Afghanistan, dieci anni di guerra
Antonella Vicini 6 October 2011

Dieci anni dopo le prime bombe della coalizione sull’Afghanistan, su Kabul risuona l’eco di una chitarra elettrica e di musica rock. O almeno ci prova. Il concerto che una settimana fa si è svolto nei giardini di Babur, che con più di dieci ettari costituiscono il più ampio spazio verde della città, è stato infatti una vera e propria esplosione di suoni, voci e vita. Forse il modo più eloquente per celebrare la prima decade di libertà formale dal potere dei Taliban, quando la musica, men che mai quella rock, era proibita. A dire il vero, erano più di trent’anni che a Kabul non accadeva qualcosa di simile. Per suonare l’indie, il death metal o il blues sono arrivati anche dall’Australia, dall’Uzbekistan, dal Kazakhstan. Volevano sconfiggere, forse, quell’idea che in Afghanistan non esista una via d’uscita, senza pensare che la situazione della sicurezza in questa decade è andata via via deteriorandosi. Quando i talebani presero il potere, alla fine di una sanguinosa guerra civile, fu proprio il ritorno all’ordine a garantire loro il sostegno iniziale da parte della popolazione. Ora, dieci anni dopo la loro caduta e l’instaurazione di un regime che, con tutte le sue carenze, ha i tratti della democrazia, quel che manca è di nuovo l’ordine.

I numeri parlano chiaro e il primo è una percentuale: + 39 per cento, la media degli di attacchi mensili rispetto allo scorso anno. A dirlo sono le Nazioni Unite in un rapporto reso noto alla fine del mese di settembre, secondo cui gli “incidenti” legati alla sicurezza sono stati 2108 ogni mese, con un incremento del 39% se paragonato allo stesso periodo nel 2010. La principale causa è rappresentata dagli scontri armati (tra insurgents – come definisce la Nato tutti quelli che genericamente si oppongono alla presenza straniera – e militari) e dagli Ied (improvised explosive devices), azionati a distanza o a pressione che rappresentano una delle insidie peggiori anche per i militari. Gli “insorgenti”, si legge ancora nel testo delle Nazioni Unite diffuso da Ban Ki-moon, “hanno proseguito con le loro campagne di intimidazione, attraverso assassinii mirati di esponenti di alto livello della sicurezza, della politica e della religione”. L’esempio più eclatante è l’omicidio di Burhanuddin Rabbani, avvenuto a una settimana dall’attacco di venti ore che ha preso di mira il quartier generale Isaf, la zona dell’ambasciata Usa e alcuni edifici della polizia afghana nei pressi cosiddetta Green Zone di Kabul. In entrambi i casi si è trattato di una sfida alla Nato, una sfida vinta dai talebani che hanno dimostrato di poter agire indisturbati anche nel centro della capitale, in una delle zone che dovrebbe essere tra le più controllate, e di poter bloccare quel processo di riconciliazione, lanciato nel gennaio 2010 durante la Conferenza di Londra, uccidendone uno dei simboli.

Rabbani, ex signore della guerra, tagiko, odiato da quella parte della popolazione che ha subito la violenta repressione degli uomini di Massoud, era a capo infatti dell’Afghan High Peace Council. La jirga che Hamid Karzai si era prefissato di organizzare entro un anno dall’inizio dei suoi lavori non c’è ancora stata e, nei giorni scorsi, il presidente afghano ha annunciato che anche “il dialogo con i talebani” è stato interrotto perché “non conosciamo i loro indirizzi e non sappiamo dove trovarli”. Lo ha detto dall’India, un luogo simbolo dello spostamento degli equilibri nella regione.

Oltre alla reintegrazione e alla riconciliazione, un altro dei punti chiave nella stabilizzazione dell’Afghanistan tracciati nella road map di Londra è proprio la regionalizzazione della questione, intesa come cooperazione regionale: lotta al terrorismo, cooperazione economica, cooperazione nel commercio di transito, lotta al narcotraffico, al contrabbando di armi e rafforzamento della sicurezza alle frontiere. Il Pakistan, considerato da tutti, Stati Uniti in primis, un alleato chiave in questo senso sta subendo però una sorta di marginalizzazione a causa della presenza sul suo territorio dei gruppi militanti che si oppongono alle forze occidentali e afghane; una marginalizzazione sancita mercoledì scorso dalla firma di un accordo di partnership strategica tra Afghanistan e India. Sebbene Karzai abbia precisato che “il Pakistan è come un fratello gemello, l’India un grande amico”, l’ammiraglio Mike Mullen ha ufficialmente attribuito al clan Haqqani e ai servizi segreti pakistani l’attacco al quartier generale Isaf, mentre l’assassinio di Rabbani è stato addebitato dal governo afghano al cosiddetto “fratello gemello”.

La sicurezza è un altro dei focus, anzi il focus principale emerso nella Conferenza di Londra. E, come si accennava, il quadro non offre oggi elementi confortanti. La crescita del numero di attacchi che si verificano ogni mese, come ricorda Jacques Maio, il referente della Croce Rossa Internazionale per l’Asia Meridionale, ha delle conseguenze anche sull’accesso alle cure nelle zone più colpite dal conflitto. In alcuni casi, gli ospedali sono stati chiusi a causa dei combattimenti, degli attacchi agli edifici o delle minacce allo staff. “Nonostante il miglioramento della qualità della vita per una parte della popolazione negli ultimi dieci anni, la situazione in alcune zone resta allarmante”, spiega Maio.

