Libia, la speranza del futuro
Farid Adly intervistato da Ilaria Romano 28 June 2012

Come ha vissuto il cambiamento, da libico residente all’estero?

In modo entusiasta ma anche sofferente. Il popolo libico ha vissuto gli ultimi 42 anni sotto un regime che ha cancellato qualsiasi presenza di società civile: non c’erano partiti, sindacati, non erano ammesse associazioni. Già dall’inizio della guerra, la richiesta di intervento alle Nazioni Unite ha rappresentato per me, da sempre pacifista e antimilitarista, una sconfitta ideale, ma per il mio popolo ha rappresentato una vittoria. Ho vissuto questa fase con grande apprensione, e impotenza, perché i carri armati del regime sono arrivati a 500 metri di distanza da casa di mia madre. Per 16 anni non ho potuto mettere piede nel mio paese, perché non c’era alcuna forma di libertà. Nella stampa ad esempio, tutti i giornali che nessuno leggeva erano di proprietà dello stato e per di più c’era anche il censore, quindi un poliziotto qualunque aveva la capacità di bloccare magari un articolo di un professore universitario. Ora invece c’è la speranza del cambiamento.

Quali analogie e differenze ha riscontrato fra situazione libica, tunisina ed egiziana?

La Tunisia, che ha dato la scintilla alla “primavera araba”, aveva un’opposizione, anche se imbavagliata, e anche il parlamento c’era, benché addomesticato. Aveva una struttura statale, un esercito, una costituzione, e questi elementi hanno permesso di aprire delle contraddizioni all’interno del regime. E ora è stato eletto un presidente (Moncef Marzouki, ndr) che era dell’opposizione, in esilio, e che tra l’altro era stato l’unico politico a prevedere quanto sarebbe accaduto.

L’Egitto aveva un regime molto più strutturato rispetto a quello tunisino, che aveva addirittura panificato la successione di padre in figlio all’interno della famiglia Mubarak. Nonostante i privilegi l’esercito ha deciso di prendere le distanze quando ha capito che la gente di piazza Tahrir avrebbe spazzato via tutto quel sistema.

La situazione della Libia invece era differente perché non esisteva una struttura dello stato, con una costituzione, un parlamento, dei partiti; anzi, chi cercava di associarsi rischiava di finire sulla forca. Così per oltre quarant’anni la società civile è stata privata della sua capacità di autorganizzarsi.

C’erano dunque gli elementi per prevedere quanto poi è accaduto?

Gli elementi c’erano tutti, ma nessun analista, nessuno stratega delle cancellerie del mondo ha voluto prenderli in considerazione perché probabilmente tutti si fidavano della rassegnazione millenaria delle popolazioni arabo-islamiche e della potenza sei servizi di sicurezza di queste dittature. Ma gli elementi c’erano, anche l’Onu aveva dedicato al mondo arabo una serie di studi che dicevano che la corruzione era molto forte, l’aumento della disoccupazione anche: tutti sintomi di un decadimento di una realtà di potere che non poteva durare a lungo.

Ma alle cancellerie occidentali faceva comodo sfruttare le risorse di questi paesi e avere un controllo strategico della regione. Mentre si parlava di esportazione della democrazia non si è fatto nulla per favorire le masse arabe e il loro percorso in questo senso.

Nel libro dedica un capitolo al ruolo delle donne, ma più che di discriminazione parla di separazione. Perché?

Nella società libica la differenza fra uomo e donna è fortemente amplificata. Per secoli la separazione è stata verticale, con le donne consacrate alla procreazione e alla gestione della casa, gli uomini a garantire il reddito e fare da capofamiglia. Questa situazione non è facile da scalfire, ma sin dagli anni ‘50 le donne libiche hanno lottato per i loro diritti: anche in questa situazione hanno giocato un ruolo fondamentale.

Basti pensare che dal 2008 in poi sono state loro a condurre i sit in davanti alle sedi del potere per chiedere verità e giustizia per i morti nel carcere di Abu Selim. Le radici della rivoluzione sono da cercare lì, fra i familiari dei detenuti uccisi nel 1996 e che hanno scoperto la verità solo dieci anni dopo: per anni hanno vissuto nell’angoscia di non sapere, in tanti hanno continuato ad andare nella prigione per cercare di vedere i propri cari, per portare loro cibo, vestiti, denaro che i carcerieri ritiravano puntualmente senza mai raccontargli cosa fosse accaduto. Questa è la genesi della rivoluzione, ecco perché non credo alle tesi di complotto di chi dice che sia stata guidata dall’esterno.

