“Uno show per preparare l’attacco a Teheran”
Samir Al Qaryouti, opinionista di Al Jazeera, intervistato da Amara Lakhous 6 December 2007

Samir Al Qaryouti, nella dichiarazione congiunta del summit di Annapolis non si fa cenno alle questioni “centrali”, come lo status di Gerusalemme o la questione palestinese. Si afferma soltanto che la pace verrà siglata entro il 2008. Come giudica tutto ciò?

Non si è visto mai nella storia che un lungo processo di pace, a seguito di un duro e annoso conflitto, possa essere improvvisamente portato a conclusione, nel giro di pochi mesi. Se si parla di realizzazione della pace entro il 2008, qualcuno ha evidentemente deciso che tutto ciò che è stato oggetto di negoziati per circa quindici anni, dal 1993 in poi, non ha avuto alcun senso. Quando si parla di “dichiarazione congiunta” o “d’intenti”, come qualcuno la definisce, infatti, non si affrontano i nodi fondamentali del problema. Ovvero quei cinque punti, definiti in tutte le lingue, fondamentali per una soluzione definitiva del conflitto: l’importante questione dello status di Gerusalemme; il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in Palestina, come sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite; la questione degli insediamenti israeliani o delle cosiddette “colonie ebraiche” nel territorio della Cisgiordania; il nodo cruciale degli ormai 11.500 circa prigionieri politici palestinesi e, infine, le risorse idriche, un punto-chiave non soltanto in Palestina ma per tutto il Medio Oriente. Occorre ricordare, infatti, che le centinaia di attuali insediamenti in Cisgiordania sottraggono fonti idriche a tutti i villaggi e alle grandi città palestinesi circostanti. Basta girare un po’ per accorgersene: per un insediamento di un centinaio di persone, vengono creati pozzi e impianti che privano la maggior parte degli abitanti e degli agricoltori di una risorsa essenziale per la vita quotidiana.

Tornando al summit di Annapolis, alcuni analisti hanno definito i protagonisti – Bush, Olmert, e Abbas in primis – come i “deboli”. Bush, dicono, è debole per l’esito della guerra in Iraq, e Abbas per il fatto che l’autorità palestinese è divisa in due, Gaza da una parte e Ramallah dall’altra. È possibile siglare un accordo di pace con protagonisti e partner “deboli”?

Questa debolezza dimostra che il vertice di Annapolis, per tutti e tre i leader citati, non è stata che una vetrina di pubbliche relazioni, un vuoto cerimoniale. Tutti noi abbiamo visto i sorrisi dipinti sul volto di Bush mentre parlava con Olmert, gli stessi sfoggiati alla Casa Bianca quando discuteva con Abbas. Questa immagine mi ha lasciato veramente triste, perché Abbas stava ascoltando consigli politici, mentre Olmert parlava con Bush soprattutto nei colloqui privati. Nella cerimonia più generale, naturalmente, l’incoraggiamento era: “Abbas, va’ avanti”. Perché questa debolezza di Abbas? Essa, anzitutto, non è dovuta soltanto alla divisione del popolo palestinese, ma anche all’assenza di una base popolare che possa sostenere questo leader in un processo così complesso. In secondo luogo, Abbas è l’autore, per così dire, degli accordi di Oslo, i cui risultati sono sotto gli occhi dei palestinesi e del mondo intero. Se da quindici anni non si riesce a concretizzare gli accordi di Oslo così come li ha voluti Abbas, come ci si può aspettare che, stando alla scadenza ufficiale, entro marzo al massimo tutti i problemi saranno risolti? Sorge il sospetto, dunque, che questa conferenza sia stata organizzata per insabbiare i fallimenti di George Bush in Iraq, in Afghanistan e nella lotta al terrorismo.

