Secolo, e derivati, da resettare
Giancarlo Bosetti 4 March 2008

Non c’è al mondo una situazione tipo in cui una discussione sul secolarismo possa partire da presupposti comuni e certi circa il significato della parola. È vero per il secolarismo, come è vero per la laicità. Se si esce dai confini nazionali, o anche soltanto da un’area culturale omogenea, ogni volta i concetti vanno riparametrati, resettati. L’esperienza, nella discussione, nei pubblici incontri, nelle letture, mi insegna che nulla va dato per scontato. La definizione standard – la più diffusa in Occidente – di secolarismo e secolarizzazione è quella che rappresenta la condizione (secolarismo) o il processo (secolarizzazione) come qualcosa di coincidente con la modernità, intanto in quanto la modernità libera la società e le istituzioni da una legittimazione religiosa, riduce ogni pretesa di sottoporre la sovranità dello Stato, i fondamenti della giurisdizione, la ricerca scientifica e molti altri aspetti della vita pubblica, a Dio o a qualche entità trascendente.

Non è risolutivo neppure lo sforzo di tracciare un preciso quadro di traduzioni, seguendo in ogni lingua le vicissitudini di secolare, laico, laicista, secolarista. Alessandro Ferrara e Agostino Giovagnoli fanno bene qui, da punti di vista in parte diversi, a passare in rassegna qualcuna di queste peripezie linguistiche, perché ci si imbatte presto, per esempio, nella ben nota «eccezione francese», quella della «laicité republicaine» (un secolarismo, diciamo così, con additivi) di fronte alla quale spunta, al polo opposto, la eccezione americana del «political liberalism» (una forma di laicità più permeabile al pluralismo religioso nella vita pubblica), dai padri fondatori a Rawls. Generosa al punto che c’è chi ha introdotto l’iperbole della «teocrazia americana» (Phillips Kevin, nell’omonimo libro) per descrivere polemicamente il periodo più recente da Jimmy Carter a George W. Bush.

E poi l’India, con un suo originalissimo, a sua volta eccezionale, modello di convivenza, civile e spirituale, tra confessioni diverse nella sfera pubblica. E poi il mondo musulmano, estremamente diversificato, ma dove, a eccezione della Turchia, il differenziale di secolarismo, rispetto all’Occidente, risulta evidente, al punto che spesso il secolarismo viene apertamente definito come quella condizione della modernità che non si è (ancora) realizzata nei paesi musulmani. Chi pensa che basti pronunciare la parola «laico» o «secolare» nel modo che piace a lui per dissolvere ogni dubbio si rende semplicemente ridicolo. Quando si resetta l’orologio ci si regola su uno standard internazionale, non sull’ora interiore. Sempre che si voglia comunicare con gli altri.

Le molte possibili ambiguità

Se si chiede aiuto a Wikipedia (inglese) il quadro si complica e arricchisce: laïcité è il concetto francese che indica la separazione di Stato e religione, e qualche volta viene reso da quello che in inglese è un neologismo, laicity, oppure tradotto anche con la parola secularity e secularization. La stessa parola, laïcité, altre volte viene caratterizzata come priva di un equivalente inglese, simile alla definizione più moderata di secularism, ma meno ambigua. Il secularism allora è moderato e infatti descrive la indipendenza della politica dalla religione in generale, ma altre volte si presenta come una ideologia che persegue questo obiettivo, anche in forme estreme, e in quel caso l’aggettivazione inglese distingue tra organizzazioni secular (vale a dire semplicemente laiche) da organizzazioni secularist, che fanno di quella separazione il fine di una battaglia politica e ideologica. Similmente in italiano (ma anche in inglese, purché si convenga sulla distinzione) si distinguono laici da laicisti, e laicità da laicismo. Ce n’è abbastanza per capire che ogni volta un concetto di questa famiglia deve essere accompagnato da indispensabili spiegazioni. Gli spazi per l’azione retorica che si esercita sulle molte possibili ambiguità tra questi termini sono dunque infiniti.

