E’ possibile un Gandhi musulmano?
Ramin Jahanbegloo 20 January 2009

Questo è il testo presentato dall’autore ai Seminari di Istanbul, organizzati a Istanbul da Reset Dialogues on Civilizations dal 2 al 6 giugno 2008.

Di Ramin Jahanbegloo esce in questi giorni esce nelle librerie italiane Leggere Gandhi a Teheran (I libri di Reset, Marsilio).

Tutti conoscono il fondamentale interrogativo ontologico: “perché esiste la vita, la vita anziché il nulla?” Ma c’è un’altra fondamentale domanda filosofica alla quale la razza umana non è stata in grado di rispondere: “Perché esiste la violenza, la violenza anziché la nonviolenza?”. Il mondo in cui oggi viviamo assiste a conflitti e violenze su larga scala. Gente innocente perde la vita e tanti sono obbligati a lasciare la propria casa. In un tale scenario, si avverte un profondo bisogno di pace e di nonviolenza. Benché molti siano scettici circa la rilevanza della nonviolenza nel mondo di oggi, alcune persone continuano a credere che essa, in un’epoca di terrorismo e di proliferazione nucleare, sia importante. Mentre le sfide e i pericoli globali aumentano, sembra crescere anche l’impegno nonviolento. In un mondo oppresso dalle guerre come è quello di oggi, la nonviolenza ha una straordinaria opportunità: mentre l’esperienza non è in grado di dimostrare il fallimento della nonviolenza, al contrario l’ insuccesso della violenza ha fornito in molti casi la prova di sé.

Quella della nonviolenza non è una scelta facile. Nel momento in cui scegliamo la nonviolenza come parte integrante della nostra società, dobbiamo essere consapevoli dell’abisso che dovrà dividere la violenza quotidiana sperimentata fino a questo momento, e il modo in cui dobbiamo organizzare la nonviolenza da oggi in poi. Detto questo, qui non abbiamo a che fare con un’utopia ma con una deliberata ed efficace lotta contro il male della violenza. E qui possiamo notare che gli individui religiosi hanno spesso svolto un ruolo importante nel controllare il livello della violenza e nell’opporsi ad essa, sia all’interno della loro comunità che al di fuori di essa. E’ vero che le comunità religiose giustificano l’uso della violenza da parte dello Stato e, di fronte agli atti di violenza, restano spesso in silenzio. Ci sono molte ragioni per questi comportamenti, inclusa la preoccupazione per la sopravvivenza della loro stessa dottrina o semplicemente a causa di un modo dogmatico e monastico di guardare al concetto di Verità e di Dio.

Alcune tradizioni religiose hanno un’immagine violenta del Divino, che può implicare un’interpretazione severa e dura della realtà e una formulazione del valore della propria fede in termini di svalutazione della fede altrui. Benché nel corso dei secoli migliaia di persone siano state uccise in nome della religione, non si può negare che alcune figure religiose come Buddha, il Mahatma Gandhi o Martin Luther King Jr. abbiano svolto un ruolo positivo nel liberare la cultura dall’odio e dalla violenza ed abbiano contribuito a sviluppare il senso dei valori morali e dell’amore per gli altri. La vita e il pensiero dei profeti della nonviolenza forniscono un quadro di bellezza e moralità entro il quale è possibile pensare diversamente nel nostro violento ordine contemporaneo e in un mondo così pericoloso. Un quadro in cui le preoccupazioni per la vita nostra e degli altri si colloca tra la scelta della moralità e quella della violenza.

