No al manicheismo, scelgo il dialogo come Bobbio
Nadia Urbinati 19 December 2007

Da questo articolo di Nadia Urbinati ha avuto origine il dibattito tra l’autrice e il filosofo Michael Walzer, pubblicato dalla rivista Reset nel numero 103 (settembre-ottobre 2007).

In poche circostanze come in quella che ci interessa qui e ora, dominata dalla questione non facile del rapporto tra i principi liberali e le culture religiose (islamica soprattutto), la discussione sul ruolo della sinistra converge con e si sovrappone a quella sull’identità della democrazia. Il dibattito pubblico messo in moto da intellettuali e riviste, quotidiani e mezzi di informazione ha messo in luce l’esistenza di due posizioni: da un lato, coloro che abbracciano il multiculturalismo liberale (politica del riconoscimento, non soltanto tolleranza delle differenze culturali e religiose che vivono all’interno di una comunità politica) ma con un’eccezione, quella dell’islamismo; dall’altro, coloro che rifiutano di fare questa eccezione perché pensano che sia sbagliato prendere la cultura islamica in blocco come se fosse un’entità omogenea e senza articolazioni.

È importante tener presente che le due posizioni riflettono un fatto che non può essere trascurato: l’intricato legame fra politica interna (agli Stati democratici) e politica estera (degli Stati democratici verso i paesi dai quali è partito il terrorismo di matrice islamica). Anche per questa ragione, l’articolazione delle posizioni liberali e democratiche rispetto all’islamismo richiama alla mente l’esperienza della Guerra fredda. La prima posizione sopra descritta corrisponde a quella che nel corso della Guerra fredda era condivisa da coloro che sostenevano che il dialogo con i comunisti era non solo non desiderabile ma anche impossibile – non si poteva essere tolleranti con gli intolleranti; in questo caso il comunismo era preso in blocco come un’ideologia o una religione dogmatica, inospitale verso il dissenso; quei democratici non vedevano altre soluzioni alla politica del muro: noi contro loro. Molti di coloro che durante la Guerra fredda hanno perseguito una politica di radicale intolleranza verso il comunismo, a partire dall’11 settembre hanno fatto altrettanto con l’islamismo.

Dissent, Bobbio e il comunismo

Con tutte le cautele che ogni generalizzazione comanda, è possibile azzardare questa considerazione: il modo con il quale è stata vissuta e praticata la cultura politica della Guerra fredda può essere una buona guida per comprendere la divisione odierna tra intellettuali europei o di formazione europea e intellettuali americani a proposito dell’islam e del processo di democratizzazione più in generale. Se prestiamo attenzione ai grandi dibattiti che hanno coinvolto gli intellettuali a partire dagli anni Cinquanta ci accorgiamo che avremo grande difficoltà a trovare una similitudine di atteggiamenti tra gli Stati Uniti e l’Europa. Certo, «Dissent» ha tenuto una posizione unica e originale nel panorama americano perché ha cercato di separare nei principi il comunismo dalla sinistra così da preservare la seconda dalla furia anti-comunista del maccarthismo. In questo modo ha dato un grande contributo alla difesa di un’identità democratica della sinistra in un paese poco disposto a fare distinzioni in merito alla sinistra.

Ma «Dissent» non ha discusso con i comunisti, ha invece dato spazio agli ex comunisti o a coloro che provenendo da quel mondo potevamo meglio descriverne il monolitismo irriformabile. Confrontiamo, tanto per restare in Italia, «Dissent» con la rivista «Nuovi Argomenti», la quale nel 1954 lanciò una straordinaria inchiesta tra gli intellettuali italiani sul ruolo della sinistra in relazione al comunismo e sul ruolo della democrazia europea in relazione ai due blocchi o ai due modelli di democrazia. E pensiamo a un intellettuale come Norberto Bobbio che non ebbe timore di lanciare la sfida ai comunisti italiani e chiamarli al dialogo. Sarebbe poi toccato a loro, pensava Bobbio, accettare o respingere e, nel primo caso, a misurarsi con le loro interne rigidità e la loro cultura della doppiezza. Si tratta come si vede di una importante differenza di atteggiamento verso l’«altro».

