Chi si divide perde nel mondo globale
Giuliano Amato intervistato da Alessandro Barbano 31 July 2008

Questa intervista è stata originariamente pubblicata dal quotidiano Il Messaggero, il 21 luglio 2008 a pagina 2, con il titolo “Italia ed Europa stesso rischio. Chi si divide perde nel mondo globale”.

Fino a pochi mesi fa sembrava che l’impasse di organismi internazionali come la Ue e l’Onu sortisse effetti interni al destino di queste istituzioni. La crisi economica mondiale ha proiettato queste emergenze dentro la società con una velocità che suscita nell’opinione pubblica mondiale paura e disorientamento. Ha ancora senso oggi, presidente Amato, parlare di costruzione europea, o prevale invece il timore che sia troppo tardi?

No, anzi è il tempo di stringere i tempi di questa costruzione, secondo quella missione che i cittadini assegnano all’Europa. Purtroppo dopo la mancata ratifica irlandese del trattato di Lisbona, tornano in campo stereotipi da discussioni esistenziali. Di quelle che si fanno dallo psicanalista: si dice che l’Europa è lontana dai cittadini, non ha più missione, né lo spirito dei padri fondatori. Non è così. Se oggi mancano le emozioni forti di una temperie postbellica, l’Europa non è scomparsa dalla coscienza dei cittadini. Anzi, essa si è tanto radicata da rappresentare l’ultimo livello di governo di un sistema che stimola aspettative differenziate, a seconda che esse siano riposte sull’azione dei singoli stati o piuttosto sull’azione sovranazionale dell’istituzione europea. All’Europa i cittadini chiedono di affrontare le questioni portate dalla globalizzazione, l’immigrazione, il terrorismo internazionale, la sfida energetica, il cambiamento climatico. Se esprimono critiche, è perché non si ritengono soddisfatti abbastanza della risposta a queste istanze. Allo stesso modo esprimono insoddisfazione per i loro Stati se questi non rispondono a domande che riguardano le pensioni, il welfare e l’educazione.

Jacques Attali in Francia e Giulio Tremonti in Italia individuano nella dittatura del mercatismo la ragione della crisi dell’Occidente. Di più, essa pare a entrambi, sia pure con sfumature diverse, crisi di identità in un senso quasi antropologico, quale effetto di un percorso della storia occidentale giunta ad un punto di confine. Condivide questa analisi?

A volte ci sono modi di presentare i fenomeni che servono a chiarire alcuni termini essenziali dei problemi. Credo che la metafora del mercatismo risponda a questa esigenza. Tuttavia, il mondo oggi tutto mi pare fuorché un luogo in cui le libere forze del mercato dominano. La Cina è forse tale? Lo è Gazprom? Lo sono i fondi sovrani? In realtà il mondo globale mixa in un insieme di interazioni libertà di mercato e dominio dei monopoli, iniziativa privata e impulsi pubblici. In un crescente e debordante disordine. Quando cadde il muro di Berlino e Francis Fukuyama commise l’errore di pensare che la storia fosse finita, in Occidente prevalse l’idea che il mondo sarebbe andato verso un ordine economico e politico convergente, segnato dai nostri valori. Non è accaduto questo. Anzi, c’è stato uno slittamento del potere verso altre aree, per cui oggi in questo impasto stanno entrando impulsi non solo economici, ma anche culturali e valoriali, espressivi di universi diversi dal nostro. Ecco perché i richiami di Attali e di Tremonti hanno comunque un senso. Attenti, non dobbiamo subire passivamente questi processi.

In questi giorni l’Italia protesta presso il Wto per l’inserimento di colture come riso, patate e agrumi tra i prodotti tropicali per i quali sono esclusi i dazi doganali. È giusta una globalizzazione senza reciprocità e, se non è giusta, c’è stato un errore tattico dell’Europa?

Non so come sarebbe il mondo se un gigante come la Cina fosse stata tenuta fuori, a vivere nel commercio mondiale come un permanente clandestino. Il mio amico Giulio questa domanda la deve tenere presente. La questione riguarda più semplicemente le qualità negoziali e gli errori che si commettono su trattative specifiche. E riguarda anche il rapporto, a volte ignorato, tra libertà di commerci e regime dei cambi. Una buona parte degli squilibri che stiamo vivendo non sono figli di Wto, ma semmai dell’ingresso della Cina e di altri nel Wto, accompagnato da regimi di cambio diversi. Nel caso della Cina, l’ancoraggio della sua valuta al dollaro ha finito per contribuire al disavanzo commerciale americano, precostituendo inoltre a vantaggio di Pechino riserve che si sono poi tramutate in una forza competitiva senza precedenti.