Non basta di conseguenza, per definire una intesa linguistica, declinare i tratti fondamentali della storia degli ultimi tre secoli, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese, da Napoleone al comunismo, che secolarizzarono nel senso etimologico (espropriando le proprietà ecclesiastiche) il paesaggio materiale e spirituale europeo. Non basta, neanche per il solo mondo occidentale, richiamare i testi e gli autori classici che rappresentano passaggi canonici del distacco della modernità dalla religione: Marx, Freud, Weber, Durkheim. Bisogna ogni volta, a ogni nuova discussione chiarificare i presupposti delle parole, la relazione al contesto in questione, a scanso di gravissimi fraintendimenti, anche perché vi sono molti attori che in questa discussione sono in conflitto di interesse e cercano di allargare o restringere il significato di un concetto per migliorare la propria posizione in campo.

Faccio l’esempio del cardinale di Chicago, Francis George, che nello spazio di un solo testo, (il discorso pronunciato alla Biblioteca del Congresso a Washington, nel febbraio del 2007) peraltro brillante e filosoficamente attrezzato di idee rawlsiane, usa prima il concetto di secolarismo per descrivere la dimensione neutrale dello spazio pubblico nei confronti delle diverse religioni, e poi però procede immediatamente a lamentare il fatto che questa neutralità, che dovrebbe essere bene accetta anche alla Chiesa cattolica, si stia trasformando a suo giudizio in una supremazia di opinioni partigiane sul matrimonio gay, l’aborto ecc. e in un trionfo del relativismo etico. Ma questa situazione, che agli occhi del cardinale George è oltremodo distorta, viene collocata da lui sotto la stessa etichetta di «secolarismo» e non, poniamo, di «secolarismo partigiano», o «secolarismo trasformato», o meglio ancora «ipersecolarismo». Continuerei a non concordare con lui su molte cose, ma la sua definizione della situazione sarebbe più coerente. Quando il cardinale George si chiede: «Che tipo di democrazia porta al secolarismo?» si riferisce al secolarismo come a una piaga da estirpare, il che è decisamente preoccupante se quella parola invece viene usata anche per designare i tratti liberali e pluralisti della democrazia costituzionale americana. Si tratta di un pericoloso equivoco linguistico. E soltanto questo?

Il cardinale americano (e altri ecclesiastici con lui) fa certo un uso partigiano del concetto, trattando la parola che descrive un processo storico, in ultima analisi il liberalismo, come un sinonimo di «ideologia anticlericale ». Ma si sbaglia anche chi rovescia retoricamente questi eccessi, rifiutando la distinzione tra laicità e laicismo, come fa Massimo Teodori su «MondOperaio» (n. 6, 2007), riproponendo una retorica antireligiosa, che aveva ragion d’essere in altre fasi della storia d’Italia. Ben vengano le distinzioni tra diversi gradi e forme della laicità, vecchia e nuova, più o meno radicale, anche se naturalmente non c’è formula che sia risolutiva dei conflitti politici, che vanno esaminati e risolti uno per uno.

La distinzione tra laici e laicisti

Se cerchiamo lumi nei testi della Chiesa romana troviamo che sia il pontefice che i cardinali quando vogliono criticare quelli che, ai loro occhi, sono eccessi antireligiosi parlano di «effetti negativi» del secolarismo, ma non denigrano il secolarismo in quanto tale, alla maniera del cardinale George in quel discorso. Di questo prendono atto come di un processo storico. Nello stesso modo è diventata piuttosto comune la distinzione tra laici e laicisti, sancita dal Grande Dizionario delle religioni (diretto dal cardinale Paul Poupard, Piemme, 2000), dove per laicismo si intende storicamente «la tendenza a escludere la Chiesa dalla società». Lo stesso Dizionario tratta esplicitamente la distinzione tra due tipi di secolarizzazione: il primo tipo è il movimento che conduce alla secolarità, il secondo è quello che conduce al secolarismo. E mentre la secolarità designa l’autonomia della realtà terrena rispetto all’istituzione ecclesiastica e il divenire adulto dell’uomo (aspetti benigni di cui anche la Chiesa prende dunque atto), il secolarismo è una ideologia immanentista e atea, chiusa ai valori della religione (e dunque destinata a rimanere nell’area del maligno). Come nel discorso del cardinale George, che in quel caso – se cioè avesse voluto usare la formula Poupard – avrebbe fatto bene specificare che il bersaglio della Chiesa è un secolarismo distinto dalla secolarità! Sottigliezze che evidentemente scompaiono appena il contrasto si fa duro.

