Elezioni in tempo di crisi
Andrew Arato 20 October 2008

La crisi finanziaria mondiale, che ha il suo centro nell’economia americana, ha apparentemente modificato il corso delle elezioni presidenziali. Naturalmente, è possibile che, anche senza questa crisi, Barack Obama e Joseph Biden avrebbero vinto di scarsa misura e, purtroppo, è ancora ipotizzabile che, malgrado tale crisi, essi possano perdere. Ma oggi (12 ottobre 2008), sembra probabile che la vittoria dei Democratici sarà netta e che determinerà anche consistenti progressi in entrambe le camere del parlamento. Proprio nel momento in cui potremmo assistere ad una parziale ma estesa presa di controllo da parte dello Stato capitalista dei sistemi bancari e finanziari delle economie avanzate, negli Stati Uniti potrebbe andare al potere un partito che ha l’inclinazione ideologica ad operare e consolidare un cambiamento radicale, abbandonando il consenso di Washington e andando nella direzione delle economie capitaliste regolamentate. Questo partito, inoltre, è guidato da una persona capace, che si circonda di elementi preparati sia in politica interna che estera. Obama è, allo stesso tempo, sensibile alla richiesta di giustizia e pienamente capace dal punto di vista intellettuale di comprendere le sfide strutturali che ci aspettano. Perciò, quella che abbiamo di fronte, non è soltanto una crisi drammatica, ma anche la sua potenziale soluzione a lungo termine.

Lascerò che siano altri, più esperti di me, ad affrontare, come è necessario fare immediatamente, le prospettive e le implicazioni economiche. Considerata le differenze tra i candidati, e quelle tra i partiti, è comunque sorprendente che ci sia voluta una crisi di tale gravità per imporre un solido vantaggio (non ancora schiacciante: del 7-8 per cento nei sondaggi) a favore di Obama. Prima del crollo della Lehman Brothers, McCain era favorito in modo piuttosto netto. Forse si trattava dell’ effetto del suo “rilancio” prodotto dalla Convention Repubblicana, seguita a quella Democratica, e alla scelta, inizialmente popolare, di Sarah Palin come candidato vice presidente. Trascurando il fatto che si è trattato di una scelta assurda e disastrosa dal punto di vista intellettuale e -considerando l’età e lo stato di salute di McCain- anche da quello morale, laddove essa poteva produrre effetti, vale a dire tra alcuni settori chiave dell’elettorato (fondamentalisti religiosi, proletariato bianco, donne anziane poco colte, parte dell’ elettorato di centro), inizialmente, essa ha funzionato. Quando si sono diffuse le informazioni negative sul personaggio della Palin e sulla sua preparazione, la competizione è diventata più equilibrata, ma il decollo di Obama può essere individuato con precisione con il momento in cui si sono diffuse le disastrose notizie economiche. Non ci sono molti elementi per affermare che senza quelle notizie ci sarebbe stato qualcosa di più di un pareggio.

Il fatto di per sé è considerevole. Obama è un candidato straordinariamente valido, e non soltanto agli occhi degli europei. McCain risulta quasi sempre inefficace e privo di carisma, è legato ad un presidente impopolare e ingombrante che gode di uno dei più bassi indici di polarità della storia. McCain è stato un sostenitore di una deregulation indiscriminata che ha causato la crisi dei mutui subprime, ed è diventato un fautore dei tagli alle tasse che hanno provocato la crisi fiscale dello Stato. Le sue sconsiderate proposte in materia di assistenza sanitaria (con il 40 per cento di cittadini non assicurati) sono, nella migliore delle ipotesi, proposte di facciata e, nel caso peggiore, potrebbero portare molti di coloro che attualmente sono assicurati a perdere la propria assicurazione privata. Su tutti questi temi, Obama propone alcune importanti, sebbene prudenti, riforme: molta più regolamentazione e più investimenti nelle infrastrutture, un fisco più equo, assicurazione sanitaria generalizzata, anche se non in modo universale.