L’arte europea del dialogo

L’Europa, vuoi per la vicinanza fisica dell’«altro», la quale non ha mai consentito politiche radicalmente oltranziste e non dialogiche, vuoi per la plurisecolare abitudine dei suoi popoli a discutere tra loro in un rapporto permanente di amicizia/inimicizia (e magari dopo essersi debilitati con una guerra), ha in forme e modi diversi praticato l’arte del dialogo, e quindi riconosciuto di fatto che nessuna Chiesa è una Chiesa in blocco. Probabilmente l’esperienza della Riforma protestante è stata decisiva nel coltivare questa attitudine. Mi sembra che questo atteggiamento possibilista, o se si vuole non timoroso del pluralismo, sia più difficile da praticare negli Stati Uniti. Non sono una sociologa né una storica della cultura, tuttavia potrei essere tentata di trovare una ragione di questa specificità americana nell’ideologia dell’eccezionalismo che ha segnato la costruzione della nazione statunitense fin dal Settecento, per un comprensibile bisogno di distinguersi dalla vecchia Europa, e in primo luogo dai suoi difetti politici, come il dominio dispotico della secolare cultura del privilegio e della gerarchia.

Il ruolo americano nella creazione della cultura democratica moderna è stato fondamentale e l’eccezionalismo ha avuto anche un ruolo positivo. Ma nel contempo ha orientato la cultura politica americana verso una difesa orgogliosa della proprio unicità. Fino a quando questa difesa ha coinciso con le ragioni della pace e della democrazia nel mondo, come nei casi elencati da Micheal Walzer in un dialogo pubblicato su «Dissent», si è creato un circolo virtuoso che ha rafforzato sia la democrazia che il ruolo degli Stati Uniti. È questo circolo virtuoso a essere oggi entrato in crisi; e ciò appare, come dirò in seguito, dalle due visioni di democrazia che hanno preso piede rispettivamente in Europa e negli Stati Uniti. Prima di esaminarle vorrei però soffermarmi ancora sull’atteggiamento multiculturale con il quale ho aperto questa riflessione.

La rischiosa politica del “block-thinking”

La differenza tra i due atteggiamenti multiculturali che ho descritto sopra è oggi molto evidente soprattutto qualora si presti attenzione alle posizioni espresse da Micheal Walzer, forse l’intellettuale americano che ha più di ogni altro riflettuto sul pluralismo delle vie verso il riformismo. Questo è stato il senso profondo della teoria del «significato nel contesto» con la quale Walzer ha voluto fin dagli anni Ottanta distinguere tra un riformismo monolitico fondato su una concezione di eguaglianza semplice (quello per esempio dei due principi di giustizia dedotti a priori da John Rawls) e un riformismo pluralistico fondato sull’attenzione alle differenze o, se si vuole, sulla costruzione dal basso del percorso verso una società più giusta o verso la democrazia (come non ricordare la sua brillante analisi dei movimenti di democratizzazione dei paesi dell’Europa dell’Est?). All’appello ad apprezzare e favorire un’articolazione interna alla sinistra, Walzer ha fatto seguire nel giro di pochi anni una straordinaria ricerca teorica sui fondamenti dei due atteggiamenti riformisti (quello deduttivistico e quello contestualistico) e infine sulle strategie intellettuali a essi corrispondenti (l’intellettuale che impone la verità da fuori e l’intellettuale che sviluppa la critica dall’interno): pensiamo in particolare a Interpretation and Social Criticism e a The Company of Critics, usciti a distanza di un anno l’uno dall’altro, tra il 1987 e il 1988.

Nell’articolo Block Thinking and Internal Criticism, Dilip Gaonkar e Charles Taylor si rifanno proprio a questo contributo di Walzer, mettendo in luce, molto opportunamente, le implicazioni importanti che la teoria contestualista può avere oggi, di fronte alla rinascita di atteggiamenti manichei tra gli intellettuali riformisti occidentali. Scrivono Goankar e Taylor che il multiculturalismo, se non scade in particolarismo o non si traduce in una politica degli steccati, se dunque è liberale nei principi e democratico nell’attitudine, ha una doppia caratteristica: in primo luogo, assume che le differenze ci sono e devono essere riconosciute e tollerate (con la dovuta cautela che riguarda ovviamente il rispetto dei diritti fondamentali); in secondo luogo, assume che all’interno di ciascuna cultura ci sono minoranze (che i diritti liberali alla «voce» e all’«uscita» di cui ha parlato Albert Hirschman devono garantire) e quindi che nessuna cultura è monolitica, ma invece un universo dialettico di complesse discussioni anche se a chi sta fuori spesso così non appare, perché quella complessità è essa stessa figlia di quella cultura e resa in una lingua e attraverso simboli che sono comunque meglio compresi da chi sta «dentro» e li usa quotidianamente. Ma dall’esterno si possono intuire molte cose attraverso la lettura attenta di segni e parole che sappiamo ben riconoscere perché li abbiamo usati, e li usiamo, anche noi nelle nostre discussioni e per le nostre lotte. Contestualismo non significa dunque chiusura all’esterno o solipsismo, ma comprensione per via di confronto fra esperienze – se c’è un universalismo che può aiutare la causa del dialogo è proprio questo.

