“I rumeni? L’integrazione non si fa con le ruspe”
20 November 2007

La paura verso lo straniero scaturisce sempre da un mix di elementi soggettivi ed oggettivi. Il caso Reggiani, secondo lei, è sintomo di un’emergenza reale? Quanta oggettività c’è nella reazione collettiva che ne è seguita e quanto, invece, ci troviamo di fronte a proiezione di sentimenti pur legittimi, ma magari di altra natura?

Dobbiamo avere il coraggio di andare al di là dell’emozione. Un’emozione vera, come quella che nasce dalla morte di una donna mite e pacifica che lavorava con i bambini, e dunque giusta, legittima, senza la quale, anzi diventeremmo più disumani. Ma questo sentimento è composto anche dalla profonda insicurezza del nostro mondo, ricco ma sperduto nella vertigine della globalizzazione. La gente è insicura. Vent’anni, trent’anni fa ci sentivamo una civiltà, oggi la gente non sa cos’è l’Italia e cosa significa essere italiani nel mondo.

Ma esiste, secondo lei, una questione sicurezza?

I problemi di sicurezza e di convivenza ci sono, eccome. Ma vanno ad ondate. Li abbiamo visti coi musulmani, con gli albanesi (negli anni Novanta sembrava che l’Italia ne sarebbe stata invasa), oggi con i romeni. Il problema romeno, comunque, nasce anche da una distrazione grave, ossia dal fatto che non si era previsto che essi si sarebbero scaricati in Italia con l’apertura delle frontiere: una cosa che desta meraviglia, perché mentre sono anni che stiamo creando allarme sulla Turchia, dicendo che se entrasse in Europa migliaia di turchi si riverserebbero da noi, non si è fatto un analogo ragionamento con la Romania: un grande paese contadino, traumatizzato dalla storia di un comunismo terribile.

Lei crede dunque che debba esserci un limite alla circolazione dei cittadini Ue, in particolare a riguardo di alcuni paesi? Ma questo non comporterebbe l’attribuzione di un maggior grado di “pericolosità” ad un popolo?

No, certo: come facciamo a fare questo tipo di ragionamento? Bisognava pensarci prima, ma oggi non si può attribuire ad un popolo, quello romeno, il marchio delinquenziale, quando la nostra esperienza è che i romeni sono facilmente integrabili (dopo cinque anni sembrano italiani, lavorano nelle nostre case, sono badanti ai nostri anziani), insomma c’è un giudizio complessivo buono. È vero che ci sono persone che hanno creato dei gravi problemi. Però va detto che l’alto tasso a delinquere dei romeni dipende anche dal fatto che sono tantissimi. E comunque nel punire, bisogna agire sulle persone singole, mentre quello che si può fare sui gruppi è un grande lavoro di prevenzione e integrazione: laddove è stato fatto questo lavoro, i romeni si sono integrati bene. Dobbiamo anche far sì che la Chiesa ortodossa romena si installi in Italia e segua i suoi fedeli, perché devono essere gli stessi romeni ad aiutare questo processo.

Ritiene che il pacchetto sulla sicurezza varato dal governo contenga misure adeguate? Cosa pensa, ad esempio, della possibilità che venga espulso chi delinque ma anche chi non ha reddito?

Sono molto perplesso sull’espulsione di chi non ha reddito, perché penso che, così, si può fare di ogni erba un fascio. Tra l’altro, espellere le persone non serve a molto, perché in quanto cittadini Ue possono comunque rientrare. In breve, stiamo attenti a non far vedere solo i muscoli per fare contenta la pancia del nostro paese. Il problema sicurezza va affrontato in due modi. Il primo è, certamente, punire i criminali, tenendo gli occhi aperti su questi ambienti, integrando le persone, etc. Il secondo è combattere il malessere dell’insicurezza, che trova il capro espiatorio nello zingaro, nello straniero. Per far questo bisogna provare a ridire agli italiani cosa significa essere italiani e all’Italia a cosa serve l’Italia. Fino agli anni Novanta, i partiti politici spiegavano ai cittadini, ai militanti, qual era il futuro, i programmi, a che servivano la loro lotta e le loro battaglie. Oggi, invece, noi ci troviamo di fronte ad un paese più ricco, ma più demotivato, ed estremamente spaventato. Questo è un problema di fondo, su cui bisogna ragionare e operare. Ad ogni modo, sono convinto che sia profondamente scorretto e falso usare il problema immigrazione come una carta nel dibattito politico urlato. L’immigrazione è una grande questione nazionale, proprio com’era fino alla prima metà del ‘900 la questione dei confini del nostro paese. Come non si poteva discutere allora dell’appartenenza di una regione all’Italia a colpi di maggioranza o di opposizione, anche oggi bisogna fare dell’immigrazione una questione bipartisan, da affrontare freddamente, ragionevolmente, nell’interesse del paese. Lo stesso vale per l’immigrazione. È una questione nazionale, che richiede una svolta epocale e una visione lungimirante. Se invece continuiamo a vellicare le paure della gente, la politica resterà sconfitta. Il centrosinistra per primo, perché allora la gente dirà: meglio l’originale.

Ma come operare una selezione di chi accogliere? Come distinguere tra “coloro che sono a posto” e coloro che non lo sono, quando le situazioni sono sempre molto più ibride e confuse (ci sono ad esempio tante rumene che lavorano e magari hanno mariti disoccupati e alcolizzati)?