Nel rapporto di metà anno di Unama si dice chiaramente che c’è stato una crescita del 15 per cento delle morti civili. “I bambini afghani, le donne e gli uomini continuano a essere uccisi e feriti con un ritmo allarmante”, ha sottolineato Staffan de Mistura, rappresentante speciale di Ban Ki-moon in Afghanistan. Sono 1462 i civili che hanno perso la vita fino allo scorso giugno, l’80 per cento dei quali a causa di elementi antigovernativi; il 14 per cento a causa delle forze alleate e il 6 per cento per altri fattori. La qualità della vita è certamente uno di quelli. Case di fango e paglia, senza acqua corrente e a volte elettricità, sono entrate nell’immaginario collettivo, come quei bambini che camminano scalzi, ricoperti della sabbia che avvolge anche le loro mamme, nascoste sotto il burqa. Le madri a volte i figli li vendono. Sono costrette. E, certo, non solo in Afghanistan.

Qualche esempio. Save the Children denuncia che nella provincia di Jawzjan, al confine col Turkmenistan, circa il 28% dei giovani fra i 5 e i 15 anni è stato venduto dai propri genitori o tutori. Donne e bambini restano le vittime più frequenti anche del traffico di esseri umani. Lo scorso 27 giugno, Hillary Clinton ha presentato il rapporto del Dipartimento di Stato sul tema e ciò che ne è emerso è che l’Afghanistan è fonte, meta e via di transito di esseri umani. Il 60% dei quali viene spostato all’interno del Paese e il restante viene trasferito negli Stati confinanti, come Iran e Pakistan. Nel primo caso si tratta principalmente di uomini e ragazzi, utilizzati per lavori pesanti e in minima parte avviati alla prostituzione; nel secondo, invece, si tratta di ragazze obbligate a prostituirsi o impiegate, in misura minore, nella lavorazione dei tappeti. Uno dei dati più significativi è che la maggior parte di loro dice di non voler tornare a casa per via della situazione che troverebbe: mancanza di sicurezza, di lavoro e di un ambiente familiare pronto a riaccoglierle.

Esiste poi il fenomeno dell’auto-immolazione: donne che si danno fuoco, vedendo in questo tragico sacrificio l’unico modo per sfuggire a un mondo che non offre nessuna speranza. Sono per lo più persone oppresse dalla propria famiglia di origine o da un marito violento e spesso dedito all’oppio. A Herat, la zona sotto il controllo italiano, c’è un centro specializzato, un cosiddetto burn center. Se ne parla poco, ma questa realtà è molto più diffusa di quel che si pensi, tanto che quest’anno è partita una campagna governativa di sensibilizzazione. Secondo i dati diffusi dalle istituzioni, nel 2010 negli ospedali sono stati registrati 22mila casi del genere.

La questione della sicurezza fa il paio con la questione delle coltivazioni di oppio, principale fonte di reddito dei gruppi militanti. Far fronte a questo problema è quindi uno degli obiettivi prioritari della coalizione, non ancora raggiunto. Infatti, solo nel 2009 il traffico di droga ha portato ai talebani 155 milioni di dollari. Quello stesso anno l’ammiraglio Mullen ammetteva che la lotta contro il narcotraffico promossa dalle forze armate straniere non aveva fruttato “quasi alcun successo”.

Nel 2010, secondo UNODC, la situazione è lievemente mutata: la coltivazione del papavero da oppio ha registrato un lieve incremento a livello mondiale, ma un calo del 38% in Afghanistan. Non si può dire, però, che in questo caso il merito sia di una cultura della legalità che inizia a diffondersi nel Paese o delle politiche delle Nazioni Unite; il merito è piuttosto di una patologia delle colture che ha distrutto gran parte del raccolto. Nel 2011, invece, il quadro è tornato altalenante: lieve calo in alcune zone del sud, come Helmand e Kandahar, dove l’oppio ha però la diffusione più ampia, e maggiore crescita in altre province meno importanti del nord, come Badakhshan, Baghlan e Faryab. Resta il fatto che questo fiore che si intaglia, e dalle cui capsule esce un lattice “prezioso”, sembra davvero radicato nel destino del Paese, anche per ragioni agricole: in una terra tanto dura e ostile i semi del papavero riescono a crescere, infatti, anche senza bisogno di acqua, né di pesticidi. Nel contempo, però, gli agricoltori afgani si sono resi conto che la cannabis è una cultura ancora più redditizia dell’oppio e si sono aggiudicati il primato anche in questo settore.

Reintegrazione e riconciliazione; regionalizzazione; sicurezza e lotta al traffico di droga sono questioni ancora lontane dall’essere risolte, ma sono nello stesso tempo propedeutiche a quella che viene definita l’afghanizzazione del Paese e cioè il ritorno dell’Afghanistan nelle mani degli stessi afghani. Una deadline è stata già fissata, ma il 2014 non è poi così lontano e ad oggi c’è chi, come Malalai Joya, la ex parlamentare costretta alle dimissioni per aver denunciato la presenza di signori della guerra e di personaggi collusi con i talebani nelle nuove istituzioni, ritiene che: “dopo una decade l’Afghanistan resta ancora il Paese più instabile, il più corrotto e il più martoriato dalla guerra nel mondo”.

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x