È mancata tuttavia una certa gradualità nei processi di liberalizzazione dei commerci?

Dipende da quale punto di vista si guarda. Se fossi un non europeo potrei rispondere che la gradualità è tanto vera che esistono ancora i sussidi agricoli negli Stati Uniti e in Europa

Ma non le pare che la globalizzazione abbia ribaltato certe categorie della teoria economica, sicché il liberalismo oggi sia il riferimento della sinistra riformista e un certo colbertismo quello della destra moderata?

Questo lo sostiene Tremonti, e capisco il perché. Sente il bisogno di ridurre il tasso di liberismo della destra per portarla verso la prospettiva di un maggior ruolo pubblico. E allora che fa? Dice che il liberismo è di sinistra e in questo modo incoraggia la destra a sostarsene. Francamente, però, alla grande stagione del liberismo mondiale contribuirono più Ronald Reagan e Margaret Thatcher che non la sinistra. Ed è tutt’ora non sempre facile spingere quest’ultima ad accettare le regole del mercato. Detto questo c’è una destra che è sempre stata statalista e protezionista.

Ma per parlare con una sola voce l’Europa ha bisogno di un’identità civile condivisa fondata su valori comuni, o piuttosto questo profilo spirituale è anch’esso un arnese ideologico che non ha riscontro nella realtà dei popoli?

Un grande filosofo contemporaneo, Jürgen Habermas, sostiene che l’identità comune europea la dobbiamo trovare nelle missioni che insieme possiamo compiere. Se invece la cerchiamo nei valori e nelle tradizioni, rischiamo di non trovarla. Personalmente, condivido l’idea di Bronislaw Geremek ed altri che la nostra identità culturale esiste, ma non è un fatto acquisito, è piuttosto un compito che dobbiamo volere, facendo prevalere i tratti comuni sulle diversità che ci separano. Mi viene in mente quello che scriveva un grande ungherese, Istvan Bibò, sul peso delle identità particolari nel già Impero austroungarico, percorso da piccoli nazionalismi, attenti solo a rivendicare, ad affermare prerogative, a sottolineare distinzioni. Ne abbiamo traccia in alcuni dei nuovi membri dell’Europa, che sono i figli di quella cultura. Per non parlare dei Balcani occidentali, che sono rimasti il simbolo di questa attitudine europea ad alimentare le divisioni. Di contro a tutto questo però i fattori comuni ci sono e hanno dato vita ad una identità europea tutta costruita su quei diritti umani che, piaccia o non piaccia, devono molto alla tradizione cristiana.

Alla quale ultima lo stesso Habermas assegna un ruolo fondamentale: quello di rappresentare un deposito di senso delle democrazie che giustifica e rafforza le procedure del consenso su cui queste si fondano.

Sì, e lascia perplessi che lui neghi un patriottismo costituzionale fondato sulla cultura e sui valori, ma riconosca il ruolo delle religioni. È indiscutibile che la cultura dei diritti nasce in Europa come elaborazione medievalistica nel diritto canonico e poi si comunica al diritto pubblico. Del resto è insita nel Cristianesimo l’idea che ogni persona ha i diritti di ogni altra.

È la prova, come sostiene Paolo Prodi, che anche l’Illuminismo ha un rapporto di filiazione con il Cristianesimo?

Se uno guarda in superficie le vicende storiche, questo rapporto può negarlo. Perché è indubbio che la Controriforma è il contrario dell’Illuminismo. Ma ciò non cancella il fatto che è proprio della cultura cristiana l’aver introdotto i diritti umani.

Vuol dire anche che riconoscere oggi le radici cristiane dell’Europa nella nuova Costituzione sarebbe legittimo e necessario?

Se le vogliamo proclamare per segnare un confine con chi è figlio di altre radici e allontanare quest’ultimo con più facilità, allora in realtà le si nega. Le radici cristiane hanno invece un senso se intese come forma espressiva di un’Europa inclusiva, fondata sui diritti umani.

In che tempi è possibile la ratifica de Trattato di Lisbona?

Non sono così sicuro che arrivi prima delle elezioni del 2009. Ma teniamo conto che gli irlandesi sono tra i popoli più eurofili che esistano in Europa: il 75% di coloro che hanno votato no alla ratifica di Lisbona intendeva negoziare un trattato migliore. Una soluzione ci sarà.

Quindi non servono geometrie variabili, cioè un Europa a due velocità in cui alcuni paesi fanno strada e altri si accodano?

