Berman, Ramadan e quel “sempliciotto” di Buruma
Daniele Castellani Perelli 24 July 2007

Ma chi è Tariq Ramadan? E’ un uomo pericoloso, un fomentatore di odio dalla lingua biforcuta, oppure è la vera alternativa moderata all’islamismo violento? Non è bastata la lunga polemica che lo ha recentemente contrapposto all’ex rifugiata somala Ayaan Hirsi Ali, un’ex credente musulmana che si batte oggi contro le ingiustizie che le donne islamiche sono costrette a subire solo, a suo dire, per colpa del Corano e di Maometto. L’argomento è caldo, perché la scelta tra Ramadan e Hirsi Ali riflette la posizione che l’Occidente deve prendere nei confronti della comunità musulmana (sia quella europea, sia quella araba). L’Europa e gli Stati Uniti, insomma, dovrebbero sostenere i musulmani laici o quelli religiosi?

L’eredità illuminista e la separazione tra Stato e religione dovrebbero in teoria spingere gli occidentali a dialogare soprattutto con i musulmani laici. Ma la religione non è affatto scomparsa dal discorso pubblico occidentale (si vedano i casi degli Stati Uniti e dell’Italia stessa), tanto che il filosofo tedesco Klaus Eder ha coniato l’espressione “società postsecolare”. E poi, per tutta una serie di ragioni, il mondo musulmano si riconosce certo molto di più in intellettuali religiosi come Tariq Ramadan (dal seguito eccezionale) che in laici come Ayaan Hirsi Ali (una ristretta minoranza). Allora non sorprende che a prendere le difese di Ramadan siano stati in questi mesi due intellettuali laici come il professore di Oxford Timothy Garton Ash e lo scrittore olandese Ian Buruma.

La prima polemica era nata in merito al libro di Buruma Assassinio a Amsterdam (Einaudi 2007), dedicato all’omicidio compiuto da un fondamentalista musulmano nei confronti del regista olandese Theo van Gogh, del cui film Submission proprio Hirsi Ali era stata sceneggiatrice. Sulla New York Review of Books Timothy Garton Ash, come Buruma, aveva definito Hirsi Ali “una fondamentalista dell’illuminismo”, attirandosi sul sito signandsight.com le critiche di alcuni intellettuali, tra cui il filosofo francese Pascal Bruckner, che accusò Buruma e Garton Ash di “razzismo degli antirazzisti”.

Oggi la polemica è riesplosa per il ritratto che Buruma ha dedicato a Ramadan su The New York Times Magazine (Tariq Ramadan Has an Identity Issue, febbraio 2007). Lo scrittore olandese, professore di Diritti umani e giornalismo al Bard College di New York, pur sollevando alcune riserve, ha assolto il filosofo svizzero dalle principali accuse mossegli dalla comunità intellettuale internazionale in questi anni, dall’antisemitismo al fondamentalismo islamico fino al maschilismo. Tutte accuse che lo avevano fatto bandire dalla Francia (per avere detto che intellettuali ebrei come André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy, Alain Finkielkraut e Bernard Kouchner, nel difendere la guerra in Iraq, avevano anteposto gli interessi della propria comunità ebraica ai principi universali), e che gli avevano fatto revocare un visto negli Stati Uniti, dove avrebbe dovuto insegnare all’Università di Notre Dame.

Quel “sempliciotto” di Buruma

Buruma non risparmia qualche critica a Ramadan, solleva un paio di obiezioni, ma alla fine la sua è una difesa del filosofo, nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani egiziani (FM) Hassan al-Banna. “Da quanto capisco dell’attività di Ramadan – sono le conclusioni del suo articolo – questi valori (di Ramadan, ndr) non sono né secolari né sempre liberali, ma certo non fanno nemmeno parte di una guerra santa contro la democrazia occidentale. La sua politica offre un’alternativa alla violenza che, in fin dei conti, è una ragione sufficiente per instaurare con lui un dialogo. In modo critico, ma senza paura”. La ragione non è invece sufficiente per Paul Berman, intellettuale di sinistra che però spesso si ritrova a giocare con la maglia della destra (vedi il suo sostegno alla guerra in Iraq). Nel suo lunghissimo saggio, Who’s Afraid of Tariq Ramadan?, quasi un libro apparso a inizio giugno sulla rivista americana The New Republic (e in Italia sul quotidiano berlusconiano Il Foglio), l’autore di Idealisti e Potere critica aspramente l’articolo di Buruma, verso il quale si dilunga anche in osservazioni non certo lusinghiere, accusandolo di superficialità, di volontarie omissioni se non di ipocrisia (il tutto riassumibile, ad esempio, nell’espressione, da lui usata, “the credulous Buruma”, quel sempliciotto di Buruma).