Tutte le culture hanno come obiettivo e come ideale la prima, ma finiscono per dare forma compiuta e per conservare e legittimare la seconda. E’ qui che tra l’ideale morale dell’umanità e la sua storia di realtà violenta compare un terzo elemento. Tale elemento intermedio è l’attività dei nonviolenti che nasce dal cuore delle culture violente. Questo è certamente un paradosso, un paradosso razionale e logico, ma non spirituale. E’ un qualcosa che ha a che vedere con il fatto che la nonviolenza costituisce, più che un’evoluzione morale e spirituale della fede, una sua parte imperativa. E’ in questo contesto che si può comprendere quando Gandhi affermava che “le sole persone della Terra che non considerano Cristo e i suoi insegnamenti come nonviolenti sono i cristiani”. In altre parole, la nonviolenza è un imperativo morale che si fonda non sulle strutture dogmatiche e istituzionali delle religioni ma sulla lettura e nell’approccio individuale a quelle religioni.

La “voce interiore” di Gandhi

La missione di Gandhi non fu quella di politicizzare la religione ma quella di spiritualizzare la politica, volendo egli legare alla morale le azioni quotidiane compiute nella sfera pubblica. Questa è la ragione per la quale, nella sua visione, la moralità è apprezzata da quasi tutte le grandi religioni del mondo. Gandhi credeva che ogni individuo potesse trovare al cuore di ogni religione, la Verità (satya), la nonviolenza (ahimsa) e la Regola d’Oro. Questo è il motivo per il quale egli era critico verso l’ipocrisia delle religioni organizzate e non verso i principi sui quali esse si basano. Nella sua visione, la Verità è tanto più importante e più potente della religione stessa. Egli affermò che “la Verità è Dio”, intendendo dire che Dio è un aspetto della Verità (satya). Secondo Gandhi, la Verità intesa come Dio, vive dentro di noi. E’ quella piccola voce che ci dice cosa fare e al tempo stesso guida l’universo. La “voce interiore” di Gandhi è l’equivalente del daimon di Socrate, un autorità superiore alle leggi umane.

“Per me”, dice Gandhi, “la voce di Dio, della Coscienza, della Verità o la Voce Interiore significano un’unica cosa…Per me questa voce é più reale della mia stessa esistenza. Non mi ha mai abbandonato, né ha mai abbandonato nessuno”. Inoltre, Gandhi parla della voce interiore come di una forza dell’Anima che ha il potere di suscitare in noi il Divino, al contrario della fedeltà ai dettami della religione organizzata. Quella voce afferma il nostro impegno alla nonviolenza poiché la sua natura compassionevole ci conduce verso uno scambio dialogico con noi stessi e con gli altri. La voce interiore, inoltre, può essere descritta come una sorta di intuito spirituale che aumenta la capacità di distinguere tra il bene e il male. Vale a dire, l’individuo è invitato ad agire dalla propria voce interiore e non vi é obbligato in risposta all’ambiente esterno. Una cosa da tenere a mente, e che molti invece sembrano dimenticare, è che Gandhi era un uomo normale, come voi e me. Egli commetteva degli errori, come tutti, ma nella sua imperfezione aveva il coraggio di seguire sempre la propria voce interiore. Tuttavia, ciò che distingue il Mahatma Gandhi dagli altri pensatori religiosi è che il suo spirito nonviolento si fondava sulla realizzazione interiore della spiritualità. Per Gandhi, la nonviolenza non era semplicemente una tattica politica ma autentica spiritualità e un modo di vivere.

La spiritualità della nonviolenza

In effetti, si potrebbe dire che il principale contributo di Gandhi alla spiritualità sia proprio la nonviolenza. Questo è il modo in cui egli sfidava gli uomini di fede a riconoscere le loro ipocrisie religiose. Gandhi sosteneva che una persona che crede nella Verità e in Dio non possa un giorno andare alla moschea, alla sinagoga, al tempio o in chiesa e il giorno successivo nutrire odio e violenza. Inoltre, per Gandhi lo spirito nonviolento deve essere applicato a tutti gli aspetti della vita. E’ interessante vedere quanto egli fosse capace di influenzare i credenti di altre religioni, liberando in tutti loro le dinamiche spirituali. Attraverso la sua “soft reading” delle scritture indù, ma anche cristiane e islamiche, Gandhi ha risvegliato la nonviolenza attiva presente in tutte le religioni. Pertanto egli pensava che la fede ci spinge tutti, cristiani, ebrei e musulmani, a favorire la pace e i cambiamenti sociali nonviolenti. Per lui, i principi fondamentali della religione non sono soltanto dei pii ideali ma le vere leggi dell’agire nel mondo. Forse è questa la ragione per la quale Gandhi sfidò i credenti delle diverse religioni a trovare Dio attraverso la ricerca attiva della verità e della nonviolenza, anziché facendosi interpreti pedanti delle scritture indù, musulmane o cristiane. Gandhi ebbe la fortuna di avere come collaboratori persone appartenenti a religioni diverse.

