imprenditrici.

Concludo ricordando brevemente che la promozione dell’imprenditoria femminile rappresenta un passo fondamentale per affrontare le sfide dell’area Mena, cioè occupazione, empowerment delle donne, la presenza di queste ultime in un segmento produttivo consistente e diversificato nel settore privato così come la loro valorizzazione. Nonostante le affinità rispetto ai colleghi imprenditori, le donne devono ancora vincere numerose sfide. Per questo salutiamo con entusiasmo gli attuali, positivi sforzi in direzione di un nuovo investment climate. Solo così, infatti, sarà possibile garantire più lavoro e opportunità per tutti, uomini e donne. E, in tal senso, i partner commerciali stranieri, come l’Italia o altri Paesi, possono giocare un ruolo fondamentale. Come? Ad esempio, tramite iniziative come l’odierna, o attraverso rapporti diretti volti a promuovere l’agenda delle riforme e della parità tra i sessi.

Traduzione di Enrico Del Sero

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