Non che Berman porti prove diverse o ricordi episodi diversi da quelli di Buruma. Semplicemente la distanza tra i due sta nel fatto che Buruma si fida delle risposte, delle spiegazioni, dell’autodifesa di Ramadan, mentre Berman non si fida affatto, e si produce in una serie infinita di illazioni. E’ la nota obiezione sulla presunta doppiezza di Ramadan, che si rifarebbe alla dissimulazione islamica, la taqiyya, professata anche dal fondatore dei FM Al-Banna. Un certo numero di accuse di Berman, tuttavia, non sembrano trovare riscontro nei recenti testi di Ramadan. Come fa Berman a dire che “Ramadan crede che l’Islam e l’Occidente siano separati – persino cosmicamente separati”, quando gli ultimi due libri del filosofo dicono esattamente il contrario? Per dire quel che dice, Berman tira fuori una vecchia citazione da Islam, the West, and the Challenges of Modernity (del 2000), ma gli ultimi due, Western Muslims and the Future of Islam e In the Footsteps of the Prophet, si sforzano di dire proprio il contrario, che cioè Islam e Occidente non sono due entità separate.

Lo spiega bene su The New York Times Book Review Stéphanie Giry, una senior editor di Foreign Affairs che per la sua recente recensione di In the Footsteps of the Prophet si è meritata da parte di Berman lo stesso trattamento riservato a Buruma (ad esempio: “Per me non è del tutto scontato che Buruma abbia letto molto di Ramadan, né che Stéphanie Giry abbia letto più di un unico libro”). Ha scritto infatti Giry: “Maometto potrà non esser stato sobrio e sensibile come dice Ramadan, ma perché mettere in discussione questo ritratto se può aiutare a riconciliare l’Islam con il liberalismo occidentale oggi? Il progetto che Ramadan afferma essere il proprio è degno di essere perseguito anche se, per alcuni, lo stesso Ramadan non può essere creduto”.

I dark rumours e la colpa della parentela

L’autore di Idealisti e Potere riempie invece la sua arringa antiramadaniana di “dark rumours”. Dapprima Berman fa capire di non volere attaccare Ramadan per via delle sue origini familiari, che lo legano ai Fratelli Musulmani egiziani, movimento islamico radicale: “Sono questioni che risalgono a un paio di generazioni fa, e Ramadan non è suo nonno, e nemmeno sembra essere un agente dell’organizzazione di suo nonno”. Poi però dedica decine di pagine all’analisi del pensiero e delle azioni del nonno di Ramadan, Al-Banna, del padre Said e del fratello Hani (il primo fu il fondatore dei Fratelli Musulmani egiziani, il secondo ne fu il rappresentante in Europa, il terzo è un fondamentalista). E infine sentenzia, contraddicendosi: “Tariq Ramadan non è altro che un figlio e fratello, e soprattutto un nipote, per non dire pronipote. Le relazioni familiari plasmano tutto quanto scrive e fa”.

Ma allora: Ramadan “non è suo nonno”, oppure “non è altro che un figlio e fratello, e soprattutto un nipote”? Qui Berman s’impiccia un po’, probabilmente perché sa che l’accusa parentale, su cui basa il proprio testo, non vale un granché.
Berman indugia lungamente sul pensiero di Al-Banna, “il modello originale di quanto poi è diventato noto come islamismo”, e poi afferma: “Tutti sanno ormai che al Qaeda fa risalire le sue radici a una scheggia staccatasi dai Fratelli musulmani in Egitto negli anni Sessanta, se non prima”. Il disegno è chiaro: tracciare una linea tra i FM e Al Qaeda, tra i parenti di Tariq Ramadan e Al Qaeda, infine tra lo stesso Tariq Ramadan e Al Qaeda, nonostante Ramadan abbia sempre dichiarato di non far parte dei FM. Così viene ritirata fuori la veccia accusa del legame tra la famiglia di Ramadan e la banca islamica svizzera al-Taqwa, sospettata di legami con Al Qaeda, solo per poi aggiungere che “ “Nulla di tutto questo toglie il fatto che Tariq Ramadan disapprovi il terrorismo”.

