Una pura formalità
Mahmoud Belhimer 26 March 2009

In realtà, gli osservatori più acuti ritengono che i risultati di queste elezioni siano stati proclamati il 12 novembre 2008, quanto le due Camere del Parlamento votarono una modifica costituzionale emendando l’articolo 74 della Costituzione del 1996 che limitava a due i mandati presidenziali. Il vero scopo di quell’emendamento era, con ogni evidenza, l’eliminazione dell’ostacolo costituzionale che fino a quel momento impediva a Bouteflika di mantenere la sua poltrona presidenziale per un altro mandato. Ormai niente gli impedisce di sedervisi a vita, seguendo la tradizione del mondo arabo.

Diversi mesi prima di questo «accordo istituzionale», i tre partiti componenti l’Alleanza presidenziale che sostiene Bouteflika, al potere dalle elezioni del 1999 – l’Fln (Front de libération nationale), ex partito unico, l’Rnd (Rassemblement national démocratique), creato dal regime nel 1997 e l’Msp (Mouvement de la société pour la paix), partito islamista moderato – non nascondevano la loro intenzione di emendare la Costituzione per consentire all’attuale presidente di «proseguire l’attuazione del suo programma e i suoi sforzi a favore dello sviluppo del paese…». Già durante il discorso pronunciato il 4 luglio 2006 di fronte agli ufficiali dell’Esercito, Bouteflika faceva riferimento a tale emendamento. Il tono stava già a indicare l’auspicio che tutte le strade portassero verso il ristabilimento dell’ordine costituito avviato dalle elezioni del 16 aprile 1999.

Il boicottaggio degli oppositori

Avendo capito che il regime aveva scelto di sostenere la propria stabilità, che il capo dell’Rnd associava alla « stabilità del paese », gli altri protagonisti della vita politica algerina (partiti di opposizione, personalità politiche potenziali candidati presidenziali che avevano occupato posti chiave in seno al governo) si sono resi conto che i giochi sono chiusi e che l’unico ruolo loro assegnato consiste nel dare credito a un’elezione già vinta dal candidato del regime. Conseguentemente, Hocine Ait Ahmed, capo del Front des forces socialistes (Ffs) e Saïd Saadi, Presidente del Rassemblement pour la culture e la démocratie (Rcd), hanno denunciato quello che hanno chiamato il «colpo di mano costituzionale del 12 novembre 2008», rifiutando di parteciparvi. Secondo Saadi «il boicottaggio è un dovere oltre che un’esigenza patriottica» («Le Monde», 9 marzo 2009). Dal canto suo, l’Ffs parla di una «nuova incoronazione di Bouteflika». Le altre personalità politiche potenzialmente candidabili, Mouloud Hamrouche, ex capo del governo (1989-1991), Ahmed Ben Bitour, capo del governo sotto Bouteflika per meno di un anno (carica che abbandonò sbattendo la porta), Taleb Ibrahimi, ex Ministro degli Esteri e capo del partito Wafa (non riconosciuto), e Mokdad Sifi, anche lui ex capo del governo, hanno scelto il silenzio stampa. Mouloud Hamrouche, «figlio del sistema», considerato il «riformatore», il fautore del cambiamento, ha spesso denunciato come le presidenziali del 2004 si siano svolte alla presenza di un sistema politico chiuso. Non ha tuttavia ritenuto utile dire una parola sull’«avvenimento» del prossimo 9 aprile.

Durante le elezioni del 2004 il potere era riuscito a organizzare una sorta di «competizione», con la partecipazione di Ali Benflis – all’epoca capo del Governo sotto Bouteflika, sostenuto da una frangia dell’Fln e da alcuni quadri e militanti della società civile, molti dei quali ritenevano che l’Esercito avrebbe abbandonato Bouteflika. Malgrado ciò, gli osservatori più acuti hanno parlato di un’«altra, solita, elezione chiusa». Bouteflika, sostenuto dalle organizzazioni-satellite, dai tre partiti dell’Alleanza presidenziale e dall’apparato dello Stato, ha ottenuto l’84% dei consensi, con una partecipazione al voto del 57,78% degli aventi diritto. Per le elezioni del 9 aprile prossimo è previsto un vistoso calo della partecipazione, che dovrebbe essere tra le più basse della storia delle elezioni algerine. Due sono i motivi a sostegno di questa ipotesi. In primo luogo l’assenza di candidati potenzialmente in grado di mobilitare gli elettori; in secondo luogo il marasma sociale provocato dal fallimento della politica economica e sociale intrapresa dai governi che si sono succeduti durante gli ultimi dieci anni.

I cinque sfidanti, sfidanti per finta

I cinque candidati che hanno accettato di partecipare alla corsa non dispongono in realtà di alcuna base politica e sociale, né sono conosciuti per essere in grado di occupare il posto di «comandante in capo». La più nota dei cinque, Louisa Hannoune, responsabile del Pt (Parti des travailleurs), di estrema sinistra e contraria alla globalizzazione, nel corso dell’ultima elezione del 2004 ha ottenuto 101.630 voti, pari all’1% dei votanti. Fawzi Rebaine, capo di un partito poco noto sulla scena politica, Ahd 54 (fautore della difesa dei valori della Rivoluzione del 1954), si è classificato in ultima posizione durante quella stessa elezione, con lo 0,6% dei voti. I profili degli altri tre candidati che partecipano alle elezioni presidenziali per la prima volta sono ben lungi dal suscitare la speranza di un cambiamento nell’elettorato algerino. Si tratta di Moussa Touati, capo del Front national algérien, un giovane partito che durante le ultime legislative del maggio 2007 ha sorpreso tutti, conquistando sei seggi all’Assemblea nazionale, Mohamed Said, che ha recentemente creato il partito Liberté et justice (non riconosciuto), e Djahid Younsi, segretario generale del partito islamista El-Islah (Mouvement de la réforme), fautore di un’amnistia generale senza condizioni.