Minacciare l’avantgarde quando qualcuno si è messo in coda al gruppo e non vuole muoversi è un gioco che può servire, fa parte del negoziato. Di più, credo che stimolare avanguardie sia utile anche dopo l’approvazione del Trattato. I più significativi movimenti in avanti l’Europa li ha fatti così. Penso all’introduzione dell’Euro e al trattato di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini. L’importante è non perdere la direzione. E la direzione è data dal Trattato di Lisbona.

La presidenza francese ha colmato il vuoto politico che segna la fine del mondo unipolare inserendosi nella diplomazia mediorientale con un’idea che, di fronte ai nuovi equilibri geopolitici del pianeta, rilancia il ruolo dell’Europa mediterranea. I primi successi incoraggiano. C’è da crederci?

Di Sarkozy mi piace il gusto di Gianburrasca, cioè di uno che pensa più cose di quelle che riesce a fare. Però intanto le pensa. Considero la sua una nobile avventura da assecondare, perché supera la visione costruita a Barcellona negli anni ’90 e ormai inadeguata. Il libero scambio è un ponte insufficiente fra sponde del Mediterraneo divise da profonde divaricazioni. Ci vuole ben altro per tenere un rapporto reale con l’Africa e col Medioriente. Il dramma dell’immigrazione conferma questa necessità di relazioni più articolate.

Ma l’Italia ha perduto il suo slancio europeista? La recente stretta sull’immigrazione e la decisione di censire i rom con le impronte hanno scatenato reazioni molto forti, a cui solo in parte la diplomazia comunitaria ha posto freno. C’è il rischio di un isolamento italiano in questa stagione?

Spero di no. Nella coalizione di maggioranza è presente un partito anti-immigrazione, che accentua posizioni purtroppo presenti nello stesso elettorato e lo fa con posizioni che di sicuro ci pongono in controtendenza rispetto all’Europa. Tuttavia questa stessa coalizione, se fa quello che dice, dovrebbe essere sensibile anche alla voce della religione, che in questo campo spinge in direzione opposta.

È una consolante compensazione?

Direi una controspinta che alla fine potrebbe evitare lacerazioni. Certo, qualcosa che ferisce è accaduto. Però a stemperare il contenuto di quel censimento con impronte per un solo popolo è venuta la decisione di disporre il rilevamento digitale per tutti, italiani e non, a partire al 2010. Una prospettiva – e questo il ministro degli Esteri, Frattini, lo sa bene – da anni presa in considerazione in sede europea.

Che peso ha in questo rapporto con l’Europa la conflittualità interna al sistema politico italiano e la difficoltà di difendere e rendere produttivo un dialogo attraverso cui il Paese realizzi una serie di riforme istituzionali, condivise da tutti?

Questo è sempre un freno. Un Paese diviso viene guardato nel concerto europeo come un interlocutore per definizione incerto, un Paese sul cui consenso a certe soluzioni, ovvero sul cui apporto, si può contare meno che su altri.

Ernesto Galli della Loggia e Paolo Pombeni indicano nel moralismo divisivo uno dei mali storici dell’Italia, in cui l’identità fin dai tempi di Crispi e di Giolitti coincide con il conflitto ideologico, la delegittimazione dell’avversario. Condivide quest’analisi?

Il conflitto ideologico è un grande elemento di divisione. E divisivo può essere anche il moralismo. Ma non credo che ci sia questo al fondo della divisione italiana. Il fatto è che noi abbiamo da sempre una nazione incompiuta, poiché non abbiamo costruito una identità nazionale forte, capace di reggere contrapposizioni politiche interne su una solida piattaforma di valori condivisi. Esiste una identità collettiva degli italiani, indotta dal processo storico, anche chiaramente riconoscibile. Ma essa non ha generato una identità nazionale, che è una cosa diversa, perché è un processo che si realizza dalla’alto verso il basso. Sono cioè le élite che, utilizzando gli ingredienti dell’identità collettiva, fanno riconoscere tutti i cittadini in una missione nazionale comune. Questo lo ha fatto la monarchia francese che costruì lo stato nazionale. Lo hanno fatto i prussiani in Germania. Lo hanno fatto re diversi nel Regno Unito. Di sicuro l’ha fatto la monarchia spagnola. Non sono riusciti a farlo i Savoia.

Vuol dire che non è vero che gli italiani hanno i governi che si meritano, ma piuttosto non hanno ancora avuto una classe dirigente degna di loro?

Una classe dirigente che sapesse durevolmente coinvolgerli. Ne è prova l’antica diffidenza degli italiani verso le élite, che è in parte contraccambiata.

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