Non soltanto il presidente americano si trova in difficoltà, ma ha fallito completamente nella sua politica. Quanto a Olmert, il suo fallimento non è legato a scandali di corruzione ma alla guerra del Libano, perché non è riuscito a realizzare il suo compito, e i risultati – una novità assoluta per quell’area del Medio Oriente – sono sotto gli occhi di tutti. L’unione di queste tre debolezze, con la testimonianza di quasi tutti i Paesi arabi (tranne uno o due), delle organizzazioni internazionali e dell’Unione Europea, difficilmente potrà fruttare qualcosa di concreto. Lo dimostrano le dichiarazioni dei vari ministri degli Esteri che hanno partecipato al summit: nessuno aspetta, tutti parlano delle difficoltà. Ma allora, se le insidie sono così numerose, perché si è avuta tutta questa fretta nel promuovere la Conferenza, se non per motivi mediatici e propagandistici, magari per favorire Bush? Quest’ultimo, infatti, non è certo nelle condizioni di poter lasciare la Casa Bianca come ‘uomo della pace’ – come qualcuno vorrebbe –, destinato a entrare nella storia. Non ha le carte in regola per farlo: dovremmo cancellare la guerra contro l’Iraq o l’Afghanistan, e tutta la tensione che serpeggia nel mondo per quanto è accaduto durante i suoi mandati.

Allora si può dire che l’obiettivo principale del summit di Annapolis sia stato isolare l’Iran? È questo il vero scopo, come sembra suggerire anche la partecipazione di numerosi Paesi arabi (“Paesi sunniti”, si è detto)?

Se l’obiettivo è isolare l’Iran, forse possiamo anche essere soddisfatti. Il timore, la paura e lo spavento, però, è che lo scopo non sia questo, bensì la costituzione di un fronte anti-iraniano per lanciare tra pochi, pochissimi mesi o addirittura settimane, una guerra guerreggiata contro l’Iran. Basta leggere le dichiarazioni di alcuni intellettuali israeliani, come Benny Morris in un’intervista rilasciata alla “Stampa” qualche giorno fa. Le parole di Morris, in particolare, fanno rabbrividire: la questione palestinese – afferma questo grande storico israeliano – nulla ha a che fare con Annapolis, né gli arabi contano alcunché; la prima e unica preoccupazione è colpire l’Iran. Israele è intenzionato a muoversi in questa direzione, ma non può farlo servendosi delle sue armi tradizionali perché sono insufficienti, allora è costretto a ricorrere agli ordigni nucleari. Che vorrebbe dire un disastro completo. Nella stessa intervista, concessa in occasione dell’uscita di un suo libro in Italia, Morris ha detto: ‘Noi abbiamo fatto un favore ai palestinesi quando li abbiamo cacciati nel ’48, altrimenti ci sarebbe stato un secondo Olocausto’. Queste sono parole molto gravi, e il timore è che conducano al fronte della guerra contro l’Iran. Paese che non è come l’Iraq o gli altri vicini arabi, bensì rappresenta uno Stato storicamente più unito e fedele alla propria identità persiana. E non credo che una guerra o il ricorso alla forza contro l’Iran possa risolvere questo problema, come qualcuno immagina. Se Israele pensa di risolvere così questa sfida, o di spingere gli Stati Uniti a farlo, invito tutti a ricordare l’esempio dell’Iraq, dell’Afghanistan e soprattutto del Libano, sotto la responsabilità di Israele. Io, intanto, mi chiedo: dove andiamo?

Il summit di Annapolis ha accentuato ulteriormente le divisioni tra palestinesi, quindi tra Fatah e Hamas. È possibile ricompattare questo fronte, e in che modo?

Il conflitto inter-palestinese è una realtà, purtroppo. Al Fatah ha commesso alcuni errori tragici, non soltanto nel giugno scorso ma ancora prima delle elezioni di due anni fa. Gli errori di Al Fatah sono incalcolabili: politici, strategici, di tutti i generi. Il sostegno dato a un’autorità nazionale palestinese profondamente corrotta, poi, ha fatto pagare per molti anni un prezzo altissimo al popolo palestinese e ai militanti di Al Fatah, che sono una maggioranza. La vittoria di Hamas non è stata interamente frutto del consenso dei suoi militanti: molti simpatizzanti di Al Fatah hanno votato Hamas. In particolare, tutti coloro che erano delusi e arrabbiati per la corruzione dilagante, ed estenuati dalle trattative di Oslo, che non hanno portato a niente. La responsabilità per tutto ciò che è successo, dunque, va addossata ad Al Fatah, all’Autorità nazionale palestinese e ad alcuni suoi elementi e correnti, come il Comandante della Sicurezza – non voglio fare nomi, ma tutti lo conoscono –, che hanno portato a questo scontro dopo gli accordi di Mecca. Hamas ha le sue responsabilità, non c’è dubbio. Soprattutto per gli atti di violenza più recenti, come il 12 novembre scorso, quando alcuni militanti hanno aperto il fuoco contro civili inermi durante le celebrazioni della morte di Arafat. Hamas è inguaiato, sin dalla sua vittoria elettorale. Ha formato un governo, ma va detto che non gli hanno permesso di governare neanche per un’ora: ha avuto tutti contro.