Gli equivoci nel mondo islamico

Sarebbe comunque un’illusione ritenere queste, o altre, parole conclusive di un cammino semantico, destinato a proseguire ancora a lungo, specialmente perché le relazioni culturali internazionali sempre più strette anche tra mondi lontani e diversi mettono fuori gioco i confini di ciascuna lingua. Indescrivibile la quantità di equivoci che si generano nel mondo islamico. Una conferenza su «Islam e secolarismo» può rivelarsi un incontro di impronta liberale e occidentalizzante, pensato dagli organizzatori quasi come equivalente di «Islam e democrazia» (dal momento che la separazione di politica e religione è una caratteristica delle istituzioni liberali), ma potrebbe altrettanto legittimamente trattarsi di un incontro per la promozione di una nuova spiritualità in presenza di tendenze antireligiose, evidenti anche nei paesi islamici. Dunque contro il secolarismo. In Egitto un intellettuale che si definisca secolare è con molta probabilità qualcuno che si è collocato all’opposizione all’epoca di Sadat e delle sue riforme che hanno corretto la Costituzione in senso religioso e oggi è vicino alle posizioni al potere con Mubarak, ma l’insistenza sul «secolare» può sottintendere simpatie per il passato nasseriano, per il socialismo arabo o per il comunismo. Il presidente dell’Associazione egiziana degli scrittori, Mohammed Salmawi, sostiene che per chiarezza si debba sostituire l’inglese «secular» con «civil», se si vuole rendere chiaro in Egitto quello che noi intendiamo con laico o secolare.

Di questa varietà di situazioni è testimonianza un recente volumetto di Jean Baubérot. L’autore insegna «Storia della laicità», tema a cui ha intitolato suoi precedenti lavori, pubblica ora «Les laïcités dans le monde» (PUF, 2007), al plurale dunque. Si tratta dell’inizio del disegno di una mappa, da Parigi a Giacarta, dal canone della laïcité al teismo di Stato (pluralistico) indonesiano, dalla «religione politica» americana al pluralismo indiano: una mappa attraverso la quale analizziamo lo stato dell’arte in ciascuna situazione nei rapporti tra Stato, società e confessioni, e grazie alla quale la storia degli altri getta qualche utile luce, nel bene e nel male, sulla nostra. Imparare oggi a destreggiarsi in un’opera di traduzione delle parole che descrivono «le laicità», o le relazioni tra confessioni, istituzioni e società nei diversi contesti, è il contributo preliminare che si può offrire alla causa delle buone relazioni tra diverse culture. Le società che più vanno fiere delle loro pratiche di libertà dovrebbero sapersi offrire non soltanto come esempi di territorio culturale capace di neutralizzare i conflitti tra religioni, e tra religioni e non-religione, ma anche come centri di irradiazione di un dialogo sapiente, in cui ciascuna parte impara a comprendere anche il linguaggio degli altri, a disinnescare gli esclusivismi espliciti e impliciti.