Maulana Abul Kalam Azad e Khan Abdul Ghaffar Khan

Tre esempi importanti sono C.F. Andrews, Maulana Abul Kalam Azad e Khan Abdul Ghaffar Khan. Sebbene non sia un segreto la familiarità di Gandhi con l’islam e la sua ammirazione per il profeta Maometto, bisogna anche ricordare l’influenza diretta che ebbero su di lui attivisti musulmani nonviolenti come Ghaffar Khan e Maulana Azad. Molti storici hanno trascurato il fatto che Gandhi aveva una grande stima per l’islam e lo considerava una religione di pace, amore, gentilezza e fraternità tra tutti gli uomini. Come ebbe a dire a questo riguardo lo stesso Gandhi, “io considero l’islam una religione di pace nello stesso senso in cui lo sono il cristianesimo, il buddismo e l’induismo” (Young India, 10/07/1924). Gandhi era colpito positivamente anche dai codici di comportamento personale e sociale prescritti dall’islam, come la preghiera, il digiuno e la carità.

Questa attitudine rispettosa di Gandhi verso l’islam non fu né una questione di pragmatismo politico, né un atteggiamento funzionale allo scopo di favorire l’ unificazione di indù e musulmani durante la lotta per l’indipendenza; essa andò ben oltre la comprensione filosofica dell’essenza stessa dell’islam. “La lettura del Corano mi ha convinto che il fondamento dell’islam non è la violenza ma la Pace assoluta”, disse il Mahatma Gandhi. “Questo considera l’indulgenza superiore alla vendetta. La stessa parola <islam> significa <pace>, cioé nonviolenza. La mia esperienza dell’India mi dice che indù e musulmani sanno come vivere in Pace tra loro. Rifiuto di credere che la gente abbia perduto le facoltà mentali, al punto da non poter vivere in pace gli uni accanto agli altri, come si è fatto per generazioni. L’inimicizia non può durare per sempre”. Gandhi era convinto che nel mondo islamico, come nella religione indù e nel cristianesimo, ci fossero uomini e donne che, avendo una natura morale, agivano nel mondo in modo non violento e pacifico.

Forse è questa la ragione per la quale Gandhi trovava in quei musulmani più che dei semplici combattenti per l’indipendenza, degli elementi che potenzialmente avrebbero potuto limitare le tensioni settarie e quelle tra comunità. Come lo stesso Gandhi, quei leader musulmani combattevano per mettere in luce le risorse insite nelle loro tradizioni religiose, le quali potrebbero contribuire alla creazione di movimenti nonviolenti, pur lottando essi per denunciare e ripudiare le forze violente insite in quelle tradizioni. In realtà, quando consideriamo la vita e il pensiero di alcuni di quei leader musulmani che collaborarono con Gandhi per riportare l’India verso l’indipendenza, comprendiamo che l’affermazione fatta da tanti in Occidante, dopo l’11 settembre, secondo cui “non esiste un Gandhi musulmano”, deriva dal non conoscere personalità come quella di Maulana Azad e di Abdul Ghaffar Khan, e non invece da una presunta assenza di attori intellettuali e politici nonviolenti all’interno della tradizione islamica.