Il tutto viene condito, qui e là, dall’associazione tra fascismo (e nazismo) e FM, e tra fascismo e Tariq Ramadan (come quando Berman gli attribuisce la credenza in una doppia scienza, una per gli occidentali e una per i musulmani: “L’idea che la scienza e la razionalità si presentino in versioni differenti è vecchia: è lo stesso principio che, portato alle sue logiche conclusioni, indusse i nazisti a ritenere che la fisica si presentasse in una versione ariana e una ebraica, non identiche, anche se sembravano essere identiche”). Una vera e propria ossessione, visto che le parole “fascism” e “fascist” ricorrono nel testo ben 24 volte, e la parola “Nazi” 12. Il punto non è tanto la possibile associazione tra i clerico-fascisti dei primi Fratelli Musulmani e i clerico-fascisti degli anni venti italiani. Il punto è che Berman tace sull’evoluzione dei FM.

Così un lettore inconsapevole, quando gli viene propinata questa associazione tra Ramadan e i FM, sarà tentato di pensare a gente come Sayyid Qutb, che teorizzava la guerra santa contro gli occidentali. Ma così Berman ignora che i FM sono oggi riconosciuti come una speranza della democrazia egiziana dalla stessa amministrazione Bush, come hanno segnalato sul numero di marzo-aprile 2007 di Foreign Affairs lo studioso del Nixon Center Robert S. Leiken nell’articolo The Moderate Muslim Brotherhood (vedi anche intervista di Leiken a Resetdoc), e sul New York Times James Traub (Islamic Democrats?, 29 aprile 2007). Prendendo a prestito un’illazione di due altri autori che si sono occupati di Ramadan, Caroline Fourest e Paul Landau, Berman ricorda il sospetto che il progetto di Ramadan sia infine “un mondo dominato dall’Islam, con la sua controcultura musulmana a servire da quinta colonna del futuro impero all’interno dell’Europa, sotto il controllo ultimo della Fratellanza Musulmana”. L’apocalissi, infatti, è sempre dietro l’angolo.

Purtroppo per l’autore americano, Ramadan è molto di più che “un figlio e un fratello”, e sarebbe più corretto giudicarlo dai suoi libri, specialmente gli ultimi due, i più recenti, piuttosto che fare illazioni a partire dai legami di sangue, che erano punibili solo sotto il nazismo e il fascismo (la cosiddetta Sippenhaft). Ma gli ultimi due libri di Ramadan non vengono affatto citati da Berman! Non c’è un’accusa da lui avanzata che trovi riscontri negli ultimi testi del filosofo ginevrino! L’autore di Idealisti e Potere (Baldini Castoldi Dalai 2007), infatti, preferisce andare a scartabellare le vecchie opere e interpretare malignamente ogni sua frase, con la stessa attenzione con cui gli analisti della Cia analizzano i dettagli dei discorsi e dei video di Osama bin Laden.

Osama bin Laden o Benedetto XVI?

Il discorso non poteva non tornare su Ayaan Hirsi Ali. Berman ne prende le difese e si stupisce che Buruma usi per lei la stessa espressione che adopera per Ramadan: “Ci trovammo d’accordo quasi su tutto” (riferito al filosofo svizzero), e “Ammiro Ayaan Hirsi Ali, e concordo con la maggior parte delle cose per cui si batte”. Berman se ne stupisce, lasciando intendere che questa sarebbe un’altra prova dell’inaffidabilità di Buruma. Ma non bisogna stupirsi. Fuori dai furori ideologici, fuori dal mondo degli opposti estremismi, è possibile condividere parte della battaglia di Hirsi Ali, e parte della battaglia di Ramadan. Come non solidarizzare con le atrocità sofferte da Hirsi Ali? Come non vedere, anche, che la religiosità di Ramadan è della stessa natura che respiriamo nelle nostre chiese cristiane?

Anche un laico non-musulmano che, per mancanza di fede, si senta più vicino alla laica Hirsi Ali, dovrebbe riconoscere che la ex rifugiata somala rappresenta una minoranza del mondo musulmano, e che se vogliamo aprirci all’altro, al mondo musulmano, dobbiamo cercare interlocutori rappresentativi, non gli interlocutori che scegliamo noi, quelli più simili a noi (quanto a laicità). Per quanto riguarda i modi del discorso, poi, la serena moderazione di Ramadan aiuta molto di più il dialogo rispetto alle provocazioni di Hirsi Ali (lo abbiamo chiesto a lei di persona, in una recente intervista: “Lei ha definito Maometto un ‘tiranno’ e un ‘pervertito’. Non crede che un linguaggio così provocatorio possa essere controproducente?”).