Laddove McCain ha scelto a sostituirlo un’incompetente, Obama ha optato per un candidato alla vicepresidenza molto qualificato. Queste non sono soltanto le mie opinioni ma è ciò che emerge da tutti i sondaggi. In politica estera, dove Obama, almeno per i miei gusti, ha gravitato fin troppo attorno al centro americano, ha comunque mantenuto la ferma convinzione che la guerra in Iraq è stata un errore catastrofico e tutto il resto è collegato a questa idea di fondo. E, su questo, le sue opinioni erano e sono rimaste più vicine alla maggioranza degli elettori rispetto alle opposte posizioni di McCain, nonostante il vantaggio tattico di quest’ultimo sul tema dell’aumento delle truppe in Iraq. Gli elettori, come Obama, vogliono lasciare l’Iraq il prima possibile, e non importa che l’incremento delle forze militari (ma ancor di più la strategia favorevole ai sunniti di Petraeus!) possa aver reso più praticabile tale opzione in Iraq. In ogni caso, l’idea di Obama di utilizzare un calendario del ritiro come forma di pressione per un nuovo compromesso in Iraq, è molto più valida della indefinita continuazione dell’occupazione sostenuta da McCain che, specie ora, sarebbe difficile da giustificare anche dal punto di vista economico.

La questione della razza

Perciò, anche prima della vicenda della Lehman Brothers, Obama avrebbe dovuto vincere : con certezza, dal punto di vista della personalità, in modo netto per ciò che attiene alla politica interna, e in modo almeno marginale rispetto ai temi della politica estera e di quella militare. Ma non era così e, di fatto, stava andando peggio di quanto avrebbe fatto un generico candidato Democratico contro un generico candidato Repubblicano. Sono convinto che il problema sia razziale. Non sto pensando all’effetto Bradley, attorno al quale, in questi giorni, si discute tanto. In realtà non sappiamo ancora se da ogni sondaggio (secondo il rapporto tra elettori bianchi ed elettori neri) dovremmo sottrarre dall’1 al 3 per cento delle cifre riferite a Obama perché gli intervistati si vergognano di rivelare che, alla fine, non voteranno per un candidato di colore a cui, altrimenti, avrebbero dato la preferenza. La presenza di questa discrepanza è stata valutata in occasione di molte elezioni precedenti, anche se negli ultimi dieci anni essa sembrava essere fortemente diminuita. Fino a quando non potremo mettere a confronto i sondaggi finali, gli exit poll e i risultati elettorali definitivi, non saremo in grado nemmeno di sospettare il peso effettivo dell’effetto Bradley. Ciò a cui penso, in realtà, è qualcosa di molto meno grave, anche se più difficilmente valutabile.

Coloro che nei sondaggi hanno scelto McCain (oltre il 6 per cento che ha apertamente indicato l’appartenenza razziale di Obama come “la” ragione o una “importante” ragione!) potrebbero indicare come decisivo un qualunque tema e di fatto razionalizzare una scelta fatta in precedenza sulla base di considerazioni razziali. Molte delle persone intervistate in Ohio, ad esempio, hanno dichiarato che l’aspetto razziale per loro non ha alcuna importanza e che potrebbero decidere sia di votare per Obama che di non votarlo, ma hanno aggiunto che i loro vicini, i loro amici o i loro colleghi – raramente i membri della loro famiglia- non voteranno certamente una persona di colore a causa della sua razza. Questo genere di prova attesta, allo stesso tempo, la presenza del problema razziale nella competizione elettorale e la reticenza della gente ad ammetterlo. E’ probabile che tutto il vaniloquio su un Obama musulmano, addirittura arabo, non riuscirà a convincere molte persone che egli è un terrorista o che, per usare le parole della Palin, “frequenta dei terroristi”. Tutte queste affermazioni, tuttavia, richiamano l’attenzione sul fatto che Obama è molto diverso da ciò che un presidente americano dovrebbe essere.

