“Accettare la diversità, fino al limite possibile”
Giuliano Amato 18 September 2007

Considero i connotati specifici usualmente attribuiti alla società “secolare” uno dei tipici espedienti dei quali gli uomini si avvalgono per abbattere gli ostacoli che hanno di fronte nelle fasi di cambiamento. Due secoli fa, nonostante risalisse addirittura al nostro Rinascimento la cultura che aveva smarcato il potere civile dalla legittimazione divina, avevamo ancora in più paesi d’Europa la religione di Stato, il cuius regio eius religio e difficili riparti di vera e propria giurisdizione fra autorità civili e autorità religiose. E fu per liberarsi di tutto questo che venne disegnato il secolarismo come totale affrancazione della sfera pubblica dalla religione e venne configurata la stessa religione come affare soltanto privato: massime garanzie sul terreno della libertà (sottolineandosi per di più che doveva trattarsi di libertà individuale, non necessariamente di libertà delle organizzazioni religiose) e nessuna interferenza invece negli affari collettivi.

Così concepita, la società secolare è un’ideologia e la realtà era destinata a uscirne fuori. A prescindere da ogni altra considerazione, in quella che è stata la generale evoluzione delle nostre società verso il pluralismo dei soggetti individuali e collettivi, le organizzazioni religiose sono naturalmente divenute attori sociali di primo piano. E quindi, se è questo che si vuol dire quando si parla di passaggio da “secolare” a “post-secolare”, il passaggio non lo vedo come tema di discussione, ma come fatto. Tema di discussione è come si sta nella sfera pubblica e se lo starci abiliti o meno a recuperare quegli spazi giurisdizionali che il moto secolare acquisì alle autorità civili. Ma questa è un’altra discussione. Una chiosa, caso mai, può essere utile: nel sottofondo dei principi che giustificarono l’espulsione della religione dalla sfera pubblica agli albori del secolarismo, c’era anche l’idea (peraltro non altrettanto condivisa) della espulsione dalla medesima sfera delle questioni etiche, destinate esse stesse a essere gestite come affare privato e non attraverso regolazioni pubbliche. È indubbio che, per miriadi di note ragioni, la frequenza con la quale il legislatore civile viene chiamato a risolvere questioni etiche è al nostro tempo crescente. E c’è anche questo nei connotati “post-secolari”.

Il dilemma di Böckenförde è, da quando essa esiste, il dilemma esistenziale della democrazia liberale, la quale da una parte contraddice i suoi principi se non garantisce libertà anche a chi la vuole distruggere, dall’altra non può consentire che la distruzione giunga a compimento. Nella vicenda della storia, la contraddizione ha tuttavia trovato le sue regole per essere gestita. La più nota è la “clear and present danger rule” elaborata dalla Corte suprema degli Stati Uniti, che protegge in modo incondizionato la libertà di pensiero, sino a quando essa non si trovi a far la parte del “grilletto”, che fa esplodere l’azione sovversiva. Su questo fondamento, e con dilatazioni a volte cospicue dei suoi margini, tante altre regole sono state inventate per combattere tempestivamente i “nemici”. E se uno si volta indietro, non può non arrivare a una conclusione. Il dilemma esistenziale lo si è storicamente risolto riservando il massimo di garanzia a tutti coloro che si collocano entro la piattaforma dei consensi/dissensi volta a volta ritenuti compatibili con la sopravvivenza dell’insieme e lasciando invece in un limbo assai meno garantista il dissenso che si colloca fuori dalla piattaforma.

È questo un difetto della democrazia liberale? O non è invece la naturale conseguenza del suo essere il reggimento degli esseri umani che ne condividono i principi basilari e che quindi non portano le diversità di opinioni e anche di interessi al punto di giustificare la messa a repentaglio dei diritti fondamentali di coloro che hanno opinioni o interessi diversi? È chiaramente la seconda la risposta che danno quelli come me che se ne sentono figli. E per questo concludono che essa è affidata, prima ancora che alle sue regole (e alle contraddizioni in cui le sue regole la fanno cadere) alla costruzione – direbbe Gramsci – di una egemonia liberale, che compete ai suoi protagonisti culturali e sociali. Ci adopriamo in questo senso e, davanti alle tante diversità che il mondo di oggi mette insieme, badiamo bene a non essere né assimilazionisti, né integrazionisti, e cerchiamo piuttosto di delineare percorsi di feconda contaminazione all’insegna dell’accettazione reciproca. Scacciamo ogni giorno il demonio – abissalmente realista – che ci ricorda di continuo che la storia non ha ancora dimostrato la capacità della democrazia liberale di reggere fedele a se stessa al di fuori delle isole felici in cui fu inizialmente concepita.

Giuliano Amato, già docente di diritto costituzionale presso l’Università di Roma La Sapienza e docente presso l’Istituto Europeo di Firenze, è attualmente Ministro degli Interni. Tra le sue ultime pubblicazioni: Noi in bilico. Inquietudini e speranze di un cittadino europeo (Laterza, 2005).

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Reset, numero 101.

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