Non è un caso che Berman, tra i suoi amici italiani, citi Magdi Allam e Fiamma Nierenstein, due figure che è difficile chiamare in causa come campioni del dialogo o come testimoni di un atteggiamento imparziale. Non è nemmeno un caso che, a proposito della discussa richiesta di moratoria per la lapidazione e per le pene corporali nel mondo islamico, ovviamente bocciata da Berman, abbia scritto saggiamente Jonathan Laurence su Foreign Affairs, sul numero di maggio-giugno 2007: “Richiedendo una moratoria, Ramadan evita l’equivalente islamico della scomunica. Come risultato, è molto più probabile che i suoi libri influenzino il pensiero dei musulmani osservanti più di quanto facciano i proliferanti ‘testimonial ex-musulmani’ disponibili nelle librerie occidentali”.

Ma d’altronde, al contrario di quello che pensa Giry, per Berman Ramadan non va mai bene mai. Non va bene neanche quando difende lo stato d’Israele (“Alcuni passaggi del suo scritto (l’ultimo libro di Ramadan su Maometto, ndr) potrebbero far pensare che se gli studiosi del Corano volessero mai formulare una dettagliata base scritturistica per il riconoscimento da parte musulmana di uno stato ebraico, le rivelazioni profetiche potrebbero risultare, ad un attento esame, più elasticamente flessibili di quanto si potesse immaginare precedentemente”). Berman rimprovera a Ramadan, infine, il suo essere no-global, il suo pacifismo, e la sua fede senza dubbi. Ma il suo essere no-global non arriva mai a rinnegare la sua appartenenza alla civiltà europea e in qualche modo all’Occidente, e in questo si dimostra più moderato e più occidentale di tanti esponenti dell’estrema sinistra che spesso hanno condiviso le sue battaglie. Il suo pacifismo, nella seconda guerra americana contro Saddam Hussein, è stato condiviso peraltro da papa Giovanni Paolo II e da gran parte dell’opinione pubblica occidentale e mondiale. E come fare una colpa della mancanza di dubbi a proposito di Dio, professata da Ramadan? Anche in questo, in fondo, egli si dimostra molto simile a un cattolico ortodosso. Tariq Ramadan, e qui sta l’errore di Berman, è certo molto più vicino a papa Benedetto XVI che a Osama bin Laden.

Cosa è cambiato

Il lungo saggio di Berman non aggiunge molto alla discussione, sebbene sia molto accurato e soprattutto ben confezionato. E’ interessante, tuttavia, quella sua domanda finale: come è possibile che ieri Salman Rushdie sia stato difeso da tutti, quando è stato minacciato di morte, e oggi Ayaan Hirsi Ali sia molto criticata da una parte dell’establishment intellettuale internazionale, New York Times incluso? Berman dice che “Solo fino a qualche anno fa, una campagna accusatoria come quella sostenuta contro Hirsi Ali non avrebbe trovato posto. E’ una svolta reazionaria nel mondo intellettuale”. E poi, a proposito delle difese nei confronti di Ramadan: “Com’è potuto accadere? Cosa può giustificare tutta una serie di simili pasticci, incertezze, gaffe, omissioni, fraintendimenti e calunnie?”. Lo scrittore americano si dà come spiegazione “l’inimmaginabile ascesa dell’islamismo dai tempi della fatwa che colpì Rushdie” e il terrorismo. Ora, a parte il fatto che quando uno scrittore amato in tutto il mondo riceve una fatwa globale da uno dei più terribili regimi del mondo attira molta più simpatia di quanto faccia un politico locale molto discusso anche in patria, quale era Ayaan Hirsi Ali al momento delle minacce olandesi. Comunque spiegare tutto con l’aumento del terrorismo, come fa Berman, non basta.

La necessità di dialogare con la comunità musulmana, e di accettarla e farla integrare in Europa, porta alla necessità di trovare leader rappresentativi di questa comunità. Leader come Tariq Ramadan, non come Ayaan Hirsi Ali. Berman dimentica anche quanto male abbia fatto al rapporto tra mondo musulmano e Occidente la guerra in Iraq. Una guerra che non può certo essere un alibi per i terroristi, ma che aiuta a spiegare alcune tensioni del rapporto col mondo islamico. Ma Berman ignora questo punto: la parola “Iraq” è citata solo sette volte nel suo lungo saggio (e perlopiù è riferita alla querelle francese di Ramadan). La parola “Bush” ritorna solo due volte. Forse, per rispondere alla domanda di Berman, anche questo è cambiato dai tempi della fatwa a Rushdie: le comunità musulmane in Europa sono diventate più consistenti, e la guerra in Iraq ha aumentato le tensioni tra i due mondi. Anche per questo, oggi, dialogare con leader come Tariq Ramadan significa semplicemente prendere atto della realtà che ci circonda, e tentare di dare risposte realistiche.

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