E l’autorità nazionale palestinese ha accentuato tutto ciò contrastando puntualmente le sue iniziative politiche, anche prima dell’insediamento del governo di unità nazionale. Ora, il valore dell’unità nazionale è sacro per il popolo palestinese. Da palestinese, posso dire che nell’ultimo secolo, o giù di lì, i palestinesi non sono mai entrati in conflitto tra loro. Tranne una volta, dopo i fatti del 1982 a Tripoli e in Libano, nel tentativo – come poi si è appurato – di liquidare l’Olp e Al Fatah in modo cruento, con le armi, per mano di alcuni scissionisti poi rientrati nelle fila del movimento palestinese. Naturalmente, in tutti questi anni i palestinesi hanno sempre mantenuto un senso di responsabilità verso l’unità nazionale, e sono sicuro che questo popolo farà pressione sia sull’Anp che su Hamas per ritornarvi. Alle prossime elezioni, le due formazioni politiche – ne sono più che sicuro – verranno estromesse senza troppi complimenti se non cambieranno rotta, perché tra il popolo palestinese serpeggia ormai una frustrazione senza precedenti. Se la dichiarazione di Annapolis non verrà applicata – e io sono sicuro che non ci sarà nessun risultato –; se cioè dovesse emergere, in un prossimo futuro, il fallimento di Abu Mazen, nessuno salverebbe la regione dalla Terza Intifada. Stavolta non si scatenerà contro Israele, ma sull’Autorità nazionale palestinese e la maggior parte dei regimi e governi arabi che hanno accettato o tollerato che si arrivasse fino a questo punto.

Olmert ha invitato i Paesi arabi a non boicottare il processo di pace e ha detto: Israele è disposto a fare concessioni dolorose. A cosa si riferisce, secondo lei?

Non mi fido di Olmert, lo dico con molta chiarezza. Il piano di pace arabo è ben noto, chiaro, trasparente: prevede il ritorno ai confini del 4 giugno 1967, punto e basta. Non c’è da discutere alcunché. Questa è l’iniziativa da intraprendere, lo confermano tutte le risoluzioni internazionali. Ora, quando Olmert dice che ci saranno decisioni dolorose non fa che adombrare un’incognita: non si sa come interpretare le sue parole. Lui è il maggiore paladino della Gerusalemme unificata, quindi non è disposto a trattare sulla questione della spartizione. Lui vuole scambiare il territorio del ’48 con alcuni insediamenti, i più estesi. Lui ha lasciato 200 mila cittadini arabo-palestinesi di Gerusalemme fuori dalla loro città costruendo un muro di “separazione razziale”, come noi lo chiamiamo. E poi, l’ultima trovata: ha voluto da Abu Mazen, prima di questo vertice, il riconoscimento del carattere ebraico dello Stato di Israele. Ponendo fine, in tal modo, al problema palestinese tout court. E annientando, di conseguenza, la causa palestinese e il diritto di ritorno dei profughi; il diritto dei palestinesi, cioè, a vivere in Israele. Infatti, basta che ci si imbatta in un palestinese musulmano o cristiano per intimargli: “Tu non sei ebreo, allora via”. Dove? È questa la domanda cruciale. Non so se Olmert intenda tutto ciò, quando parla di “cambiamenti dolorosi”. Avrebbe dovuto affermare, piuttosto, che accetta l’iniziativa araba; ma non l’ha fatto, nemmeno nella dichiarazione congiunta. Lui non ha mai dichiarato tutto ciò.