Allo stato attuale, qual è la situazione economica del paese e quanto conterà ancora il petrolio nel rilancio della Libia e nei rapporti internazionali?

La Libia è un paese ricco, ma i libici sono per la stragrande maggioranza al limite della povertà. Ho fatto un’analisi sulla base di documenti dello stesso governo libico di prima della rivoluzione, e sulla base dei dati della Banca Centrale Libica.

Il 20% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e il 30% dei giovani è disoccupata. Molti giovani non possono crearsi una famiglia perché non hanno la possibilità di comprare una casa. E questo, in un paese petrolifero dove la famiglia al governo spendeva milioni di dollari, dà la misura della contraddizione che viveva la società.

Il futuro è quello della ricostruzione e in questo credo che chi è tornato dall’esilio abbia le capacità per garantire un futuro armonioso. La Libia ha le possibilità economiche per potersi risollevare, ma abbiamo l’ultima possibilità per poterlo fare. Negli anni ‘50 esportava grano all’Egitto e questo mostra che il paese ha capacità agricole importanti. Se vengono sfruttate le risorse petrolifere anche per la ripresa economica reale, il paese potrà ripartire. Bisogna sfruttare non solo l’energia e le risorse del sottosuolo, ma anche il solare, ad esempio, e poi le attrazioni turistiche di cui dispone il paese: 2mila km di spiagge, un deserto sconfinato.

Per quanto riguarda i rapporti internazionali, c’è una presenza economica estera che non si è mai interrotta, in primis con l’Italia. Da ora in avanti l’importante sarà la pariteticità dei rapporti, perché gli affari “mordi e fuggi” non esisteranno più, ma ho visto che anche le reazioni del governo italiano vanno nella direzione giusta.

Nel libro parlo di democrazia popolare dal basso, anche a livello internazionale, nel senso che i cittadini di paesi limitrofi come l’Italia non possono evitare di guardare alla Libia: prendiamo per esempio i sindacati, è bene che contribuiscano alla creazione di strutture analoghe nel sud del mondo, ma non in un’ottica assistenzialista.

Spesso si è sentito parlare della Libia come di un paese tribale: è davvero così?

Molti analisti nel parlare di Libia si sono basati su studi precoloniali, della fine dell’ottocento, ma la realtà di allora era legata alla pastorizia e all’agricoltura stagionale, di conseguenza le varie realtà locali o se vogliamo chiamarle tribali erano in conflitto una con l’altra. Ma già durante il colonialismo, negli anni ‘30, la metà della popolazione libica viveva sulla costa, nelle città e non più in campagna. Negli anni ‘50 la metà viveva fra Tripoli e Bengasi, e questi legami tribali già non c’erano più.

Gheddafi ha utilizzato la questione tribale, ha voluto dividere la società in tribù e ha persino designato dei capi che ogni tanto faceva riunire ma che non rappresentavano nulla.

La Libia non è un paese tribale, ci sono delle realtà territoriali, dei legami col territorio, abbiamo realtà etniche diverse, ma non tribù, e tutti gli scontri che ci sono attualmente non sono scontri di carattere tribale, ma di interesse economico.

Ci sono molte bande che vivono sul contrabbando delle merci, perché ci sono ancora beni calmierati sotto il controllo dello stato, che rappresentano una ricchezza. Di conseguenza ci sono scontri, ad esempio al confine con la Tunisia, per questo motivo. Lo stesso controllo dell’aeroporto di Tripoli, linea di frontiera, è il passaggio di milioni di dollari di contrabbando, e il controllo frutta ingenti ricchezze. Queste sono le reali instabilità della Libia, ma il tentativo di creare una democrazia, nonostante le difficoltà di una popolazione che in 42 anni non ha mai votato, ha mostrato la capacita del popolo libico di voler intraprendere un percorso democratico e pacifico.

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