Come Gandhi riteneva che l’induismo fosse fondato sull’ahimsa non- violenta, così Abdul Ghaffar Khan reinterpretò il suo islam come una tradizione fondata sulla nonviolenza. Per entrambi i riformatori, la sistematica trasformazione sociale nonviolenta era una questione di fede. “La mia nonviolenza è diventata per me quasi una questione di fede”, spiegava Ghaffar Khan. “Credevo nell’ahimsa di Gandhi già da prima: Ma il successo senza pari dell’esperimento effettuato nella mia provincia ha fatto di me un paladino convinto della nonviolenza…Di certo non vi è nulla di sorprendente nel fatto che un musulmano o un pathan come me aderisca a tale dottrina. Non si tratta di una dottrina nuova. Quattordici secoli fa la seguì il Profeta per tutto il tempo in cui si fermò alla Mecca. E da allora è stata seguita da tutti coloro che vogliono liberarsi del giogo degli oppressori. Ma quando il Mahatma Gandhi l’ha riproposta, l’avevamo dimenticata e abbiamo creduto che si trattasse di una nuova dottrina o di un’arma nuova” (Tendulkar, 93-94).

La fede profonda di Ghaffar Khan nella veridicità e nell’efficacia della nonviolenza, derivava dall’intensità della sua esperienza dell’islam. Nella sua visione, l’islam é servizio, fede e amore disinteressati. Egli sottolineava come “senza questo, definirsi musulmani è come un rame risonante o uno squillante cembalo” (Tendulkar, 48). Come voce musulmana della tolleranza, Ghaffar Khan fu venerato dal Mahatma Ghandi che considerava lui e i suoi seguaci Pathan un esempio del coraggio necessario a vivere una vita nonviolenta. In un tempo come il nostro in cui si tende ad associare il mondo islamico alla violenza, è bello sapere che nel Ventesimo secolo sono esistite delle persone che ci hanno aperto all’idea che l’islam possa essere in armonia con la nonviolenza. Se l’esempio di Ghaffar Khan fosse più noto, il mondo potrebbe ammettere che essere musulmano ed essere nonviolento non sono due condizioni incompatibili. In un’intervista rilasciata nel 1985, Abdul Ghaffar Khan diceva: “ Credo nella nonviolenza e sostengo che non ci sarà pace né tranquillità per i popoli della Terra fino a quando non si praticherà la nonviolenza, perché essa è amore e risveglia il coraggio dei popoli”. Ma Abdul Ghaffar Khan non fu l’unico musulmano ad esplorare una nonviolenza sistematica nella sfera sociale e politica. Anche altri leader musulmani che hanno collaborato con Gandhi, e tra loro Maulana Abul Kalam Azad, si sono opposti alla violenza. Azad era un musulmano pluralista perché, nella sua visione, “ritornare alla devozione verso un unico Dio” non significava la conversione ad una particolare religione. Al contrario, egli considerava la molteplicità delle religioni una cosa positiva e l’unico scopo della religione, per lui, era l’unità nella diversità.

“L’unità del genere umano è l’obiettivo principale della religione”, scrive Azad nel suo famoso libro Tarjuman al-Qur’an. “Il messaggio che ogni profeta ha trasmesso è che l’umanità non è in realtà che un unico popolo e una sola comunità, e che non c’è che un unico Dio per tutti, e che pertanto gli uomini, insieme, dovrebbero servire Dio e vivere come i membri di una famiglia. Questo è il messaggio che trasmette ogni religione. Ma stranamente i fedeli di ogni religione lo hanno ignorato al punto che ogni Paese, ogni comunità e ogni razza si è costituita in un gruppo separato ed ha elevato il “gruppismo” alla condizione di religione…”( Azad, Tarjuman al-Qur’an, 1: 168-72). Tracciando un parallelo tra i concetti del Sufismo e l’idea di unicità della Realtà, espressa nelle scritture indù, Azad affermava che “le differenze esistenti tra una religione e un’altra non sono differenze che riguardano lo spirito essenziale della religione, ma semplicemente la sua forma esterna” (Tarjuman al-Qur’an). Pertanto, l’umanesimo islamico di Azad lo ha condotto a opporsi fieramente allo sciovinismo e al fondamentalismo islamico e indù, che non concedevano spazio ad un autentico pluralismo religioso. Nel 1913 egli scrisse sul suo giornale, al-Hilal: “L’islam non predica la grettezza e il pregiudizio razziale e religioso. Piuttosto, l’islam ci insegna a rispettare ogni uomo di buona volontà, qualunque sia la sua religione, e ad essere attratti dai meriti e le virtù, qualunque sia la religione o la razza della persona che li possiede. Se gli esseri umani devono essere liberi dai pregiudizi religiosi, in che misura Dio stesso deve essere al di sopra di queste debolezze?”.

