Tempi duri. Ma non per la finanza islamica
G. d. V. 11 December 2008

“Se l’America starnuta, in Europa prendono il raffreddore” è la classica storiella che si usa per sintetizzare la dipendenza delle economie europee da quella americana. Ma se questo è vero, allora nei paesi arabi di questi tempi corre l’influenza. La crisi globale ha infatti colpito duramente le ricchezze dei paesi del Golfo. Del resto come potevano restare immuni, fra crollo dei prezzi del petrolio e del gas, caduta dei portafogli azionari delle famiglie reali, banche locali in crisi di liquidità, bolla immobiliare scoppiata a Dubai, tracollo delle borse arabe e fondi sovrani scottati dal collasso americano? Eppure c’è chi nella sponda sud del Mediterraneo è più che mai ottimista. Si tratta di tutti quegli istituti finanziari che rispettano la Sharia e che vanno sotto il nome di “finanza islamica”.

Per loro il morso della crisi non è stato così terribile ed anzi proprio dal fallimento della finanza speculativa contano di trarre nuova linfa. Perché l’islamic banking si fonda su un modo alternativo di fare affari: divieto di prestare ad interesse, niente speculazione, solido ancoraggio all’economia reale e raccolta basata essenzialmente sui depositi dei clienti. Insomma, quella che in Occidente si chiama “finanza etica”, i cui principi sarebbero bastati a impedire la formazione dei germi della crisi attuale. Le turbolenze finanziarie non potevano risparmiare delle economie così dipendenti da quelle occidentali come quelle arabe. Così come negli ultimi tre anni la folle corsa dei prezzi del petrolio ha favorito l’arricchimento di quasi tutti i paesi della penisola araba, così il rapido crollo negli ultimi quattro mesi ne ha mozzato il fiato. Tutto si può sintetizzare con un numero: cento. Ovvero la differenza fra il picco massimo toccato dal greggio nel luglio scorso, 147 dollari, e l’ultima quotazione di dicembre, 47 dollari.

A questo poi bisogna aggiungere che il crollo delle azioni e dei bond scambiati a Wall Street ha causato una forte caduta del valore dei portafogli azionari nelle mani delle varie famiglie reali, nonché di tanti uomini d’affari arabi. Due fenomeni che hanno ristretto, e di molto, la quantità di dollari in giro per la penisola araba, mettendo in difficoltà le banche locali. Alcune delle quali sono state costrette a invocare l’aiuto statale, come successo nell’emirato di Dubai. Proprio a Dubai poi è scoppiata la bolla immobiliare, tirando ancora più giù tutte le borse del Golfo. Basti pensare che il mercato saudita ha perso dall’inizio dell’anno il 60 per cento del suo valore. E ancora peggio è andata per l’indice di riferimento del Dubai financial market: meno 70 per cento da gennaio.

Capitolo a parte in questo scenario meritano i fondi sovrani, ovvero quei serbatoi di capitali controllati dagli stati che comprano pezzi di società in giro per il mondo. Con un totale di circa 1.800-2.000 miliardi di dollari in asset internazionali, i fondi sovrani di origine mediorientale sono i più potenti del mondo. Fra questi spicca l’Abu Dhabi investment authority, l’Istithamar world, il Saudi Arabian monetary agency o il Kuwait investment authority. Ebbene, anche per queste piccole corazzate la crisi è stata deleteria, visto che il deprezzamento dei corsi azionari si è tradotto automaticamente in una diminuzione del patrimonio. Ad esempio, il fondo sovrano di Abu Dhabi non ha sicuramente fatto un buon affare comprando azioni di Citigroup per 7,5 miliardi di dollari. Così come non l’hanno fatto quei paesi del Gulf cooperation council che hanno messo a disposizione di Barclays ben 9,4 miliardi di dollari. Tanto che da più parti nei paesi arabi s’invoca il ritorno a casa, ovvero all’investimento sui mercati domestici, per questi fondi.

In una situazione così difficile a tenere botta è invece la finanza islamica, che ha retto meglio di quella tradizionale. “Gli effetti negativi ci sono stati, ma sono solo una ricaduta di quelli che hanno intaccato direttamente il sistema finanziario convenzionale dei paesi arabi – osserva Ermanno Mantova, fondatore e presidente dell’Isme, Istituto di studi economici e finanziari per lo sviluppo del Mediterraneo – La finanza islamica non ha accusato perdite dirette, in quanto escludendo a priori la speculazione non ha operato sul mercato dei titoli ad alto rischio. E questa sua naturale immunità verso i mercati speculativi ne rafforza l’interesse per il futuro”. Un’immunità “naturale”, come l’ha definita Mantova, perché questa tipologia di “far banca” si basa sul divieto del prestito ad interesse: in qualche modo l’istituto finanziario deve partecipare al rischio d’impresa di colui a cui sono stati prestati i soldi. Va da sé che queste banche non abbiano potuto far incetta di titoli tossici come le altre, preservando così i propri bilanci.

Si tratta quindi di un modo etico di interpretare la finanza, che potrebbe avere molto successo in un periodo in cui si sta ripensando all’eccessivo peso che ha avuto negli ultimi anni quella “creativa”. Del resto non è un caso che l’islamic banking è cresciuto a ritmi molto rapidi, in media del 15-20 percento all’anno, arrivando a un giro d’affari complessivo che va dagli 800 ai mille miliardi di dollari, pari all’uno per cento del mercato finanziario globale. Numeri importanti, tuttavia ancora piccoli se paragonati a quelli occidentali. Ma per Mantova quello che conta è soprattutto il futuro: “Della finanza islamica vanno valutati i ‘fondamentali’, per dirla in gergo borsistico. Quindi piuttosto che gli indici di crescita vanno guardati altri vantaggi, alla luce del riesame dei modelli economici, finanziari ed etici che il mondo sta facendo. Un mondo che è ancora impegnato a rimuovere le macerie del terremoto che ha avuto come epicentro i subprime, ma che si è poi esteso fino a toccare tutto e tutti”.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x