La politica offre naturalmente, al suo peggio, uno spettacolo prosaico ben diverso, in cui i profittatori del risentimento sembrano prevalere sui promotori della comprensione. Ma la realtà dovrebbe alfine prevalere con l’inevitabile spinta al pluralismo che viene dagli spostamenti più frequenti, dall’immigrazione, dall’educazione, dalla global city che include gli abitanti del pianeta in misura crescente. È certamente vero che questa situazione presenta analogie con la rivoluzione industriale e l’urbanizzazione di oltre due secoli fa e che come allora si producono fenomeni di smarrimento dell’identità, di gelosia, invidia e rancore. Lo sradicamento da vecchi borghi e l’avvicinamento, nella intimità della dimensione urbana, di gente con cultura e fede diverse produce contrasti e tensioni che si scaricano sull’Altro, tanto più che la certezza di un maggior benessere diventa sempre più debole. Nuove sfide si presentano, prima ancora che per la politica, per la nostra capacità di comprendere quel che sta accadendo. Non si sfugge al fatto che una discussione sulla laicità e il secolarismo oggi costringe la società – in presenza di tanti fatti nuovi – a ridefinire se stessa, proprio mentre si stanno dissolvendo identità sociali e sicurezze del mondo di ieri.

La guerra laici-cattolici

I fautori di un laicismo confrontational, agguerrito perché formatosi nella temperie delle battaglie contro una Chiesa invasiva, egemone e maggioritaria, come nell’Italia contadina della prima metà del secolo scorso, sembrano spesso non meno sconcertati dei nostalgici di un incanto religioso della società che non c’è più. La persistenza della religione viene vissuta da questa minoranza come una sconfitta quotidiana dei Lumi a opera delle tenebre, come la rivincita di un residuo di ignoranza, una specie di condanna che costringe a tenere la guardia sempre alzata contro rischi di controllo sociale a opera del clero. La previsione che il pensiero laico abbia dismesso quasi del tutto le tendenze irreligiose (la faceva Valerio Zanone, nel Dizionario di politica, Utet 2004) si rivela solo parzialmente vera, anche in ragione del perdurare di posizioni integraliste nella Chiesa e tra i cattolici, che però si presentano con un ventaglio piuttosto largo di posizioni, più o meno ambiziose, più o meno invadenti e rispettose della «secolarità » della società e delle istituzioni.

In Italia un contenzioso tra cattolici e non rimane inevitabilmente aperto sulla famiglia, la scuola, la legislazione su questioni bioetiche, la libertà sessuale, ma la dialettica cui dà luogo è perfettamente compatibile con la democrazia, non meno dei conflitti sul prelievo fiscale o sulle missioni militari all’estero. Quello che stupisce è che posizioni riflessive da ambo le parti non abbiano definitivamente la meglio, ma che una certa coazione a ripetere «giochi di ruolo» – clero invasivo contro laicisti intransigenti – continui a rimanere sulla scena.

Si tratta probabilmente di «identità reattive» dovute proprio al fatto che, da una parte, la condizione di chi professa una fede religiosa è diventata minoritaria e che quella dei laici (laici, laicisti, secolari o secolarismi) è diventata tendenzialmente maggioritaria. I primi inaspriscono la loro intransigenza e trovano nell’integralismo una bandiera di resistenza che dovrebbe surrogare la perduta egemonia. I secondi – figli di tradizioni politiche diventate orfane – cercano nell’intransigenza laica un surrogato di identità politiche e culturali per il resto evanescenti. Ecco perché la guerra laici-cattolici finisce per essere largamente invocata da minoranze che vorrebbero rinforzare a tutti i costi il senso della loro presenza sulla scena. È possibile che quella dimensione del nostro tempo – che Habermas chiama post-secolare – invece che come dimensione di dialogo appaia a molti – a torto o a ragione – come una minaccia per la propria esistenza.

