Una tigre bianca nelle Tenebre
Daniele Castellani Perelli 4 November 2008

In India ci sono due tipi di persone: quelli che possono permettersi il liquore inglese, e quelli che bevono solo liquore indiano. In questo paese, che assomiglia molto al mondo di oggi, esistono un’India di luce e una di Tenebre, e la abitano solo due caste: quella degli uomini con grandi pance e quella degli uomini con piccole pance. In questo paese vive Balram Halwai. Nato poverissimo in un villaggio dell’interno dell’India, Balram racconta in prima persona la sua vita. La miseria del suo villaggio, dove è costretto a dormire nello stesso letto con tutti i maschi della sua famiglia. Gli insegnanti che dormono. L’educazione interrotta. La superstizione, i matrimoni combinati, le raccomandazioni, le umiliazioni. La morte per tubercolosi del padre, che sogna che il figlio non sia un servo come lui. E poi la svolta definitiva, l’assunzione come autista privato in città, alle dipendenze di Mr. Ashok, ricco brillante e appena tornato dall’America.

Questa storia ricca di humor e di colpi di scena anima il primo romanzo del giovane Aravind Adiga, La tigre bianca (pp. 232, 19 euro, Einaudi 2008), che con quest’opera ha appena vinto il prestigioso Booker Prize (che in passato era andato anche a Salman Rushdie). Adiga, ex corrispondente della rivista americana Time, smonta il mito di Bangalore e dell’India supertecnologica lanciata verso il futuro, o almeno ne mostra il lato oscuro, quello di cui, come ha scritto il Sunday Times, “l’ente del turismo indiano non sarà contento”. Balram, con tono comico e cinico, racconta i poveri che defecano all’aria aperta negli slum di Delhi, le tangenti che stanno dietro a ogni affare tra politica e imprenditoria, la povertà e le malattie che colpiscono quanti non sono minimamente toccati dagli effetti positivi della globalizzazione.

La penna corrosiva dell’antieroe Balram non risparmia nessuno: i ricchi (corrotti e crudeli), i poveri (servi e cinici), i musulmani, i finti ossequi a Gandhi. Il romanzo è costruito attraverso le lettere che Balram, ricercato (ma non troppo) dalla polizia a causa di un omicidio, manda alla scrivania di Sua Eccellenza Wen Jiabao, primo ministro della Cina. L’espediente è anche un modo in più, per l’autore, per giocare più o meno seriamente sul grande dibattito geopolitico contemporaneo, su quello che Balram definisce il trionfo della “umanità gialla e marrone” sui bianchi. Sui sedili posteriori della macchina guidata da Balram, infatti, il suo capo Mr. Ashok confronta il modello politico-economico americano a quello indiano e cinese, e le contraddizioni con cui propende una volta per quello cinese e un’altra per quello americano rispecchiano l’incertezza della classe dirigente indiana, e l’incapacità dell’India (“La più grande democrazia del mondo”, secondo i PR filoindiani) di seguire in tutto e per tutto l’esempio americano.

Mr. Ashok, appena tornato dall’America, aveva sperato di importare nel suo paese quel modello, ma la dura realtà delle mazzette, dell’ignoranza e dell’avidità lo spingono a cambiare idea, ad arrangiarsi e a invocare per l’India il modello autoritario cinese. L’evoluzione del personaggio di Mr. Ashok ispira l’evoluzione di Balram stesso, che da tigre bianca (“l’animale più raro della giungla”) deciderà di trasformarsi in qualcosa d’altro, conscio che in India i destini sono soltanto due, mangiare o essere mangiati. Si adatterà all’ambiente, si sporcherà le mani ancora più degli altri, e così guadagnerà finalmente il rispetto della società. Una parabola inquietante, che Adiga ha il merito di raccontare in maniera divertente, assai piacevole, un po’ come aveva fatto per il Pakistan Mohsin Hamid ne Il fondamentalista riluttante (non a caso entrambi gli autori hanno vissuto a lungo in Occidente, e infatti ambedue i libri possono essere letti come dei dialoghi tra l’Occidente e l’Asia; il libro di Adiga è piaciuto molto a Hamid, che ha definito il collega “un talento che converrà tenere d’occhio”). Sembra quasi non esserci speranza per l’India: “Mai prima nella storia dell’umanità così pochi hanno dovuto così tanto a così tanti, Mr. Jiabao – scrive Balram – In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99%, uomini altrettanto forti, abili e intelligenti, a vivere in un perenne stato servile”. Il crudo romanzo di Adiga, però, potrebbe aiutare l’Occidente a non chiudere un occhio sull’altra India. Quella che non ha il computer, e ben poco da mangiare.

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