Diversità culturale? È la chance migliore che abbiamo per avere un futuro
Elisa Pierandrei 21 April 2011

“Tutti noi apparteniamo, per nascita, per formazione o per scelta professionale ad un qualche luogo, ma non dobbiamo farci ingabbiare da questa appartenenza. Dobbiamo superare le ossessioni indentitarie tenendo aperti gli occhi alle grandi opportunità che il mondo ci offre”. È così che si vince la sfida del cosmopolitismo, spiega Roberto Ruffino, Segretario Generale della Fondazione Intercultura, da anni impegnata sul fronte degli scambi internazionali. Si tratta di un destino che è già presente per molti giovani italiani impegnati sempre di più in esperienze di formazione all’estero per poter far fronte alle sfide della società globale. I dati Intercultura rivelano che quest’anno ben 1565 ragazzi della scuola superiore partiranno per un programma internazionale (oltre 100% in più rispetto a 10 anni fa), la metà dei quali studierà per un intero anno scolastico fuori dall’Italia, principalmente fra Stati Uniti (275), Germania (47) e Cina (45). È un mondo in cui i protagonisti devono essere cittadini del mondo e per i quali il concetto di identità non è più legato a una nazione ma piuttosto a un percorso di formazione culturale.

L’esperto iraniano Vahid V. Motlagh, membro della World Futures Studies Federation, e fondatore di VahidThinkTank.com, fa notare: «Alla domanda “Da dove vieni?” alcuni ragazzi oggi hanno difficoltà a rispondere perchè non sentono più di appartenere a una nazione specifica, cultura, lingua eccetera – sostiene Vahid – Oggi c’è un concetto postmoderno che è più interessante da esplorare: quello di “identità multiple”.» Ovvero di persone che hanno acquisito un alto livello di “fluidità” culturale. Ecco un esempio pratico costruito sul concetto di identità linguistica. Spiega Vahid: “I miei genitori mi hanno costretto ad imparare il persiano, l’impero americano mi ha costretto a imparare l’inglese, l’ayatollah Khomeini mi ha costretto a imparare l’arabo, ma nessuno mi ha costretto a imparare l’italiano. Questa è la mia libertà di scelta linguistica”.

Al convegno internazionale “Ricomporre Babele: educare al cosmopolitismo”, organizzato da Fondazione Intercultura a Milano dal 7 al 9 aprile, Motlagh insieme ad altri 36 esperti (fra cui Fred Dallmayr, John Lupien, Giancarlo Bosetti, Marco Aime, e Ramin Jahanbegloo) hanno spiegato come gli avvenimenti sociali, politici ed economici del XX secolo, sino a quelli recentissimi delle ultime settimane in Maghreb e in Giappone, hanno quasi sempre natura internazionale e fanno ben comprendere l’impossibilità di vivere entro i confini politici e culturali del proprio Stato-Nazione.

Per Francesco Cavalli Sforza, autore, regista, divulgatore scientifico, che al Convegno milanese ha discusso di “Scienza e Cosmopolitismo”, la diversità culturale rappresenta senza dubbio la chance migliore che abbiamo per avere un futuro. “Poiché ogni cultura è un approccio distinto all’interazione con l’ambiente – ha spiegato Cavalli Sforza – i modi di vita e di pensiero sviluppati da ciascuna delle 5000-6000 popolazioni che abitano oggi il mondo rappresentano altrettante alternative di interazione con gli ambienti planetari, ciascuna con elementi di successo. Nel loro complesso, sono come il magazzino degli strumenti disponibili all’umanità, in cui cercare quanto può servire per fare fronte alle sfide di un ambiente in continuo mutamento. Le società povere, che traggono la propria sussistenza dalla terra o dal mare con metodi per noi primitivi e con strumenti tradizionali che esse stesse hanno fabbricato, oggi sono in posizione di grande svantaggio rispetto alle società urbane del mondo sviluppato. Ove venisse a mancare l’energia che alimenta queste ultime la situazione potrebbe rovesciarsi e sarebbero magari molte culture più periferiche e per noi arretrate a trovarsi in posizione di vantaggio nel procurarsi la propria sopravvivenza”.

Il convegno ha cercato anche di dare una risposta alla domanda: Ma quanto gli italiani sono pronti a interiorizzare il confronto con altre culture e altre società? Un sondaggio effettuato da Ipsos rivela infatti un Paese spaccato in tre, quando viene chiesto il proprio atteggiamento verso un’Italia multiculturale in cui convivono pacificamente diverse etnie. Il 28,4% la teme e la guarda con sospetto e curiosità insieme, il 29,7% l’aspetta fiduciosa (in particolare la fascia più giovane della popolazione), mentre il 35% la ritiene inevitabile (lo dicono specialmente il nord est e il centro).

“Trovo piuttosto curioso che in Europa si siano ultimamente ascoltate voci (e voci autorevoli: ad esempio quella di Angela Merkel) che proclamavano il fallimento dell’Europa multiculturale”, è il commento di Roberto Toscano, Presidente della Fondazione Intercultura e già ambasciatore italiano a Teheran e a New Delhi. “Curioso perché l’Europa è ormai oggettivamente, e irreversibilmente, multiculturale, piaccia o non piaccia. Insomma, il multiculturalismo (o forse sarebbe meglio dire multiculturalità) è un fatto, non una opzione politico-ideologica. L’idea di Paesi europei omogenei è semplicemente un’utopia reazionaria”. E non si tratta solo del tempo presente. “Come è risultato chiaramente dal primo convegno della Fondazione Intercultura, quello sull’identità italiana, svoltosi a Siena nel dicembre 2008, la cultura italiana (come quella degli altri Paesi europei) è storicamente, etnicamente, linguisticamente multiculturale. Solo Mussolini poteva sostenere che gli italiani fossero diretti ed esclusivi discendenti degli antichi romani (dimenticando Greci, Arabi, Normanni, Longobardi, Visigoti, ecc.)”. “Così come Babele va vissuta non come una perdita, ma come un arricchimento. Purché siamo capaci di ricomporre una comunicazione universale basata sulla accettazione della diversità: la sconcertante, incomprensibile cacofonia della Babele biblica diventerà allora armonia, polifonia culturale e umana”.

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