Se applicassimo gli stessi criteri che usiamo per gli stranieri agli italiani chissà dove andremmo a finire. Guardi il delitto di Perugia! Se uno ha il marito ubriaco, lo buttiamo fuori? Bisogna lavorare per integrare, senza isolare le persone, punire i criminali, infine rispondere più in profondità al bisogno di sicurezza. La stabilità del governo, una buona politica, la capacità di parlare al paese sarebbero risposte ben più sostanziali alle insicurezze degli italiani che la promessa «Noi reprimeremo etc etc». Usare le espulsioni per placare la paura è inutile; piuttosto serve un grosso lavoro con il governo e le autorità rumene. Ma la cosa più importante è non contrapporre mai italiani e romeni, o romeni contro rom, anche in Romania la presenza degli italiani è molto forte, siamo un partner commerciale importante. Purtroppo, in questa Europa sempre più in decadenza sta riemergendo l’uso di categorie nazionali, come il recente caso della separazione tra fiamminghi valloni e in Belgio dimostra. Sono molto preoccupato per quest’ultimo fatto, che la stampa ha praticamente ignorato.

Ma secondo lei, una integrazione felice e armoniosa è possibile? È vero, gli immigrati vanno a coprire quei lavori che resterebbero senza manodopera. Ma dal punto di vista sociale, il nostro sistema è in grado di reggere un arrivo così massiccio?

Il nostro sistema ha bisogno di immigrati, questo è un dato di fatto. Vengono perché abbiamo bisogno di loro, oltre naturalmente al fatto che sono in cerca di lavoro loro stessi; e oltre al mito dell’America, purtroppo molto diffuso in Romania. Mi ricordo quando si aprirono le frontiere dell’Albania: tutti si scatenarono perché avevano visto l’Italia in televisione. La nostra è una civiltà forte, che ha la capacità di attrarre. Così, per molti c’è un passaggio da una ruralità primitiva ad un’urbanità come quella di Roma. Una vera e propria capriola, che ha un impatto sempre difficile: il problema, infatti, è evitare la creazione di ghetti.

Eppure questo è quello che, spesso, succede.

Non sempre. L’immigrazione italiana non ha avuto queste conseguenze. Quella portoghese in Francia neppure, e neanche quella polacca. Forse l’integrazione più problematica da questo punto di vista è quella dei cinesi. Certo poi ci sono gli zingari, che sono molto difficili da inserire, anche perché a causa del grave antigitanismo nella nostra società. Nessuno ha mai versato una lacrima (né una lira) per i 300.000 nomadi uccisi nei campi di sterminio. Ma i rom sono anche cittadini italiani, quindi se non delinquono possono vivere anche da nomadi. Nella nostra società sopportiamo tutte le differenze, perché la loro diversità è così orribile? Poi c’è il discorso della politica dei campi, dove qualche volta ci sono trafficanti di droga. Lì bisogna intervenire, ma quando io vedo l’esaltazione maschia dei bulldozer che sventrano i campi mi vengono i brividi, mi ricorda quando Marchais guidava un cingolato per abbattere le casupole nella banlieue di Parigi. Il problema degli zingari va affrontato, ma ricordiamo che si tratta di una piccola minoranza, perseguitata anche in Romania, e verso la quale le politiche più efficaci sono quelle che investono sui giovani e i bambini, per controllare che vadano a scuola e che le loro famiglie siano in grado di curarli adeguatamente.

Che ruolo hanno i media in tutto ciò? L’emergenza si crea a livello collettivo per venir catalizzata da tv e giornali, oppure al contrario, questi creano ex novo, in sinergia con la politica, una vera e propria realtà, magari fittizia?

Oggi la politica si fa con un mix di tv, urla e gioco di contrapposizione. C’è un livello gridato che fa salire i toni e non rende facile né governare né dibattere da posizioni differenti. Un giorno sembra che si stia per morire per una cosa, domani quella stessa cosa si dimentica. C’è una eccessiva emotività che nasce dallo spaesamento e dalla scarsa conoscenza delle effettive difficoltà. La buona politica è un mix di realismo lucido e di ideali: anche di questi ultimi abbiamo bisogno, perché bisogna che i politici dicano in cosa credono e dove vogliono portare questo paese. Prendiamo il discorso dell’Europa: ci crediamo ancora?

Il caso Reggiani ha portato alla luce il problema del degrado e della povertà, ma non solo degli stranieri. Chi si fa carico della povertà nel mondo di oggi? Perché, drammaticamente, la Chiesa continua ad essere l’unico operatore sociale presente, a riguardo di un problema che dovrebbe essere di pertinenza tutta politica?

Il problema che lei solleva è drammatico. Io lo vedo nelle nostre mense e centri di accoglienza: c’è una pauperizzazione dei ceti medi, una mancanza di reti; basta un litigio, la perdita della casa, si finisce per diventare asociali, perdere il lavoro. Due sono i problemi, enormi. Il primo è quello della casa, oggi diventata d’oro. Quella dell’edilizia pubblica è una grande vergogna nazionale, che fa rimpiangere la prima repubblica e il piano Fanfani per la casa. Il secondo è il cibo, che costa sempre di più. Ad ogni modo, non ho una visione drammatica del paese. L’urlo catastrofista è un’utopia, è un modo per attrarre e canalizzare attenzione, quando poi non si può far nulla. Altro che gridare «al lupo, al lupo». Quello che occorre davvero è un intervento graduale, che non criminalizzi nessuno. Quando sento dire che i romeni sono tutti delinquenti, mi aspetto subito che il giorno dopo si dica che la colpa è tutta degli ebrei. E poi magari dei cristiani. Dove si finisce, così?

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