Israele e Turchia, partner in crisi
Ilaria Romano 19 September 2011

L’ultimo round della partita fra Turchia e Israele si è consumato su un campo da calcio con la partita di Europa League Besiktas – Maccabi Tel Aviv, finita 5 a 1 per la squadra di Istanbul. 2500 poliziotti hanno atteso i giocatori e i pochi tifosi israeliani in un aeroporto completamente blindato nel momento di massima tensione fra i due stati.

Eppure fino a pochi mesi fa erano stati ottimi partner commerciali, con 2miliardi di dollari di scambio solo nel primo semestre di quest’anno, ed un aumento del 39% delle esportazioni israeliane verso Ankara rispetto al 2010, quando già le relazioni con la Turchia rappresentavano per Israele il 2,6 % del totale del commercio estero.

Il pretesto per lo strappo che si è consumato è contenuto in parte nel rapporto Palmer delle Nazioni Unite sull’abbordaggio israeliano alla Mavi Marmara costato nove vittime fra gli attivisti turchi filo palestinesi che lo scorso anno partecipavano alla Freedom Flotilla, diretti verso Gaza e pronti a forzare il blocco navale di Tel Aviv. Nel documento si rileva come l’esercito in quell’occasione abbia fatto ricorso ad un uso “eccessivo e non ragionevole della forza”, ma tuttavia non viene messa in discussione la legalità delle restrizioni in mare che lo stato ebraico giustifica con la necessità di impedire il traffico d’armi. Dunque, benché Israele abbia espresso “rammarico” per le vittime del raid e benché si sia dichiarato disponibile a risarcirle, per il premier Netanyahu non ci sono gli estremi per scuse ufficiali alla Turchia, come richiesto da Erdogan, visto che l’operazione è stata “condotta come azione di autodifesa e non allo scopo di colpire qualcuno”.

Ma la crisi diplomatica, che lo scorso 2 settembre ha portato anche al ritiro dell’ambasciatore israeliano da Ankara, in realtà già a fine missione, va ricondotta soprattutto a motivi di strategie regionali e rispettive politiche interne. La Turchia sta seguendo molto da vicino i cambiamenti degli equilibri in Nord Africa e Medio Oriente, come dimostra il viaggio di Erdogan in Tunisia, Egitto e Libia, i tre paesi investiti con più intensità dalla “primavera araba”. Il modello che il premier di Ankara presenta agli stati in transizione è quello di un governo laico in uno stato a larghissima maggioranza musulmana, dove islam e democrazia non siano in contraddizione. Lo scopo è di accreditarsi come esempio possibile, anche se il prezzo da pagare è il ridimensionamento della politica estera del buon vicinato, già incrinata dalla crisi siriana.

Sullo sfondo resta la questione energetica, con le riserve di gas naturale scoperte nei fondali del Mediterraneo fra Cipro, Israele, Libano, Siria ed Egitto: 450 miliardi di metri cubi secondo le società israeliane che hanno compiuto i rilievi. Il ministro dell’Energia di Tel Aviv Uzi Landau ha fatto sapere che il suo paese intende difendere il gas presente nei fondali, e la dichiarazione è arrivata proprio dopo l’annuncio della Turchia di voler inviare tre navi nel Mediterraneo, al largo di quelle coste, ufficialmente per scortare imbarcazioni in transito nei pressi del blocco navale. Un tassello della politica energetica che per Ankara riapre anche la questione turco-cipriota.

Dall’altra parte, Israele deve affrontare anche le difficoltà con il nuovo Egitto lungo un confine particolarmente caldo come il Sinai, proprio mentre l’Autorità Nazionale Palestinese si prepara all’audizione per il riconoscimento dello stato entro i confini del 1967 davanti alle Nazioni Unite. In attesa del 20 settembre, anche l’Unione Europea si sta muovendo per cercare una posizione comune sul tema e la proposta è di indurre l’Anp a rivolgersi all’Assemblea Generale dell’Onu e non al Consiglio di Sicurezza, per richiedere inizialmente solo il titolo nominale di “stato non membro”. Una soluzione che il governo israeliano ha già bollato come “sgradita”.

Infine, le pressioni allo stato ebraico arrivano anche dall’interno, con le manifestazioni di piazza dei cittadini indignati dalle politiche liberiste del governo in un momento di crisi sociale. Il 4 settembre scorso in 400mila sono scesi in strada a Tel Aviv e hanno chiesto le dimissioni di Netanyahu. Era già accaduto nel mese di agosto, quando il corteo degli studenti si era trasformato in una mobilitazione di 300mila persone. Un crollo di consenso interna evidenziata anche da un sondaggio d’opinione del quotidiano Yediot Ahronot, secondo il quale almeno il 45% degli israeliani teme per il futuro della democrazia nel suo paese.

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