Dunque, la strategia adottata in questo momento dai Repubblicani è tagliata su misura per tutti quegli elettori che potrebbero non votare Obama proprio perché egli è diverso. Avrebbero adottato a tutti i costi questa strategia negativa di attacco personale, e non soltanto per spostare l’attenzione dall’economia. L’operazione di mettere Obama in relazione con Bill Ayres, ( che, negli anni Settanta, apparteneva al gruppo terroristico degli “Weathermen”), con il Reverendo Wright (per 20 anni pastore di Obama) e con il gruppo per la registrazione di nuovi elettori ACORN (di cui Obama, all’inizio degli anni Novanta, era il legale), è intesa a dimostrare che Obama non è uno di noi, che non sappiamo chi egli sia realmente e che le sue ottime prestazioni durante i dibattiti e durante la campagna elettorale vanno viste come una maschera e lette come elementi di colpa. Che tali tattiche immorali possano, purtroppo, risultare efficaci lo si può apprezzare non tanto nella crescente eccitazione del pubblico (scelto con cura) tra cui queste accuse vengono diffuse, quanto, ancora una volta, dai sondaggi, che sembrano non essere influenzati dalle evidenti vittorie riportate nei dibattiti da Obama e Biden. Dopo la recente ondata di attacchi personali, nei sondaggi, Obama sembra aver perso circa un punto che, tuttavia, può essere recuperato grazie alla reazione contraria che tali attacchi producono.

E’ difficile dire se avrà la meglio la propaganda negativa o la reazione ad essa, e ciò spiega la recente e contraddittoria presa di posizione in difesa di Obama assunta da McCain contro gli attacchi più estremi ( secondo cui il candidato Democratico è un arabo e la gente dovrebbe letteralmente aver paura di lui). Se, per Obama, i sondaggi stanno gradualmente migliorando, ciò è dovuto a due fattori. Il primo è che la crisi economica fa apparire insignificante, egoistica ed irrilevante la propaganda elettorale negativa, persino agli occhi di quegli elettori che, in altre circostanze, sarebbero stati sensibili agli stessi argomenti. Secondo e più importante fattore: la crisi fa apparire negativo tutto ciò che è Repubblicano e i discontinui tentativi di McCain di differenziarsi da Bush non fanno che legarlo, contraddittoriamente, all’ala più radicale del suo partito. In breve, egli non ha dato gran prova di sé circa il problema dal quale l’elettorato non vuole essere distolto.

Obama, da parte sua, si è comportato bene. Forse sarebbe stato meglio proporre al Paese un nuovo ed esauriente New Deal, ma ciò lo avrebbe esposto all’accusa di essere un presuntuoso o di cercare di agire da presidente prima di essere stato eletto. Perciò Obama ha fatto la cosa migliore che potesse fare: si è comportato in modo responsabile, coerente e fermo, usando moderazione, dando sostegno all’unico governo di cui, al momento, l’America dispone, e suggerendo, con le sue proposte, dei miglioramenti. Come ora possiamo vedere, c’erano dei piani migliori rispetto allo schema iniziale voluto da Henry Paulsen, ma, verosimilmente, proporli non era compito di Obama. In ogni caso, nella crisi, egli si è segnalato come una forza tranquilla e questa, date le circostanze, non è proprio una cosa negativa, soprattutto se la si paragona al comportamento incoerente di McCain, notato anche dai conservatori, che oggi riconoscono a denti stretti che Obama ha “un temperamento di prima classe” (oltre che “un’intelligenza di prima classe”, come ha scritto sul Washington Post Charles Krauthammer che ora cerca di scovare presunte, e inesistenti, mancanze morali).

Le elezioni non sono finite. Il fattore razziale, subdolamente seppure incongruentemente riportato in vita dalla campagna elettorale di McCain, potrebbe sempre riapparire sotto una forma inattesa. Stranamente, la propaganda negativa funziona meglio per la destra che per i Democratici. Perciò, è possibile che la competizione si faccia più serrata. Oppure: l’ultimo dibattito e i sondaggi costanti potrebbero accelerare gli eventi e Obama potrebbe anche vincere in modo schiacciante. La cosa più probabile, oggi, è che egli vinca con un vantaggio abbastanza pieno da permettergli di governare un Paese che ha un grande bisogno di essere ricostruito. Speriamo che accada almeno questo.

Traduzione di Antonella Cesarini

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