Una delle conseguenze, tra le altre, di questa litigiosità – di minoranze rumorose – è che rende più difficile la comprensione dello scenario internazionale: l’idea che sia sufficiente accompagnare la locomotiva dello sviluppo per vedere affermarsi la modernità, e con lei la liquidazione del sacro e degli integralismi connessi, si scontra alla prova dei fatti, con una realtà che sembra muoversi in direzione opposta: risorgere delle religioni su scala globale, soprattutto attraverso la crescita della loro «visibilità», della loro richiesta di non restare rinchiuse in una dimensione privata e di avere parte rilevante nella vita della società, andando a occupare territori che la politica ha sgomberato. La secolarizzazione ha dunque rallentato la sua marcia per lasciare il passo a un movimento contrario? De-secolarizzazione? O de-privatizzazione? O come lo definisce qualcuno «post-secolarismo»? Bisogna distinguere, come suggerisce di fare Habermas nel recente discorso pubblicato su questa rivista (La voce pubblica della religione, «Reset», n. 104) tra secolarismo politico istituzionale, e cioè la separazione tra Stato e confessioni religiose, e secolarismo sociale, vale a dire la minor diffusione della pratica religiosa nella popolazione. Il primo è una condizione inevitabile della democrazia liberale. Il secondo è una condizione di fatto relativamente indipendente dalla natura dello Stato: un paese può registrare un declino nella pratica religiosa tra i suoi cittadini ma essere governato da una teocrazia (l’Iran, per esempio), o all’opposto può avere un tasso altissimo di assiduità alla funzioni sacramentali ma essere retto da un sistema laico (la Turchia).

Il “secolarismo 3” di Charles Taylor

Charles Taylor introduce un terzo tipo di secolarismo – chiamiamolo «secolarismo 3» – che riguarda il cambiamento in corso considerato sotto il profilo della psicologia e dell’immaginario: la vicinanza di altre fedi a causa dell’immigrazione, dei viaggi a basso costo, la contiguità tra diverse culture, la diminuzione della partecipazione alla vita attiva delle chiese, l’affermarsi impetuoso di modelli culturali e stili di vita variegati nel gran bazar del paesaggio mediatico. Tutto questo ci mette di fronte a una condizione nuova, recente, senza precedenti: oggi professare una fede, vivere nella dimensione di una determinata religione non è più la situazione di base offerta agli esseri umani del mondo occidentale: credere in Dio non è più la situazione di default, la tipica condizione di un tempo in cui quella fede era condivisa dalla maggioranza, se non dalla totalità, della popolazione in mezzo alla quale capitava di nascere e di vivere.

Credere nel Dio della tradizione in cui si è cresciuti non è più la condizione di mainstream, una condizione «naturale», quella di una fede data per scontata, come era quella cattolica per un italiano o uno spagnolo, e come è quella musulmana per un egiziano o un turco (aggiungo «finora» e lo dico comunque con qualche esitazione perché anche quelle non sono più situazioni congelate). Non è più così, credere in una fede è una opzione tra altre opzioni: credere in altra fede, vivere culturalmente dentro un’altra religione, credere in una trascendenza senza particolari nomi e catechismi, essere atei, essere agnostici, coltivare altre forme di appartenenza e di affiliazione spirituale. La condizione del credente nel mondo occidentale non è né più naturale né più facile di quella del non credente, non è più una condizione incorporata e trincerata nella situazione sociale, non è più incontrastata, non è più quella condivisa da una pacifica consenziente maggioranza, ma è una scelta che espone a battaglie. Spiega Taylor: ci siamo spostati da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio a una in cui anche per il più solido dei credenti il credere è una delle umani possibilità che sono offerte alla nostra scelta. La fede in Dio non è più assiomatica. Ci sono alternative.

Se il «secolarismo 1» descrive la separazione istituzionale tra le Chiese e lo Stato liberale, e il «secolarismo 2» descrive il livello di partecipazione alla vita religiosa dei fedeli misurabile sociologicamente, il «secolarismo 3» è la descrizione di questo nuovo mondo in cui l’opzione religiosa è una tra le tante possibili, non più di default, secondo la efficace espressione informatica di Taylor. Un mondo di opzioni aperte, che se vede diminuire il numero dei fedeli non fa scendere quello delle religioni, che, al contrario, aumentano: ci sono nel mondo 9.900 religioni autonome, con una tendenza alla crescita, e ogni giorno se ne aggiungono di nuove. Il cristianesimo ha oggi 33.000 confessioni, contro le 1.800 del 1900. Aumenta il numero delle «lingue» che interloquiscono sulla scena pubblica delle società che si collocano dentro il «secolarismo 3». Dal punto di vista della comprensione interculturale – non più solo internazionale perché passa all’interno di ciascuna società – nuove possibilità, ma anche nuove difficoltà si presentano. In questa Babele delle culture e delle religioni (non-religioni comprese, ateismi, agnosticismi, filosofie, movimenti spirituali) la neutralità dello Stato liberale è assolutamente necessaria per regolare il traffico e ridurre i conflitti, ma non è più sufficiente.