Maulana Azad evidentemente accettava i principi della nonviolenza e condivideva il movimento nonviolento del Mahatma Gandhi. Il risultato finale fu l’esplicito sostegno della convivenza pacifica tra indù e musulmani in un’India indipendente. Naturalmente, Azad non riuscì a convincere Muhammad Alì Jinnah a desistere dalla creazione del Pakistan, processo che si rivelò estremamente violento. Questa vicenda illustra in che modo l’islam sia sempre stato usato sia per scopi violenti che nonviolenti. Inoltre, nessuno nega che la storia della vita di Ghaffar Khan e Maulana Azad é la storia della sfida dei musulmani nel rapporto con la violenza e la nonviolenza. Ciò prova anche che l’azione non violenta potrebbe essere coerente con i principi islamici. E’ nello spirito di Azad e di Ghaffar Khan che il mondo islamico dovrebbe incoraggiare la trasformazione socio-politica attraverso mezzi nonviolenti, promuovendo la tolleranza e l’accettazione del pluralismo e della diversità.

La tradizione musulmana della nonviolenza

Il problema principale che oggi l’islam si trova ad affrontare è, per ciò che vedo, che i musulmani hanno quasi completamente dimenticato la tradizione nonviolenta. Una conseguenza di questa dimenticanza è che, malgrado tutti i loro sforzi politici, i musulmani non hanno compiuto alcun passo in avanti. Anzi, ciò che possedevano, in termini di potenziale di civiltà, è stato perduto dalla violenza del fondamentalismo islamico. Tuttavia, ci sono ancora speranze per credere che una strategia per un’azione musulmana nonviolenta, elaborata da Maulana Azad e da Abdul Ghaffar Khan, possa avere applicazione nei conflitti di oggi, dove il cambiamento è auspicabile ma dove i mezzi violenti risultano spesso autodistruttivi. Se l’immaginosa leadership musulmana oggi sapessero ispirarsi ai contributi nonviolenti di individui come Ghaffar Khan e Maulana Azad, anche nel contesto in cui le reazioni violente possono apparire giustificate, sarebbe possibile gestire senza grandi pericoli per la razza umana la tensione tra le diverse comunità etniche o religiose.

Oggi, in gran parte del mondo, l’islam ed i musulmani vengono considerati un equivalente del terrorismo. Esiste un’immagine stereotipata secondo la quale islam e nonviolenza non possono coesistere. Siamo onesti: molti di noi, quando pensano all’islam, non pensano alla nonviolenza ma piuttosto ai “terroristi islamici” che compiono attentati suicidi o agli “estremisti islamici” che fanno esplodere aerei ed edifici. La verità è che nell’islam, come in tutte le grandi religioni, esistono fondamentalisti ed estremisti che manipolano ciò che è scritto nel loro libro sacro allo scopo di giustificare le proprie azioni violente e il proprio terrorismo. In effetti, il fondamentalismo moderno, sfociato in azioni violente, nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam si è presentato come una forma di resistenza al mondo laico ed ateo, scatenando una reazione contro i simboli della modernità, come gli edifici commerciali, le stazioni ferroviarie o le metropolitane. E’ arrivato il momento che i musulmani liberali e moderati creino un’immagine nuova dell’islam come una religione compatibile con il mondo moderno e capace di interagire con l’Occidente e di coordinarsi con le norme internazionali. Perciò, è nell’interesse delle società islamiche e dei musulmani in generale cambiare la percezione di religione violenta che il mondo ha dell’islam, cambiando il modo in cui le loro società spesso tentano di risolvere le differenze tra loro e gli altri. Non si tratta di una forma di ipocrisia o di un modo per sottovalutare il potenziale civilizzatore dell’islam, ma di un atteggiamento critico necessario a migliorare le condizioni sociali e politiche all’interno del mondo islamico.