L’errore di Paul Berman

Su queste premesse, che non sono dettate soltanto dalla prudenza, si basa la filosofia del dialogo. Sul loro rifiuto si basa invece il manicheismo; un rifiuto che, per tornare alla questione che ci interessa più da vicino, può venire sia da dentro la cultura dell’islam che da dentro la cultura occidentale. La politica del block thinking – cioè l’assunto che ci sono culture monolitiche e quindi irriformabili – è rischiosa perché tende a spingere tutti coloro che appartengono alla cultura avversaria nelle braccia di quelle minoranze radicali che davvero vogliono che la loro cultura sia un blocco unitario sotto la loro leadership. Posizioni come quella di Paul Berman (che chiamerei di «occidentalismo manicheo») sono, oltre che riduzionistiche e quindi fallaci, anche politicamente pericolose perché aiutano precisamente la causa del fondamentalismo di Osama bin Laden che pure si propongono di contrastare e di sconfiggere. Scrivono Goankar e Taylor che il migliore «antidoto» al block thinking deve essere cercato nell’idea di «critica interna» di Walzer, nell’invito cioè a pensare che all’interno di ogni società o gruppo o cultura ci siano comunque principi, linguaggi, simboli che consentono di iniziare un’azione di critica e di riforma.

Come sappiamo, Walzer diresse la sua teoria contestualista prima di tutto contro il messianesimo dei marxistileninisti, la loro idea che la via maestra verso una società migliore fosse una e una soltanto, quella definita dalla scienza del materialismo dialettico, e che le culture vernacolari o i dialetti fossero niente altro che pregiudizi dei quali il linguaggio della scienza doveva disfarsi se la società futura doveva nascere (una posizione questa che Walzer ha rintracciato anche negli scritti di Antonio Gramsci). Il contestualismo era una risposta teorica al dogmatismo razionalistico ma anche una piattaforma politica: facilitare la contestazione interna, anche attraverso l’influenza dall’esterno. Influenza indiretta, però, non intervento diretto (soprattutto militare). La democratizzazione dei paesi dell’Est Europa fu gradualmente conquistata grazie a questa convergenza di azione politica e culturale (non militare) interna ed esterna. Propongo di applicare il dualismo di Walzer tra un riformismo monolitico imposto dall’esterno (perché derivato da principi universali astratti, veri per stipulazione a priori e quindi intolleranti verso cosiddette deviazioni localistiche) e un riformismo partecipato e costruito dall’interno (frutto di diaspore e conflitti interpretativi dei significati e dei testi condivisi, anche grazie o a causa di contaminazione dall’esterno) allo scenario contemporaneo sui destini planetari della democrazia. Vengo così alla questione dell’impatto che le interpretazioni del multiculturalismo possono avere sull’identità della democrazia.

Due visioni della democrazia

Nell’attuale riflessione politica, domestica e internazionale, è possibile individuare due concezioni della democrazia: una di tipo ideologico, costruita su un nucleo di valori che a loro volta sono identificati con l’Occidente e che designano un tutto organico (questa è una concezione wilsoniana della democrazia come missione alla quale si richiamano non soltanto i neoconservatori americani ma anche alcuni transfughi liberals come Berman); e una di tipo morale, attenta al contesto, retta su un nucleo di norme e procedure che possono trovare applicazione in varie situazioni. La prima è fortemente identificata con una politica della volontà – la democrazia come progetto politico internazionale che deve essere favorito anche con mezzi coercitivi se necessario. Mentre riconosce nella democrazia il valore più alto, la politica della volontà tradisce il principio della auto-determinazione volontaria che è la condizione necessaria alla costruzione della democrazia. L’altra concezione è identificabile con una politica del giudizio; essa è meglio radicata dell’altra nell’idea che il consenso dei cittadini e quindi lo sviluppo dell’opinione sia il requisito fondamentale per un ordine politico democratico, questo perché essa considera la struttura statale essenziale per la democrazia, un’autorità istituzionale ordinata in modo da operare con gli strumenti delle regole e delle leggi, attrezzata a implementare diritti legalmente riconosciuti e a fare leggi responsabili e reversibili, ma anche relativamente autonoma dagli altri Stati.