La dotazione istituzionale di «secolarismo 1» (Costituzioni liberali) è dunque indispensabile, quali che siano i livelli di «secolarismo 2». Ma il «secolarismo 3» richiede anche un impegno attivo e sistematico, con adeguati strumenti, per la comprensione degli altri, delle altre opzioni. Ha ragione chi parla di uno sforzo speciale che andrà investito nell’opera immane di traduzione che tocca alle nostre società, anche perché molte di queste opzioni in campo rivendicano il diritto a far sentire di più la loro voce. Il principio di questo mondo (descritto da «secolarismo 3» – e non tanto diverso da quel che Habermas ed Eder chiamano post-secolarismo) non può che essere quello dell’eguale rispetto, negli ordinamenti liberali, tra confessioni e opzioni. Un uguale rispetto che dovrà ispirare il trattamento delle religioni e con esse delle posizioni non-religiose.

Nota bibliografica

Una versione polemica e molto critica verso la tendenza americana a usare la religione come ideologia di copertura e sostegno gli interessi materiali e militari americani è in Kevin Phillips, La teocrazia americana, Garzanti, 2007. La versione italiana del discorso al Congresso di Washington del cardinale Francis George, What Kind of Democracy Leads to Secularization?, pronunciato il 13 febbraio 2007, è comparsa su «Vita e Pensiero», N. 3 di quest’anno. Per questa discussione sono utili del Dizionario di politica, a cura di Bobbio, Matteucci, Pasquino (Utet) le voci Laicità di Valerio Zanone e Stato e confessioni religiose di Francesco Margiotta Broglio. Il numero di «Mondoperaio» (6-2007) dedicato alla laicità oltre al qui citato articolo di Massimo Teodori, Laicismo e laicità: l’imbroglio di una falsa contrapposizione, contiene un articolo di diverso segno, del direttore Luciano Pellicani, I valori dello Stato laico, il quale nella difesa di una ispirazione nettamente secolare riconosce però al cristianesimo che «senza la sua presenza attiva, l’Europa risulterebbe assai impoverita, spiritualmente e moralmente. Tanto più che il «bisogno metafisico» non si è certo spento con il trionfo della «scienza profana»: una scienza costitutivamente incapace di rispondere alle domande circa il senso ultimo della vita». Di Mircea Eliade si veda Miti, sogni, misteri, Lindau 2007. Per l’uso di «civile» invece di «secolare» suggerito da Mohammed Salmawi, si veda la discussione apparsa sulla rivista web «Resetdoc» dell’Associazione Reset-Dialogues On Civilizations (www.resetdoc.org). Sull’aumento del numero delle religioni nonostante la diminuzione del numero dei fedeli si veda il saggio di Klaus Eder sul postsecolarismo presentato recentemente alla Università Bicocca di Milano a cura di Marina Calloni per il Dipartimento di sociologia, e in corso di pubblicazione; ma anche gli articoli di Eder comparsi su Reset. Per i rimandi agli effetti della rivoluzione industriale e alla sociologia dello straniero di Georg Simmel: Alessandro Pizzorno, Il velo della diversità, Feltrinelli, 2007. L’imponente volume di Charles Taylor, A Seculare Age, è apparso nel 2007 per Harvard University Press.

Giancarlo Bosetti è cofondatore e direttore della rivista Reset. Insegna giornalismo all’Università La Sapienza di Roma.

Questo scritto è stato presentato al convegno di Reset-Dialogues on Civilizations “What is Secularism”, organizzato nell’ambito della giornata mondiale della filosofia dell’Unesco, che si è tenuta a Istanbul il 22 novembre 2007.

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