Un’occasione d’oro per Pechino
Dave Wang 23 October 2007

Nei giorni scorsi New Light of Myanmar, il quotidiano filo-governativo di lingua inglese, ha annunciato il “ripristino della pace e della stabilità e la ripresa dei commerci e della circolazione a Yangon”. In effetti per le strade di Yangon, la principale città del Myanmar (Birmania), non si vedono più sfilare i cortei pacifici a cui avevano partecipato migliaia di monaci buddisti e laici, ma forse è ancora troppo presto per poter affermare che le manifestazioni fanno ormai parte del passato. Il sipario sul vero dramma del Myanmar, che avrà pesanti ripercussioni sul futuro del paese, si è appena alzato.

Dopo la sanguinosa repressione in Myanmar, alcuni esponenti di spicco dell’amministrazione Bush hanno incontrato le autorità cinesi sollecitandole ad esercitare la loro influenza sui vertici del Myanmar per favorire la transizione verso un nuovo governo. Il 27 settembre nello Studio Ovale si è svolto un incontro fuori programma tra George W. Bush e il ministro degli Esteri cinese, Yang Jiechi, nel corso del quale il presidente statunitense ha esortato Yang Jiechi a far sì che la Cina “eserciti la propria influenza” sul Myanmar per garantire una transizione pacifica verso la democrazia. Anche il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, aveva sollevato la questione del Myanmar nel corso del colloquio avuto con il ministro degli Esteri cinese poco prima dell’incontro con Bush. La questione è stata inoltre affrontata a Pechino da Christopher R. Hill, sottosegretario di Stato Usa per l’Asia.

I funzionari cinesi tuttavia hanno “eluso la richiesta, definendo la rivolta in Myanmar una questione di politica interna”. Come la Russia, anche la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto, ha dichiarato che la situazione nel Myanmar non costituisce una minaccia alla pace e alla stabilità internazionali. L’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, Wang Guangya, ha affermato infatti che la crisi che il paese sta affrontando è “fondamentalmente interna”, e ha aggiunto che “nessuna soluzione imposta a livello internazionale può migliorare la situazione”. La Cina vuole che sia il governo del Myanmar a “gestire la questione”.

Perché l’amministrazione Bush sta concentrando i suoi sforzi diplomatici sulla Cina? La ragione più evidente è che gli Stati Uniti “hanno scarsa influenza diretta sulla giunta militare birmana”: Bush si è limitato a una condanna formale e a sanzioni simboliche. L’altra ragione è che la Cina è diventata un attore fondamentale della politica internazionale. La Cina “si sta imponendo sempre più sulla scena mondiale”. È interessante notare che la dipendenza dell’amministrazione Bush dalla Cina è ormai una realtà accettata anche da esponenti autorevoli del ramo legislativo del governo americano. Tom Lantos, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera, ad esempio, ritiene che la Cina sia cruciale nella soluzione della crisi in Myanmar: “Se le autorità cinesi si decidessero a fare pressioni sulla Birmania, la situazione cambierebbe (sic) all’istante”, ha affermato Lantos.

Secondo l’incaricata di affari Usa in Myanmar, Shari Villarosa, tutti i paesi devono esercitare pressioni sulla giunta birmana: occorre fare “pressione, pressione e ancora pressione”, ha dichiarato. Il problema però è chi si assumerà questo compito. Gli Stati Uniti non possono, per ovvi motivi, svolgere un ruolo del genere: è vero che l’amministrazione Bush ha minacciato di imporre ulteriori sanzioni qualora il governo birmano non allenti la presa sul paese, ma gli scambi commerciali dell’America con il Myanmar sono così ridotti che qualsiasi tipo di sanzione non sortirebbe grande effetto. È evidente a questo punto che è la Cina la prescelta per questa missione.

La Cina ha forti interessi politici, economici e militari nel Myanmar, che dispone di 1.200 miglia di costa tra il Golfo del Bengala e il mar Andaman. Per giunta, Pechino ha proposto la costruzione di un gasdotto che dal Golfo del Bengala, attraverso il Myanmar, arriverà fino alla provincia cinese di Yunnan. Ma anche gli Stati Uniti hanno interessi in quell’area: alcune compagnie petrolifere, come la Chevron, hanno grosse partecipazioni nei vasti giacimenti di gas del Myanmar. Perciò non è peregrino affermare che “in situazioni come queste i cinici intrallazzi sono davvero ignobili, perché le grandi potenze hanno di mira sempre e soltanto i loro interessi geopolitici, mai l’autentica tutela dei diritti umani (Thalif Deen, Politics: ASEAN Backs Neither U.S. Nor China over Burma pubblicato su Inter Press Service).

È indubbio che prima o poi la Cina si assumerà, seppur con riluttanza, questa responsabilità e coopererà con gli Stati Uniti per la soluzione del conflitto in Myanmar. Per Pechino questa è un’occasione provvidenziale per dimostrare al mondo intero che la Cina è un “partner responsabile” della comunità internazionale. Come è stato per la soluzione della crisi nucleare nella penisola coreana, così la soluzione della crisi in Myanmar potenzierà l’immagine e il prestigio della Cina nel mondo. Il governo cinese guidato da Hu Jintao si sta adoperando molto per promuovere l’immagine di una società armoniosa; del resto Pechino deve tener conto di un altro fattore importante: questa condotta virtuosa la metterà al riparo da una possibile campagna di boicottaggio delle prossime Olimpiadi da parte degli attivisti per i diritti umani, ipotesi questa che la Cina vuole evitare a tutti i costi.

La cooperazione forzata tra la Cina e gli Stati Uniti per la soluzione della crisi in Myanmar non significa necessariamente che la Cina assomiglierà sempre più agli Stati Uniti sotto il profilo politico, costituisce però un’ulteriore conferma di una verità immutabile, ossia che gli interessi geopolitici nazionali vengono sempre anteposti alla tutela dei diritti umani degli altri paesi. È sulla base di questa valutazione che la Cina e gli Stati Uniti si sono alleate per estromettere Pyongyang dal club del nucleare. La cooperazione forzata tra le due superpotenze sta dando i suoi frutti. La Cina si è unita agli Stati Uniti nella condanna contro la brutale repressione delle manifestazioni in Myanmar, e così il capo della giunta birmana, il generale Than Shwe, ha fatto una qualche concessione: ha fatto sapere all’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, di essere disponibile a incontrare l’attivista democratica Daw Aung San Suu Kyi, e a tal fine ha nominato il vice ministro del Lavoro quale mediatore con la leader dell’opposizione.

Dave Wang è Manager della Hollis Library e professore aggiunto della St. Johns University

Traduzione di Marianna Matullo

SUPPORT OUR WORK

 

Please consider giving a tax-free donation to Reset this year

Any amount will help show your support for our activities

In Europe and elsewhere
(Reset DOC)


In the US
(Reset Dialogues)


x