Non meno importante è a questo fine la promozione delle condizioni sociali ed economiche tali per cui nessuno soffra di indigenza e possa lavorare per rendere la propria vita decente e aspirare al minimo di benessere; senza queste condizioni, la democrazia non può consolidarsi. Come ci hanno insegnato gli scienziati politici, la correlazione fra convenienza e stabilità democratica è cruciale. La democrazia deve essere desiderabile per essere perseguita e, una volta istituita, deve riuscire a risolvere i conflitti in modo tale che nessun cittadino o gruppo possa manomettere le regole a proprio vantaggio. Perché la democrazia sia desiderabile è necessario che sappia dimostrarsi capace di consentire miglioramenti sociali ed economici, di ripagare coloro che fanno sacrifici per ottenerla. Come ci ha ricordato Alexis de Tocqueville, la democrazia non si regge su alcuna passione patriottica indotta artificialmente o imposta, né chiede sacrifici troppo gravosi ai suoi cittadini; è forte perché genera un patriottismo conveniente, se così si può dire, ovvero un «interesse bene inteso» che fa sentire il bene pubblico come conveniente per ciascuno. È proprio a questo interesse bene inteso che faccio riferimento quando propongo di far sì che la transizione alla democrazia sia avvertita come conveniente dagli attori stessi.

La questione può quindi essere formulata così: Come rendere il processo democratico conveniente e sicuro, non semplicemente possibile? Questo è stato il grande insegnamento che ci è venuto dal modello adottato dall’Unione europea nel definire le condizioni di ammissioni dei nuovi paesi: come rendere la democrazia desiderabile e conveniente; e quindi, come fare in modo che i cittadini stessi concorrano a edificarla e promuoverla. Una politica di incentivi (influenza indiretta) assomiglia a una politica di checks and balances o di contrappesi perché fa del processo democratico una strategia cooperativa basata su relazioni di mutua convenienza. Ma questo atteggiamento può prosperare e progredire perché a monte si presumono almeno due condizioni: che siano i popoli a dover diventare protagonisti delle trasformazioni democratiche (attenzione al contesto); e che l’interdipendenza tra i popoli sia una componente essenziale del percorso democratico (relazione con l’esterno). Interdipendenza non significa accondiscendenza, ma sistema di mutua convenienza; una condizione che, da sola, presume il protagonismo diretto degli interlocutori, di coloro che dall’interno sviluppano il difficile processo di libertà democratiche e di coloro che dall’esterno possono agevolarli con l’etica del dialogo e una politica di incentivi.

La sinistra e il bisogno di una filosofia dell’individuo

Mi sembra che sia questa la strada che debba intraprendere la sinistra, in Europa come negli Stati Uniti. Una strada non della contrapposizione manichea ma della contaminazione per mezzo di azioni che fungono da contrappesi e stimoli, incentivi e correttivi. Nella nostra cultura liberale e democratica quella strada – che gli antichi chiamavano commercium, assegnando a questa parola un significato ampio e ricco di elementi culturali oltre che economici – ha valide fondamenta che trovano (e hanno trovato) pratica applicazione nella politica del dialogo. Ma una politica di questo tipo deve poter contare sulla premessa che nessuna cultura è un mondo omogeneo e granitico; che tutti gli esseri umani benché si trovino a crescere per accidente di nascita in questa o quella cultura, hanno tuttavia la capacità di personalizzare il mondo nel quale si sono trovati a vivere per caso per farlo «loro». Forse la sinistra avrebbe bisogno di arricchire la propria cultura politica con una filosofia dell’individuo o dell’individualità. Non è un caso del resto se, alla fine della Seconda guerra mondiale, gli intellettuali europei che rifiutarono il manicheismo della Guerra fredda e praticarono la cultura del dialogo erano passati chi più chi meno attraverso filosofie esistenzialistiche e personalistiche, riflessioni che avevano contribuito a rivalutare la persona di contro ai sistemi olistici allora dominanti, fascisti o comunisti, e alla centralità generalmente riconosciuta a entità collettive, come per esempio lo Stato o il partito, rispetto a entità morali come l’individuo o le associazioni della società civile. Anche oggi c’è forse il bisogno di emancipare la persona dall’identificazione con la cultura o la religione alla quale di fatto appartiene; non per decretare che culture e religioni sono finzioni, ma per mettere in luce il fatto che alla loro origine vi è la ricerca individuale di una vita che vuole avere un senso.

Nadia Urbinati è professore di Teoria politica alla Columbia University di New York. Dirige insieme ad Andrew Arato la rivista Constellations. Tra le sue pubblicazioni, Representative Democracy: Principles and Genealogy (University of Chicago Press 2006). Autrice di saggi sul liberalismo, l’individualismo e Stuart Mill, ha curato e pubblicato in America, per Princeton University Press, il Socialismo liberale di Carlo Rosselli. È inoltre co-autrice di Liberal-socialisti. Il futuro di una tradizione (con M. Canto-Sperber, I libri di Reset, Marsilio, 2003) e di La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio (Con C. Ocone, Laterza, 2005).

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