Molto spesso, i musulmani protestano contro gli argomenti simili a quelli che sto suggerendo. Tuttavia, usando la violenza come modus vivendi sociale e politico, molti musulmani mettono i loro giudizi morali e i loro argomenti filosofici sullo stesso piano di ciò che criticano e respingono, considerandolo ingiusto ed inumano, e questo, per definizione, li colloca ad un livello morale altrettanto o persino più basso. Questo non è un gioco su cui puntare; nei Paesi musulmani che hanno scelto la violenza contro i loro cittadini o contro gli altri, le violazioni delle libertà individuali sono pratica quotidiana. La maggior parte delle società musulmane sono oppresse dalla povertà, dalla corruzione e dalle disparità sociali endemiche dei Paesi in via di sviluppo. Tali frustrazioni si esprimono in termini di “fondamentalismo” religioso, dal momento che i movimenti tendono anche a sostenere le rivoluzioni sociali e politiche. L’altra dimensione dei movimenti “fondamentalisti” è più esterna che interna. I fondamentalisti islamici percepiscono l’Occidente ed i suoi alleati come i responsabili di politiche imperialiste dirette a sopprimere politicamente ed economicamente le popolazioni musulmane. La rabbia verso tali politiche occidentali alimenta l’estremismo religioso e le opinioni regressive sulla violenza in tutto il mondo islamico, il quale potrebbe invece efficacemente mettere a tacere le interpretazioni non violente dell’islam. Poiché sembrano non esistere risposte efficaci alle sofferenze del popolo iracheno, palestinese o afgano, l’opinione pubblica musulmana viene facilmente convinta che le strategie violente rappresentano l’unica soluzione. Coloro che suggeriscono una via diversa, purtroppo, perdono legittimità.

Interpretare, oggi, Gandhi come un “problematizzatore” della violenza e della modernità nei Paesi musulmani, li aiuta a problematizzare la nonviolenza di Gandhi in quei Paesi. Pertanto, le aspre critiche espresse dal Mahatma nei confronti della tradizione e della modernità offrono una base teoretica ad una critica nonviolenta della violenza nella teologia musulmana e nella filosofia politica. In altre parole, per elaborare un approccio islamico alla nonviolenza che sia dialogico e pluralistico, è necessario avvicinarsi ai modelli occidentali di costruzione della pace e di risoluzione dei conflitti, basandosi sui modelli contemporanei di pace e nonviolenza nel mondo musulmano. Il ritorno a figure come quella di Khan Abdul Ghaffar Khan e di Maulana Azad significa accettare l’invito di Gandhi all’autoesame e all’autocritica. Le conseguenze di un simile processo sono certamente imprevedibili, ma considerata la visione gandhiana secondo la quale nessuno possiede tutta la verità e la verità emerge in un incontro dialogico tra gli individui, la creazione di un nuovo Gandhi musulmano nel Ventunesimo secolo resta una sfida. Tuttavia, come diceva Martin Luther King , “la vera misura di un uomo non si vede nei suoi momenti di benessere e di comodità ma nel momento in cui deve affrontare sfide e difficoltà”.

Traduzione di Antonella Cesarini

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