Islamisti a ranghi sparsi

È opportuno sottolineare che gli islamisti «che hanno scelto di non partecipare» (in contrapposizione all’Msp di Soltani, la cui strategia prevede invece la partecipazione al gioco politico), si presentano a questa elezione a ranghi sparsi. L’unico leader islamista capace di pesare in qualche modo in questa corsa, Abdellah Djaballah, dopo una lunga e sorda guerra fratricida all’interno del suo movimento non è più capo dell’El-Islah. Gli osservatori ritengono che Djahid Younsi, candidato per l’ El-Islah, non sia sufficientemente carismatico per poter riunire tutti coloro che credono ancora nel voto islamista (i moderati, gli aderenti all’ex Fis e i pentiti), dato che tra costoro molti si sono già espressi a favore dell’attuale capo di Stato.

Ormai da quasi un anno gli elettori hanno avuto avvisaglie di quello che rappresenterà l’appuntamento dell’aprile 2009. Un’elezione senza cambiamenti e senza poste in gioco. Da quel momento nessuno nasconde il proprio disincanto. Il tasso di disoccupazione, del 13% secondo i dati ufficiali, è all’origine di tale disinteresse insieme alle necessità sociali cui non è stata data risposta. Questo problema viene considerato molto seriamente dalle autorità, che si spendono per salvare l’unica posta in gioco residua: una percentuale di partecipazione onorevole, oppure «un buon risultato per il capo di Stato che – secondo Said Saadi – sarà degno delle migliori tradizioni brezneviane».

Consapevole dell’importanza di questa posta in gioco, il governo si è lanciato in una campagna di sensibilizzazione nei confronti della popolazione, con lo slogan «non lasciate che qualcun altro decida al vostro posto». Poche settimane prima dell’avvio della campagna elettorale, il presidente candidato Abdelaziz Bouteflika ha organizzato un tour in diverse città del paese. Ha deciso la cancellazione del debito degli agricoltori per una somma di circa 41 miliardi di dinari, la creazione di un fondo di investimento di 150 miliardi di dinari, il pagamento ai lavoratori degli stipendi arretrati, il raddoppio delle borse di studio per gli universitari, l’investimento di 160 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni, ha promesso la creazione di 3 milioni di posti di lavoro e la realizzazione di più di un milione di alloggi. I tre partiti dell’Alleanza presidenziale (Fnl, Rnd, Msp), fiancheggiati dalle organizzazioni e dalle associazioni che a ogni appuntamento politico vengono chiamate alla riscossa, prendono il testimone e avviano la campagna per Bouteflika, con l’obiettivo di salvare lo scrutinio da un boicottaggio che nuocerebbe all’immagine del presidente candidato.

Un dominio politico e mediatico

Questa situazione rappresenta lo sbocco logico di un decennio caratterizzato dal dominio del potere sulla vita politica e mediatica. I partiti dell’Alleanza presidenziale si sono sostituiti all’antico partito unico e le cosiddette organizzazioni della «società civile» alle antiche organizzazioni di massa. Per quanto riguarda gli altri partiti politici e le associazioni (indipendenti), essi sono privi degli strumenti che potrebbero consentire loro di imporsi sullo scacchiere politico e di rappresentare un’alternativa all’ordine stabilito. Questo è anche il risultato di una timidissima evoluzione del sistema politico, algerino che rimane chiuso, pur in presenza di una giovane democrazia che consente la nascita di organismi politici, di associazioni e di giornali privati. Questo sistema organizza elezioni «pluraliste» senza possibilità di cambiamento. Nell’allearsi con le principali forze del regime (secondo la formula di Abdelhamid Mehri), in questo caso con l’Esercito, il presidente Bouteflika ha rafforzato in modo consistente i suoi poteri di capo dello Stato, a scapito di una vita politica aperta che consenta la nascita di alternative.

Ma Bouteflika deve comunque far fronte ai propri insuccessi. In primo luogo un’economia non produttiva, sempre più pericolosamente dipendente dagli introiti derivanti dagli idrocarburi. Introiti che sono calati di oltre il 60% dall’estate del 2008, a causa del brusco calo del prezzo del petrolio. Ciò comporterà un impatto molto negativo sulla creazione di posti di lavoro e sul soddisfacimento dei bisogni sociali che sono invece in netto aumento. È opportuno ricordare che, dal 1999, l’Algeria ha investito quasi 160 miliardi di dollari nell’economia, in particolare nelle infrastrutture di base, ma i risultati di questi investimenti tardano a farsi vedere. In secondo luogo, si può parlare di una pace minacciata dai «residuati del terrorismo». Il terrorismo è stato battuto, ma la pace totale deve ancora essere insediata. La politica della riconciliazione nazionale avviata da Bouteflika tarda a dare tutti i suoi frutti.

Altro marchio di questa elezione: il regime algerino sembra ben lungi dal rappresentare un’eccezione rispetto ai regimi arabi dominati da leader a vita, malgrado la vita politica algerina sia percepita come la più dinamica della regione. I regimi arabi sono riusciti a sviluppare degli strumenti totalitari all’interno di democrazie di facciata. Si tratta effettivamente del pugno di ferro in guanto di velluto. Essi mantengono il potere pur tollerando alcune attività «pluraliste», controllate molto da vicino, affinché non disturbino l’ordine costituito. La costruzione di un processo tangibile orientato alla crescita di una vera democrazia non è davvero vicina!

Mahmoud Belhimer è editorialista del quotidiano algerino Echourouk.

Traduzione di Silvana Mazzoni

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