Olmert dice sempre di auspicare un negoziato bilaterale, ma quando arriva il momento di negoziare non accetta mai di discutere con tutti i Paesi arabi. Quando vuole il riconoscimento e la normalizzazione dei rapporti, però, li riunisce tutti: è questo il suo giochino, e gli arabi e i palestinesi lo conoscono molto bene. C’è il timore che il vertice di Annapolis (o riunione, o incontro, comunque lo si voglia chiamare) sia stato organizzato con lo scopo di costituire un fronte anti-iraniano, ciò che nulla ha a che fare con la soluzione del problema palestinese. La paura c’è ed è viva nella mente e nell’animo di tutti gli arabi e musulmani, possiamo dirlo con molta franchezza. Si vuole giocare la carta della divisione tra sunniti e sciiti, la quale tuttavia è riscontrabile tra i regimi e i loro sostenitori, ma tra la popolazione araba e quella islamica tale divisione non c’è, non esiste. Ce ne accorgeremo tra poche settimane, quando inizierà il periodo del pellegrinaggio, che riunisce sunniti, sciiti, ismaeliti, musulmani, senza distinzioni di sorta. Chi non ha vissuto quella esperienza non può capire. Le divisioni non esistono, non ci sono. Neanche quelle di tipo rituale: tutti hanno lo stesso rito e utilizzano le stesse parole. E allora, quando non si è trovato in Palestina un divario tra sunniti e sciiti, si è evocato lo scontro tra Hamas e Fatah. Questo probabilmente rivela ancora una volta l’importanza e il valore dell’unità nazionale e dello Stato democratico. Il primo slogan dei palestinesi, infatti, è: ‘Creare uno Stato democratico in Palestina’. Uno Stato democratico e laico dove cristiani, musulmani ed ebrei possano vivere in pace. Questo è un principio fondamentale fissato per la prima volta nell’ormai lontano 1965. Negli anni, cioè, che videro la nascita di Al Fatah, del movimento palestinese e di quella che una volta veniva chiamata la ‘rivoluzione palestinese’, il cui fine non era assolutamente quello di creare uno Stato musulmano o arabo.

Una novità di Annapolis è la presenza della Siria, che risaputamente appoggia diversi movimenti palestinesi contrari agli accordi di Oslo. Qual è il significato della presenza siriana?

La Siria si trova in una posizione molto difficile. Non si può parlare di mondo arabo senza la Siria. Non si può parlare di guerra nella regione mediorientale senza la Siria. Non si può parlare di lotta senza la Siria. La Siria intesa come paese, non come regime. La Siria intesa come culla e cuore del mondo e dell’oriente arabo. Alla luce della politica che attualmente persegue, non si può parlare neanche di pace senza la Siria. Non dico che non si debba tenere conto del fattore libanese e del Libano, ma la Siria aveva diritto più di tutti a essere presente in questa riunione, perché ha il territorio del Golan occupato, e finora tutte le risoluzioni internazionali dell’Onu – visto che tanti sono bravi a parlare soltanto di legalità internazionale – hanno sancito che esso deve essere interamente restituito, senza alcuna concessione. La Siria ha manifestato l’intenzione di non partecipare ad Annapolis qualora non fosse stata discussa, o inserita ufficialmente nell’ordine del giorno, la questione del Golan. In altre parole, voleva un impegno. Sapete perché si è fatta una dichiarazione congiunta e non almeno un quadro di accordo? Perché la dichiarazione congiunta, a differenza di un’agenda scritta, non impegna nessuno.

E soprattutto non impegna Olmert, né gli Stati Uniti. Ecco, a mio parere la Siria ha voluto tenere il piede in due staffe. Non voleva, cioè, lasciare che tutti si recassero ad Annapolis senza discutere del Golan, né tuttavia dare l’impressione di pugnalare alle spalle i suoi alleati tra cui figurano, prima dell’Iran, alcune forze politiche libanesi e palestinesi, compresa l’Anp. Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha vissuto buona parte della sua vita a Damasco, dove era addirittura considerato un siriano. Soltanto dopo gli accordi di Oslo lasciò il Paese. Ma la sua vita politica, così come quella di Al Fatah, era in Siria. Per questo, data la sua importanza, la Siria non poteva mancare all’appuntamento di Annapolis. Ora, si è rotta l’alleanza tra Iran e Siria? Questo è un altro discorso. Oggi non si può parlare dell’Iraq o dell’Iran senza tirare in ballo la Siria: quest’ultima dice “no” a quella che sembra una resa totale al volere americano nell’area e al rifiuto, da parte di alcuni esponenti israeliani, di discutere i cinque punti fondamentali che abbiamo sopra ricordato.

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